martedì, 23 Aprile 2024
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National Book Awards 2022: Samanta Schweblin vince il premio per la letteratura tradotta

In occasione della 73ª edizione dei National Book Awards, tenutasi lo scorso mercoledì 16 novembre al Cipriani Wall Street di New York, la scrittrice argentina Samanta Schweblin e la sua traduttrice Megan McDowell hanno vinto il National Book Award 2022 nella categoria Letteratura Tradotta per la traduzione inglese della raccolta di racconti “Siete casas vacías”.

Insieme alla scrittrice argentina, a contendere uno dei più prestigiosi premi letterari assegnati annualmente negli Stati Uniti, tra i finalisti anche la scrittrice ecuadoregna Mónica Ojeda, il norvegese Jon Fosse, la scrittrice Scholastique Mukasonga dal Ruanda e la giapponese Yoko Tawada, che vinse nel 2018 nella stessa categoria con “The Emissary”.

L’opera di Schweblin è stata pubblicata per la prima volta nel 2015 dalla casa editrice spagnola Páginas de Espuma, e con 27 edizioni in sette anni è già diventata un punto di riferimento nella narrativa latinoamericana incentrata sul terrore quotidiano e sul paranormale. Il libro raccoglie, infatti, sette storie che esplorano il genere fantastico, dove i legami familiari, le case abitate dai personaggi e i narratori diventano progressivamente e inquietantemente rarefatti.

Secondo quanto riportato da El País, Juan Casamayor, editore di Páginas de Espuma, sostiene che l’opera sia diventata un racconto classico di questo primo quarto di secolo: «È un libro che anticipa alcune narrazioni di prospettive insolite e letterarie che oggi vengono diffuse anche grazie ad altre voci. Tra tutte, una delle prime è stata proprio Samanta», afferma, mentre in Spagna si prepara la ventottesima edizione del libro.

Da quando nel 2001, a soli 24 anni, ha vinto il Fondo Nazionale per le Arti per la sua prima raccolta di racconti “Núcleo del disturbio”, Schweblin è diventata una delle autrici argentine più premiate della sua generazione. Tra gli altri riconoscimenti, la scrittrice ha vinto anche il Casa de las Américas di Cuba nel 2008, il Premio Juan Rulfo nel 2012, il premio spagnolo Tigre Juan nel 2015 e il Premio Shirley Jackson 2018 per il suo romanzo breve “Distancia de rescate”, che un anno prima era stato finalista al Booker Prize britannico.

Durante la cerimonia di premiazione, la scrittrice ha dedicato un ringraziamento speciale alla sua traduttrice Megan McDowell, che ha dichiarato: «Gli scrittori sono persone che lottano con le parole; lo stesso vale per i traduttori. Dico sempre che ogni atto di comunicazione è una traduzione. E ho imparato molto dagli atti di comunicazione e dalle traduzioni degli scrittori», come riportato da El País.

Anche la McDowell riporta una carriera di spicco: per cinque anni consecutivi è stata nelle short list dei più prestigiosi premi per la traduzione dallo spagnolo per traduzioni di opere di altre stelle della letteratura sudamericana come Mariana Enríquez, Alejandro Zambra, Lina Meruane o Carlos Busqued.

Austria, Serbia e Ungheria a Belgrado unite per una rotta balcanica invalicabile

I dati delle ultime settimane sembrano dar ragione alle proteste dei tre paesi balcanici per quanto riguarda i flussi fuori controllo: quest’anno più di 100.000 persone sarebbero entrate in Europa attraverso i Balcani, un numero da record. L’Ungheria parla inoltre di 250.000 persone fermate dalla polizia magiara lungo la frontiera serba solamente nell’ultimo anno.

Mentre Vienna denuncia un numero folle di richieste d’asilo, il premier ungherese Orbán rincara la dose e come riportato da euronews, dichiara che “Non c’è bisogno di gestire la migrazione, c’è bisogno di fermarla”, insomma una posizione molto forte alla quale fanno eco anche da Belgrado.

Ed è proprio a Belgrado che i tre paesi hanno firmato un memorandum per impegnarsi nella lotta alle rotte clandestine e soprattutto ai trafficanti di esseri umani, che pare siano diventati molto più violenti e spietati con chi si mette in viaggio nella speranza di un futuro migliore.

