giovedì, 25 Aprile 2024
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Epidemia di Ebola in Uganda, due distretti in lockdown

In base alle ultime disposizioni delle autorità competenti, bar, locali notturni, luoghi di culto e sale per spettacoli resteranno chiusi per tre settimane a seguito della diffusione del virus Ebola in Uganda. Entrerà in vigore il coprifuoco come ulteriore misura di contenimento.

Le restrizioni si applicheranno solo nei distretti di Mubende e Kassanda a causa dell’elevato numero di casi, ma il Presidente Yoweri Museveni, dapprima scettico verso l’introduzione di restrizioni alla libertà personale, non esclude la possibilità di estendere le misure ad altri distretti qualora la situazione peggiorasse.

Kampala ha registrato il primo caso ufficiale di Ebola lo scorso 20 settembre come riporta il ministero della salute ugandese. Il “paziente zero” sarebbe un ragazzo di 24 anni residente in un villaggio nel distretto di Mubende, epicentro dell’epidemia a 80 km dalla capitale. Il ragazzo presentava inizialmente una serie di sintomi non direttamente collegabili al virus, ma, successivamente, la comparsa di febbre emorragica avrebbe spinto i medici dell’ospedale della capitale a inviare le analisi del sangue all’Istituto di ricerca per le malattie infettive.

I referti dell’istituto hanno poi dimostrato che si tratta di una particolare variante di Ebola, ascrivibile al ceppo sudanese (SUDV), per il quale non sono previsti vaccini autorizzati. I sintomi dell’Ebola-SUDV comprendono vomito, diarrea, febbre, emorragia esterna o interna e, nei casi peggiori, possono portare alla morte. Il virus si trasmette attraverso il contatto diretto con fluidi corporei o sostanze contaminate.

Come riporta BBC Africa, il ministero della salute ugandese in data 17 ottobre ha registrato 58 casi confermati di Ebola, tra cui 17 morti. Il numero potrebbe essere sottostimato a causa delle lacune nel sistema di tracciamento nazionale.

L’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) in Africa ha dichiarato che la situazione è sotto controllo, ma è necessario un costante monitoraggio e una maggior collaborazione tra cliniche pubbliche e private. Da parte sua, il Presidente ugandese ha affermato di aver ordinato alla polizia di intervenire qualora i residenti dei distretti oggetto di lockdown non rispettino l’isolamento. Inoltre, ha interdetto ai guaritori tradizionali di gestire pazienti infetti da Ebola.

Il ricordo dell’epidemia di Ebola del 2011 è ancora molto presente nella memoria collettiva ugandese: allora, la variante dello Zaire aveva mietuto almeno 11 mila vittime solo in Uganda. Per evitare una possibile tragedia, dunque, si sono riuniti i ministri della salute di nove Stati africani (Burundi, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Liberia, Ruanda, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania e Uganda) per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed evitare che diventi transnazionale.

Durante l’incontro tenuto a Kampala, i ministri si sono accordati su una serie di misure comuni per migliorare il sistema di comunicazione e monitoraggio dei casi di Ebola SUDV, attraverso una cooperazione rafforzata di informazioni e di scambio di personale sanitario. Inoltre, hanno stabilito di implementare delle campagne di sensibilizzazione della popolazione per porre presto fine alla diffusione del virus.

Semiconduttori: arma strategica nella guerra economica tra Stati Uniti e Cina

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La guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina è entrata in una nuova fase lo scorso 7 ottobre, con l’annuncio di nuove misure per limitare le esportazioni di semiconduttori in Cina.

I semiconduttori sono piccoli pezzi di silicio in cui sono incisi miliardi di piccoli circuiti. Questi circuiti forniscono la potenza di calcolo all’interno di quasi tutti i dispositivi dotati di interruttore: smartphone, computer, data center, automobili.