A fornire alcuni dettagli su come si intende procedere è stato il presidente serbo Vučić: la “prima linea” contro la rotta sarà la frontiera serbo-macedone, lungo la quale verranno dispiegati agenti dai tre paesi che potranno inoltre usufruire di nuove tecnologie come droni e telecamere termiche per avere un controllo ancora più completo lungo il confine. Chi riuscirà ad eludere questa prima linea dovrà tuttavia fare i conti con altre nuove recinzioni lungo la frontiera con l’Ungheria e poi con l’Austria. Sono inoltre previste nuove regole che renderanno le espulsioni ancora più veloci.

Si preannuncia quindi una svolta drammatica per chi intraprenderà la rotta balcanica, poiché si dovranno scegliere terreni più difficili, che potrebbero diventare potenzialmente mortali durante l’inverno, soprattutto durante le piogge (il momento migliore per i trafficanti per mettersi in marcia ed essere più difficili da individuare). Superare i monti e le fitte foreste della ex Jugoslavia non significherà aver avuto successo: in caso di contatto con le autorità serbe, chi non avrà una richiesta d’asilo ritenuta valida non potrà comunque rimanere nel paese (che finora ha ospitato in via provvisoria gran parte dei migranti economici). Ungheria e Austria prevedono infatti di prestare i loro aerei per rimpatriare i migranti che saranno fermati in Serbia.

In tutto questo il messaggio di Vienna, Belgrado e Budapest è chiaro: le iniziative di Bruxelles riguardanti la rotta balcanica non sono sufficienti e bisogna correre ai ripari affidandosi alla collaborazione con i propri vicini.

Egitto: il padiglione “Mediterraneo” alla COP27

La 27esima Conferenza sul clima, con sede in Egitto dal 6 al 18 novembre, ha ospitato per la prima volta nella storia un padiglione “Mediterraneo”. Lo scopo fondamentale è di evidenziare le molteplici sfide climatiche che la regione deve affrontare.

Il padiglione, luogo di dibattito e di ricerca di soluzioni innovative, ha visto come protagonisti attori pubblici e privati (accademici, tecnici, politici, economisti e attivisti) provenienti dal bacino del Mediterraneo, uniti dall’esperienza comune nel campo dell’economia green e della transizione energetica.

L’iniziativa è stata realizzata grazie al supporto del Segretariato dell’Unione per il Mediterraneo, organizzazione intergovernativa con sede a Barcellona costituita da 43 Paesi dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. Inoltre, la presenza di un consiglio scientifico ad hoc ha dato maggior credibilità all’iniziativa stessa.

Sotto il patrocinio del programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, i partecipanti al padiglione hanno sottolineato le peculiarità dei problemi climatici del bacino del Mediterraneo. L’aumento delle temperature, la minaccia alla biodiversità, i numerosi eventi metereologici eccezionali come la siccità hanno ripercussioni drammatiche sulle condizioni di vita della popolazione locale.

Si stima infatti che la catastrofe climatica, da qui al 2050, sarà la prima causa di migrazione nella regione. In primis per un problema di sicurezza alimentare e di mancato accesso ai beni di prima necessità e, in secundis, per l’insostenibilità delle temperature elevate in alcune aree del Mediterraneo.

Secondo l’ultimo report sul clima dell’IPCC – Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico – il Mediterraneo è la seconda regione del pianeta le cui temperature aumentano più velocemente (+20%). La calda estate dei Paesi dell’Europa meridionale ne è un esempio. Tuttavia, le aree più sottoposte al cambiamento climatico si trovano nella sponda sud del Mediterraneo, dove le disuguaglianze socio-economiche sono largamente diffuse.

Non è un caso, dunque, che la COP27 in Egitto abbia ospitato il padiglione “Mediterraneo”. La COP27, definita anche “la COP africana” per via del sito della Conferenza e dell’importante ruolo assunto dai Paesi africani, ha messo in luce come la lotta al cambiamento climatico debba essere una priorità globale, altrimenti le conseguenze saranno devastanti per tutti.