Questa tecnologia, inventata negli Stati Uniti, era utilizzata dall’esercito americano già ai tempi della Guerra Fredda contro l’URSS. Fin dai primi giorni della corsa ai missili, il Pentagono si è concentrato sull’applicazione della potenza di calcolo ai sistemi di difesa. La prima applicazione importante dei chip è stata quella dei sistemi di guida missilistica, ma oggi sono utilizzati in ogni ambito, dalle comunicazioni ai sensori alla guerra elettronica.

L’obiettivo del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è sfruttare il vantaggio tecnologico americano per rallentare l’egemonia economica e militare del suo principale rivale. D’altro canto, il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, sta cercando di ridurre la dipendenza cinese per diventare il leader mondiale del settore.

I chip elettronici sono già stati oggetto di diverse dispute tra Washington e Pechino: già nel 2018, l’amministrazione Trump ha vietato alla società di telecomunicazioni cinese ZTE di acquistare semiconduttori progettati negli Stati Uniti, portando l’azienda sull’orlo del fallimento prima di sospendere definitivamente la misura.

Dopo la crisi dovuta al COVID-19, è emerso ulteriormente il valore strategico di questi chip, la cui carenza ha fatto salire l’inflazione e ha avuto un impatto prolungato sulla produzione di beni elettronici a livello internazionale.

Oggi, il 90% dei chip per processori più avanzati al mondo è prodotto a Taiwan. Se questa produzione dovesse essere interrotta da una guerra con la Cina, supportata dalla crescente potenza militare di Pechino e dal nazionalismo aggressivo di Xi Jinping, il costo per l’economia globale sarebbe di centinaia di miliardi di euro.

Da questo punto di vista, lo sforzo di diversificare le aree di produzione di chip ad alta tecnologia è pienamente giustificato. Questo spiega perché gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa stanno cercando di rafforzare la loro posizione nella catena di fornitura dei semiconduttori.

La Cina sta continuando a investire in programmi governativi di sviluppo dei chip, tuttavia, nel complesso, è ancora molto indietro rispetto alle capacità di produzione di Taiwan, Stati Uniti e Corea del Sud. Inoltre, tutta la produzione di chip in Cina si basa su macchinari importati dall’estero, principalmente da Stati Uniti, Paesi Bassi e Giappone.

Aereo militare russo si schianta contro un edificio residenziale

Un cacciabombardiere Sukhoi Su-34 (prototipo supersonico pesante di origine sovietica ma di fabbricazione russa) si è schiantato in un palazzo abitato di 8 piani nella città di Ejsk, appartenente amministrativamente al Kraj di Krasnodar (suddivisione territoriale di primo livello del paese), situata nella Russia europea meridionale a brevissima distanza dalle coste dell’ormai ben noto mare di Azov.

Sul luogo dell’incidente è subito scoppiato un incendio fortissimo che ha dato seguito all’esplosione delle munizioni di cui il mezzo militare era fornito.

Sul web sono apparsi poco dopo vari video che testimoniano i momenti successivi all’impatto, in cui sono ben udibili e visibili le varie esplosioni e le conseguenze di quest’ultime, così come il palazzo in questione interamente avvolto dalle fiamme.

Stando alle prime dichiarazioni del Ministero della difesa su quanto avvenuto, riportate dalla BBC russian news, l’aereo militare stava portando a termine un’esercitazione.

Come testimoniano i piloti superstiti, riusciti a lanciarsi tempestivamente col paracadute, i motivi dell’incidente sarebbero da ricondurre al malfunzionamento di uno dei motori che ha preso fuoco durante il decollo.

Il capo del governatorato locale Veniamin Kondrat’ev, pochi minuti dopo l’impatto, ha assicurato come sul posto stessero già svolgendo il proprio lavoro i vigili del fuoco, chiamati a domare fiamme dirompenti su una superficie di ben 2000 m²: nello specifico, gli aggiornamenti delle ore 21 locali del giorno stesso hanno confermato la riuscita dell’operazione dei vigili del fuoco, capaci di estinguere prima le fiamme del cacciabombardiere e poi quelle dell’intero edificio.