L’India produrrà il 50% di energia da fonti rinnovabili: il premier Modi al G-20

Durante la sessione “Sicurezza alimentare ed energetica” al vertice del G-20 di Bali, il primo ministro Narendra Modi ha affermato che la sicurezza energetica dell’India è «importante anche per la sua crescita globale, poiché è l’economia in più rapida crescita al mondo», riporta il Times of India. 

La dichiarazione del premier rafforza l’immagine del paese come attore globale responsabile e volto a ridurre le emissioni, soprattutto nell’ottica della partecipazione alla ventisettesima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP27) che si sta svolgendo attualmente in Egitto.

Inoltre, il premier ha aggiunto che le istituzioni multilaterali non sono riuscite ad affrontare le sfide che si sono presentate negli ultimi anni, come la pandemia, il riscaldamento globale, la guerra in Ucraina e i problemi ad essa associati. 

Per questo motivo, il mondo ha alte aspettative nei confronti del G-20 e, sulla scena globale, Narendra Modi si è presentato come convinto ambientalista pronto a soddisfare queste aspettative.

Tuttavia, nonostante l’impegno climatico già annunciato dall’India durante lo scorso vertice sul clima, tenutosi nel 2021 a Glasgow, il carbone attualmente rappresenta il 70% della produzione di elettricità nel paese, mentre le energie rinnovabili contano solo il 12% circa.

A tal proposito, l’argomentazione dell’India consiste nel non ritenere corretto individuare nel carbone il problema principale, in quanto utilizzato principalmente dai paesi in via di sviluppo, mentre i paesi occidentali continuano ad utilizzare altri combustibili fossili, ugualmente dannosi.

La posizione indiana di quest’anno è stata dunque quella di cercare di contrastare la pressione dei paesi per ridurre la sua continua dipendenza dal carbone, spingendo per un accordo ad eliminare gradualmente tutti i combustibili fossili, compreso il gas, da cui Europa e Stati Uniti sono fortemente dipendenti.

È quindi necessario secondo il governo indiano, in nome della sicurezza energetica e dell’autosufficienza, che il paese approfitti delle sue vaste riserve di carbone.

Tenendo conto del piano di Modi, infatti, il paese prevede di aumentare la sua produzione interna di carbone a un milione di tonnellate all’anno.

Tuttavia, L’india è in prima linea nella crisi climatica. 

Solamente quest’anno, due terzi del paese hanno sofferto di un’ondata di caldo senza precedenti, che è durata mesi e ha decimato i mezzi di sussistenza.

Pertanto, i piani di espansione del carbone del primo ministro Modi sembrerebbero difficili da far conciliare con l’evoluzione del fabbisogno energetico e delle priorità ambientali dell’India.

Brasile: L’estrema destra chiede il colpo di stato

Nelle ultime settimane migliaia di sostenitori del presidente Bolsonaro sono scesi in piazza per manifestare. Riuniti e accampati davanti alle caserme dell’esercito in almeno dodici città del Paese, tra cui Rio de Janeiro, San Paolo e Brasilia, chiedono l’intervento delle forze armate per mantenere Bolsonaro al potere e “salvare il Paese” dal “comunismo”. 

Il rifiuto del presidente uscente di riconoscere la sconfitta e di congratularsi con il suo rivale ha dato speranza agli animi dei suoi sostenitori più radicali. Stando a quanto riportato da El País, la maggior parte degli striscioni e dei cori riportano un solo messaggio: SOS Forze Armate. Invocano, dunque, l’intervento militare per impedire a Lula di governare.

Una dichiarazione congiunta delle Forze Armate e del Ministero della Difesa, pubblicata quasi due settimane dopo le elezioni, pur non mettendo in discussione il risultato elettorale, ha seminato qualche dubbio e dato una patina di legittimità alle proteste golpiste. Nel comunicato la leadership militare afferma che le controversie debbano essere risolte attraverso gli strumenti dello Stato di diritto democratico, riferendosi alle manifestazioni come “pacifiche”.

I manifestanti sono convinti che bisogna leggere tra le righe e promettono di resistere nelle strade, mentre, come riportato da El País, il Partito dei Lavoratori (PT) di Lula ha risposto alla nota dei militari affermando che: “Il diritto di manifestare non si applica agli atti contro la democrazia, che dovrebbero essere chiamati con il loro nome: colpo di Stato, e combattuti. Non sono né pacifici né ordinati“.

Il tutto accade mentre i lavori di transizione del governo procedono normalmente. In occasione della sua prima visita nella capitale per seguire da vicino il passaggio di poteri, il futuro presidente Lula da Silva ha chiesto di indagare su chi siano gli attori che finanziano le manifestazioni, facendo riferimento soprattutto ai blocchi stradali che, nei primi giorni dopo le elezioni, hanno colpito gran parte del Paese.

Difatti, al momento, la Procura ha chiesto la rimozione di Silvinei Vasques dall’incarico del direttore generale della Polizia autostradale, che durante la campagna elettorale ha ripetutamente invitato a votare per Bolsonaro. Sembrerebbe, infatti, che il giorno delle elezioni gli agenti stradali abbiano disobbedito a un ordine del tribunale e abbiano effettuato diversi blocchi stradali in tutto il Paese, rendendo difficile per molti elettori esercitare il proprio diritto di voto.

Secondo quanto riportato da El País, il leader del PT ha commentato: “Le persone che protestano, francamente, non hanno motivo di protestare. Dovrebbero ringraziare Dio che la differenza è stata inferiore a quella che ci meritavamo. Dobbiamo scoprire chi finanzia queste manifestazioni insensate”.

Oman: petroliera israeliana colpita da drone esplosivo

La Pacific Zircon, petroliera di una compagnia di Singapore di proprietà dell’imprenditore israeliano Idan Ofer, è stata colpita da un drone esplosivo al largo delle coste dell’Oman.

La compagnia che possiede la nave, la Eastern Pacific Shipping, ha reso noto che la nave è stata colpita da un drone non identificato mentre si trovava a circa 240 chilometri dalle coste dell’Oman.

La petroliera era partita da Sohar, in Oman, con direzione Buenos Aires.

Fortunatamente, non vi sono stati feriti e la nave ha subito soltanto lievi danni, con nessun pericolo di fuoriuscita di carico o infiltrazioni d’acqua, riporta la CNN.

In seguito alle prime indagini, l’arma che ha colpito la petroliera è stata identificata come un drone autodistruttivo HESA Shahed 136, noto anche come “drone kamikaze”, un veicolo aereo senza equipaggio che esplode all’impatto con il bersaglio.

Gli Shahed 136 sono una delle molte varianti di droni prodotte dall’azienda iraniana Iran Aircraft Manufacturing Industrial Company.

Secondo quanto riportato da Al Arabiya, le indagini per identificare un responsabile dell’accaduto sono ancora in corso, ma i sospetti attualmente si concentrano quasi completamente sull’Iran, che affaccia sullo stesso tratto di mare dell’Oman.

Infatti, il Consigliere per la sicurezza nazionale americana Jake Sullivan ha affermato che con molta probabilità l’Iran è responsabile dell’attacco alla petroliera.

«Dopo aver esaminato le informazioni disponibili, siamo fiduciosi che l’Iran abbia condotto questo attacco usando un veicolo aereo senza equipaggio (UAV), un’arma letale sempre più conosciuta in Medio Oriente e attualmente utilizzata anche dalla Russia in Ucraina».

La stessa tipologia di drone, corrisponde al drone utilizzato per un attacco molto simile alla petroliera Mercer Street, avvenuto lo scorso anno e ugualmente attribuito a Teheran, che però respinse ogni accusa di coinvolgimento nell’accaduto.

Per di più, nelle ultime settimane i droni Shahed 136 sono stati forniti, come dichiarato da Jake Sullivan, dall’Iran alla Russia per poter essere utilizzati dall’esercito durante l’attuale guerra in Ucraina.

Tuttavia, il coinvolgimento diretto della Russia sembrerebbe essere improbabile, come affermato dal presidente americano Joe Biden: «la stessa traiettoria del drone suggerisce che non è stato lanciato dall’esercito russo», aggiungendo che in ogni caso aspetterà i risultati delle indagini per una maggiore chiarezza.

Sebbene nessuno abbia attualmente rivendicato la responsabilità di quanto accaduto, l’attribuzione della responsabilità dell’attacco è ricaduta immediatamente sull’Iran, considerata la crescente tensione tra il paese ed Israele. I due paesi sono impegnati ormai da anni in un conflitto che vede protagonisti diversi droni che attaccano navi associate ad Israele che viaggiano nella regione. 