Circa 350 residenti del palazzo in questione hanno abbandonato la struttura per alloggiare temporaneamente altrove: alcuni in una struttura alberghiera vicina e altri in una scuola materna.

Purtroppo, gli ultimi dati pervenuti la sera del 17 ottobre, parlano di 4 morti e 25 feriti già accertati, di cui 4 in condizioni critiche. Tra i feriti si rilevano anche bambini di età compresa fra gli 8 e i 10 anni.

Perché c’è tensione tra Arabia Saudita e Stati Uniti

I leader dei paesi dell’OPEC+, organizzazione che riunisce i maggiori paesi esportatori di petrolio più la Russia, si sono riuniti a Vienna e hanno annunciato una riduzione significativa della produzione di petrolio pari a due milioni di barili al giorno.

La decisione, giustificata dalle prospettive di calo della domanda globale, rischia di rendere più difficile il contrasto al caro di energia in Occidente.

La mossa dell’OPEC+ è stata incoraggiata specialmente dall’Arabia Saudita, leader dell’organizzazione, che spera in questo modo di poter spingere al rialzo le quotazioni dopo il calo accusato negli ultimi tre mesi.

Lo scontento da parte Washington in seguito alla decisione dell’OPEC+ non tarda ad arrivare. Biden, preoccupato che a qualche settimana di distanza dalle elezioni di metà mandato il prezzo del petrolio salga troppo, ha chiesto all’Arabia Saudita di rinviare a dopo le elezioni il taglio della produzione petrolifera.

Dopo il rifiuto della proposta degli Usa da parte di Riad, le tensioni tra i due paesi si sono inasprite e la scelta dell’Arabia Saudita ha probabilmente rotto l’equilibrio in maniera definitiva, portando Biden ad affermare che «ci saranno conseguenze per il Regno».

Il presidente Usa, inoltre, accusa il Medio Oriente di un allineamento con la Russia. Secondo il Wall Street Journal, la diminuzione dell’offerta di petrolio da parte dell’OPEC+ porterà ad un aumento delle quotazioni a livello globale, effetto che aiuterà la Russia in quanto grande esportatore di greggio.

Per gli Stati Uniti, inoltre, la decisione ha contribuito all’innesco di numerosi problemi e temono che la decisione di imporre un price cap al petrolio presa dal G7 diventi inefficace davanti ad un nuovo aumento dei prezzi.

Il ministero degli esteri dell’Arabia Saudita ha però espresso rigetto per le dichiarazioni americane, ricordando che le decisioni dell’OPEC+ non sono basate sulla volontà di un singolo Paese, bensì vengono adottate attraverso il consenso della maggioranza. Queste decisioni sono basate su «considerazioni economiche che tengono conto dell’equilibrio tra domanda e offerta sui mercati petroliferi».

Mentre a Riad si cerca di spiegare la decisione presa dall’Organizzazione, dunque, a Washington si lavora per rivalutare le relazioni tra i due paesi.

La Casa Bianca, infatti, minaccia un congelamento di ogni tipo di cooperazione con i sauditi, compresa quella militare, da sempre di importanza primaria.

Nei prossimi giorni il quadro della situazione diventerà più chiaro.

In merito alle ultime dichiarazioni dell’America, tuttavia, il ministro degli Esteri saudita non ha esitato a sottolineare l’importanza della vendita di armi per la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente, oltre che per gli interessi dell’Arabia Saudita e degli stessi americani.

Tunisia, proteste popolari contro il Presidente Kais Saied

Migliaia di tunisini si sono riversati nelle piazze della capitale al grido di “Giù il Presidente”, “Rivolta contro il dittatore”, “Saied a casa”, come riporta Jeune Afrique. I dimostranti imputano al Presidente della Repubblica la difficile situazione in cui versa il Paese, con una crisi economica e un’inflazione senza precedenti.