I primi effetti dell’ultimo attacco si sono notati fin da subito nell’aumento dei prezzi del petrolio. L’incidente, infatti, secondo quanto riportato dal The Guardian, avrebbe spinto al rialzo dei prezzi del petrolio in seguito a una sospensione temporanea della fornitura del gregge ad alcune parti d’Europa.

G20: scontro tra Xi Jinping e Justin Trudeau

Il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro canadese Justin Trudeau si sono incontrati mercoledì scorso in occasione del vertice del G20 in Indonesia.

Secondo quanto riporta Le Figaro, il leader canadese ha dichiarato in una conferenza stampa dopo il loro incontro di aver discusso con il Presidente cinese sulla questione dell'”interferenza” della Cina negli affari interni del Canada. «Ho sollevato la questione delle interferenze con i nostri cittadini, è importante poter dialogare su questo tema», ha dichiarato Justin Trudeau dopo l’incontro bilaterale.

La scorsa settimana, Justin Trudeau aveva già dichiarato che la Cina stava facendo «giochi aggressivi» con la democrazia e le istituzioni canadesi, dopo la pubblicazione di un rapporto del canale Global News che denunciava interferenze nel processo elettorale nel Paese della foglia d’acero, in particolare durante le elezioni federali del 2019. La polizia federale locale aveva indicato giovedì scorso che stava anche conducendo un’indagine sulle stazioni di polizia che sarebbero state create illegalmente dalla Cina in Canada per controllare i cinesi esiliati o espatriati. Interrogato sull’incontro, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha dichiarato di non avere informazioni da rivelare.

Tuttavia, grazie a un video postato su Twitter dal canale cinese CTV, il mondo ha potuto assistere a una discussione tra Xi Jinping e Justin Trudeau, durante la quale il presidente cinese ha espresso il suo disappunto nei confronti del primo ministro canadese. Secondo il presidente cinese, Justin Trudeau avrebbe fatto trapelare alla stampa il contenuto della loro conversazione privata. Nel video, Xi Jinping ha dichiarato: «tutto ciò di cui abbiamo discusso è stato divulgato alla stampa, non è appropriato». Ha aggiunto che «la conversazione non si è svolta in questo modo», mettendo in dubbio la veridicità del resoconto della stampa sull’incontro. Justin Trudeau ha poi risposto che spera che Cina e Canada «continuino ad avere discussioni costruttive, anche se non siamo d’accordo su tutto», prima che Xi Jinping replicasse dicendo che «dobbiamo prima concordare i termini della discussione».

Queste tensioni tra Canada e Cina sull’aspetto privato delle conversazioni diplomatiche difficilmente miglioreranno le relazioni tra i due Paesi, già complicate negli ultimi anni. Nel 2018, le autorità giudiziarie canadesi hanno arrestato la figlia del fondatore di Huawei, Meng Wanzhou, su richiesta degli Stati Uniti, che ne hanno chiesto l’estradizione. Alla fine è rimasta bloccata in Canada per tre anni, prima di essere autorizzata a tornare in Cina dopo un reciproco scambio di prigionieri tra Ottawa e Pechino. Ma la vicenda ha offuscato a lungo le relazioni tra i due Paesi.

Allo stesso tempo, il Canada si sta avvicinando sempre più alla posizione statunitense di confronto sistemico con la Cina. Nel maggio 2022, ad esempio, il Canada ha bandito dal proprio territorio due importanti società cinesi, ZTE e Huawei, considerate da molti Paesi occidentali come aziende che potrebbero essere utilizzate dalla Cina per spiare le telecomunicazioni americane o europee.

Va notato, tuttavia, che non è la prima volta che discussioni diplomatiche pubblicizzate causano tensioni tra i capi di Stato.

Guerra in Ucraina: missili in territorio NATO

Le autorità polacche hanno dichiarato nella notte del 15 novembre che il missile caduto sul proprio territorio fosse di fabbricazione russa. Tuttavia, l’Associated Press, un’agenzia di stampa internazionale, con sede negli USA, ha citato il parere di alcuni funzionari statunitensi secondo il quali il missile sarebbe stato lanciato dall’esercito ucraino per abbattere un missile russo: secondo tale versione, l’esercito ucraino avrebbe probabilmente sparato contro il missile russo in avvicinamento, nel corso di un massiccio attacco alle infrastrutture energetiche.

Anche il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, come riportato dall’agenzia Reuters, ha dichiarato che è improbabile che il missile abbattuto sia stato lanciato dalla Russia, convocando però una riunione d’emergenza dei leader del G7 e della NATO presenti al vertice del G20 a Bali.

La leadership ucraina non è d’accordo con queste ipotesi, parallelamente infatti, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij si dichiara convinto del fatto che il razzo caduto in Polonia non sia ucraino, manifestando inoltre la volontà di partecipare attivamente alle indagini. Kiev avrebbe infatti chiesto l’accesso immediato al luogo dell’esplosione per i rappresentanti del Ministero della Difesa ucraino e del Servizio di Guardia di Frontiera dello Stato. Come riportato dalla BBC Russian News, a tal proposito, il segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale e Difesa ucraino, Oleksiy Danilov, ha dichiarato: «Siamo pronti a consegnare le prove che abbiamo circa un indizio ruconducente ad un’implicazione russa. Siamo in attesa di informazioni da parte dei nostri partner, in base alle quali si è concluso che si trattava di un missile di difesa aerea ucraino».

Ad ogni modo, stando a quanto riportato da Radio Liberty, emittente radiofonica fondata dal Congresso degli Stati Uniti, La Casa Bianca ha dichiarato che, a prescindere dall’esito delle indagini, la Russia va ritenuta responsabile dell’incidente: la dichiarazione a nome del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Adrienne Watson, sottolinea come gli Stati Uniti non siano in possesso di fatti che contraddicano la versione delle autorità polacche, secondo cui il missile appartenesse al sistema di difesa aerea ucraino. In precedenza, il presidente polacco Andrzej Duda ha definito quest’ipotesi la più probabile e ha descritto l’incidente episodio sfortunato e imprevedibile.

L’Africa in “Festival”: le potenzialità del cinema africano

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Nel corso dei mesi di ottobre e novembre il continente africano è stato teatro di due importanti Festival cinematografici, il primo a Cartagine e il secondo a Marrakesh. La realizzazione di questi due eventi, insieme alla larga partecipazione di spettatori nazionali e internazionali, hanno mostrato la capacità attrattiva dell’industria cinematografica africana.

Tra il 29 ottobre e il 5 novembre si è tenuta la 33esima edizione del Festival del cinema di Cartagine. Si tratta di un evento simbolico, in quanto al Festival partecipano pellicole e registi provenienti da tutto il continente.

Come affermato da Baba Diop, critico cinematografico senegalese, il Festival tunisino rappresenta l’unione culturale africana perché «collega Nord e Sud Africa, insieme al mondo arabo e all’Africa subsahariana, molto spesso dimenticata». La vittoria al Festival del film tanzaniano “Tug of War” evidenzia appunto questo legame.

Il Festival di Cartagine, inoltre, è sovvenzionato dal Ministero tunisino della Cultura. Infatti il Festival dà ampio spazio a donne e giovani appassionati che possono beneficiare delle possibilità occupazionali derivanti dall’organizzazione di eventi cinematografici.

Il Festival Internazionale del cinema di Marrakesh, invece, è simbolo della possibilità di esportare il cinema africano all’estero. Il Festival, apertosi l’11 novembre, è un’occasione fondamentale per lo Stato marocchino e la reputazione della monarchia di Mohammed VI. L’evento ha richiamato a Marrakesh numerose personalità del mondo dello spettacolo internazionale, tra cui il regista italiano Paolo Sorrentino che è stato nominato capo della giuria.

In seno al Festival è stato realizzato l’Atlas Workshop, un programma di formazione e finanziamento per artisti emergenti provenienti da Marocco, mondo arabo e Africa.

Secondo un report dell’UNESCO attualmente almeno 5 milioni di africani lavorano nell’industria cinematografica che contribuisce a 5 miliardi del PIL del continente. La Nigeria detiene il primato di profitti, contribuendo da sola alla creazione di più di 2500 film all’anno.