Le proteste non sono acefale, ma sono organizzate da due forze politiche ascrivibili all’opposizione al regime di Saied. La prima di queste si chiama Fronte di salvezza nazionale e il suo rappresentante è il partito di ispirazione islamista Ennahda (“rinascita”) che, nella scalata al potere di Saied, è stato oggetto di una dura repressione. La seconda invece è il partito Neo-Dustur (“nuova Costituzione”), anti-islamista, ma anche contrario all’autoritarismo di stampo populista del Presidente.

La stampa indipendente tunisina ha sottolineato con stupore la vitalità del fronte dell’opposizione, come dimostrato dalla larga partecipazione alle proteste. Infatti, a seguito del congelamento delle attività del Parlamento e della presa dei pieni poteri del Presidente Saied del luglio 2021, la stragrande maggioranza dell’opposizione è stata indagata o arrestata. Il timore di ulteriori repressioni aveva fatto sì che le precedenti proteste scoppiate nel Paese fossero di carattere spontaneo o in genere meno strutturate.

Neanche in occasione della votazione del referendum costituzionale dello scorso luglio –referendum popolare volto ad approvare la nuova Costituzione– erano scesi in strada così tanti cittadini. Saied godeva infatti del consenso di una maggioranza silenziosa, disillusa nei confronti del parlamentarismo post-Primavera araba e desiderosa di stabilità politica e, principalmente, di benessere economico.

Tuttavia, il benessere economico tanto sperato non è arrivato. Le difficoltà della Tunisia, in crisi economica da almeno 10 anni, sono aumentate a causa della pandemia globale da Covid-19 e delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina. La diminuzione delle importazioni di derrate alimentari e di idrocarburi, di cui la Tunisia è fortemente dipendente, ha provocato un aumento dell’inflazione (+9%). Il dialogo con il Fondo Monetario Internazionale è aperto, ma l’impronta autoritaria del Presidente, insieme alla scarsa affidabilità dei conti pubblici, fa rallentare i negoziati.

Se non si troverà una soluzione alla crisi politica ed economica tunisina, il dramma si riverserà in Unione europea e, soprattutto, in Italia: è notizia di pochi giorni fa il naufragio al largo delle coste tunisine di una nave carica di migranti –sia cittadini tunisini sia dell’Africa Subsahariana– partita dal porto di Zarzis come riporta Al Araby.

A Zarzis sono scoppiate in seguito forti proteste cariche di indignazione e rabbia nei confronti della Guardia costiera tunisina che non sarebbe intervenuta nel salvataggio dei migranti. Il malcontento, dunque, sembrerebbe diffuso e in crescita in tutto il Paese.

Premio Sakharov, Julian Assange fra i finalisti

Il premio Sakharov, pensato per premiare gli sforzi di organizzazioni o individui che si sono impegnati nella difesa dei diritti dell’uomo, potrebbe essere consegnato al fondatore di Wikileaks, detenuto dal 2019 in Gran Bretagna e a rischio di estradizione negli Stati Uniti dove rischierebbe di finire i suoi giorni in prigione.

Il giornalista, attivista ed informatico è diventato famoso nel 2010 dopo aver rivelato una serie di crimini di guerra americani compiuti in Afghanistan, di cui le prove furono pubblicate sul sito Wikileaks, che già da anni si occupava di pubblicare informazioni riservate su presunti crimini e abusi di potere da parte di governi e singoli capi di stato in tutto il mondo. Negli Stati Uniti su Assange pendono diversi capi di accusa, fra cui quella di spionaggio, che potrebbe risultare in una condanna a più di 100 anni di carcere.