L’organizzazione di festival e l’interesse suscitato nel continente e all’estero potrebbero avere un impatto positivo sull’economia africana. L’UNESCO prevede che l’industria cinematografica possa creare oltre 20 milioni di posti di lavoro e contribuire fino a 20 miliardi al PIL africano.

Rimangono però dei problemi da risolvere affinché il cinema africano si sviluppi senza intoppi. Il primo di questi riguarda la mancanza di accesso uniforme alla tecnologia e alla luce elettrica. Inoltre, lo streaming online e la pirateria digitale potrebbero delegittimare le pellicole indipendenti e il loro finanziamento.

Come sottolineato da Audrey Azoulay, Direttore Generale dell’UNESCO, è necessario dunque rafforzare la cooperazione internazionale per permettere lo sviluppo equo dell’industria culturale e cinematografica nei Paesi africani.

Crisi Ucraina: segnali positivi dal summit G20 a Bali

Nella giornata di lunedì 14 Novembre, il Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj ha parlato in collegamento video con i rappresentanti dei Paesi del G20 presenti al vertice tenutosi in Indonesia, ribadendo pubblicamente la volontà di fermare la guerra iniziata dalla Russia, illustrando la sua “formula di pace” in 10 punti. Come riportato dalla BBC Russian News, il presidente si è dichiarato convinto che sia finalmente giunto il momento in cui la guerra distruttiva intrapresa dalla Russia debba e possa essere fermata, salvando così migliaia di vite. Peculiare è stato il continuo riferimento al G20 come al “Gruppo dei 19”, rimarcando l’esclusione della Russia dal gruppo internazionale.

La cosiddetta “formula per la pace” presentata ai partecipanti del vertice, prevede 10 punti da rispettare, riguardanti diverse tematiche e ambiti: dalla sicurezza nucleare a quella alimentare ed energetica, passando per l’immediato rilascio di tutti i prigionieri e dei residenti in Ucraina portati coattivamente nel territorio russo; la garanzia di un completo ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina; l’immediato ritiro delle truppe russe capace di permettere la definitiva cessazione delle ostilità, certificando così un’efficacie prevenzione dell’escalation e stabilendo una data di fine della guerra.

Zelens’kyj ha concluso il proprio discorso affermando che la guerra debba concludersi in modo equo e sulla base dei principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, sottolineando l’importanza di un immediato ritiro delle truppe russe, affinché possa esser avviato l’ambito processo di pace, con conseguente risarcimento di tutti i danni causati all’Ucraina nel corso della guerra.

Fra le altre richieste del presidente ucraino, vi è anche l’organizzazione di una conferenza internazionale incentrata su quel che dovrà essere il futuro potenziamento delle infrastrutture di sicurezza post-guerra del paese, volta a impedire alla Russia di ripetere aggressioni simili, così come ottenere maggiori tutele e garanzie riguardanti l’accordo sul grano ucraino stipulato a luglio tra le Nazioni Unite e la Russia.

Da parte sua, L’Organizzazione delle Nazioni Unite afferma di aver esportato con successo 10 milioni di tonnellate di grano ucraino e altri prodotti agricoli dall’inizio dell’accordo, contribuendo a scongiurare una crisi alimentare globale: la necessità di rivedere l’accordo, però, risulta improrogabile vista l’imminente scadenza dello stesso del 19 novembre dell’anno corrente. A tal proposito, Zelens’kyj suggerisce di siglare un nuovo accordo a tempo indeterminato, indipendentemente dalla fine della guerra, poiché: «Il diritto al cibo è un diritto fondamentale di ogni essere umano nel mondo»

Da questo summit arrivano positivi, purché deboli, segnali di avvicinamento, indispensabili per porre rimedio a questa complicatissima situazione internazionale: come riporta Bloomberg, multinazionale operativa nel settore dei mass media con sede a New York, il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, a capo della delegazione russa, nonché in rappresentanza del Presidente Vladimir Putin, ha ascoltato per intero il video-discorso di Zelensky, non abbandonando la sala come invece è successo precedentemente. Inoltre, i partecipanti del G20 non hanno boicottato il discorso dello stesso Lavrov.