La proposta di nominare Assange è partita dal movimento 5 stelle, che senza alcun appoggio da parte di altri partiti politici è riuscito a raccogliere 40 preferenze trasversali in tutto il parlamento europeo, garantendo così al candidato di apparire nella lista dei tre finalisti che includono anche il popolo ucraino (rappresentato dal presidente Zelensky) e la commissione Verità in Colombia.

La conferenza dei presidenti del Parlamento europeo deciderà il nome del vincitore verso la fine di ottobre ed è altamente probabile che la scelta ricada sul presidente Zelensky.

Come riportato da  europatoday.it, il premio verrà conferito il 14 dicembre, e l’auspicio dell’eurodeputata Sabrina Pignedoli, che ha proposto il nome di Assange per il premio, è quello di vedere il fondatore di Wikileaks da uomo libero in parlamento quando verrà annunciato il vincitore.

La presenza del padre di Wikileaks alle finali della selezione è già di per sé una vittoria per la sua famiglia e i suoi sostenitori poiché, nonostante si tratti di una vicenda di più di 10 anni fa, è ancora molto sentita a livello internazionale e attorno ad essa si sono concentrati molti dibattiti e proteste a favore della libertà di espressione.

Strage nel poligono militare russo di Belgorod

Nella serata di sabato 15 ottobre, il Ministero della difesa della Federazione Russa ha dichiarato che, a seguito della sparatoria avvenuta nel poligono situato nell’oblast’ di Belgorod (centro addestramento in cui i neo mobilitati soldati svolgono un periodo di formazione prima di raggiungere i connazionali sul fronte ucraino) sono morte 11 persone e altre 15 sono rimaste ferite. Questo stando a quanto riporta il Kommersant, quotidiano fondato nel 1989 in Russia.

Sempre secondo la notizia, ad aprire il fuoco sono stati due cittadini di paesi appartenenti alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), un’organizzazione internazionale con sede a Minsk, composta da nove delle quindici ex repubbliche sovietiche, cui si aggiunge il Turkmenistan come membro associato. I due sono stati immediatamente uccisi dalla sicurezza della struttura.

La BBC Russian news riporta come nelle ore successive all’ episodio, la notizia sia stata diffusa anche da vari quotidiani, non trovando però un riscontro comune non solo nel numero delle vittime (una cifra non definita che oscilla fra le 10 e le 22 persone) ma anche nella provenienza degli artefici e nell’ora presunta in cui si sarebbe consumato il pluriomicidio:

Il Ministero della difesa russo ha etichettato tale episodio come terroristico, senza però spiegare come e perché in un poligono militare federale si trovassero cittadini stranieri armati, benché appartenenti alla già citata CSI. La sensazione è che si tratti di volontari che avessero precedentemente fatto richiesta per prendere parte alla cosiddetta “operazione militare speciale” tra le fila dell’esercito russo.

Non bisogna dimenticare infatti che il Cremlino ha approvato, a partire dal mese di settembre dell’anno corrente, l’avviamento di una procedura semplificata volta all’ottenimento della cittadinanza russa per quegli stranieri che manifestino la volontà di arruolarsi nell’esercito russo e prendere parte alla “denazificazione” dell’Ucraina.

Parallelamente, altre fonti d’informazione russe riportano che, benché non ci siano ancora testimonianze dirette o conferme attendibili al riguardo, i responsabili di questa sparatoria siano originari dell’oblast’ di Brjansk, situato tra la pianura russa occidentale e la parte ovest del Rialto centrale russo.

Riguardo il momento dell’attentato, il dicastero federale lo colloca temporalmente nella tarda sera, intorno alle ore 21 di sabato 15 ottobre, mentre altre testate fanno riferimento alla mattina, durante le quotidiane esercitazioni che hanno luogo intorno alle ore 10.

Nei prossimi giorni sarà resa nota la verità di un episodio grave che, nella sua natura, è anche dimostrazione del fatto che non tutto sta andando “secondo i piani” come ripete dall’inizio della guerra il presidente russo Vladimir Putin.

Arrestati i responsabili dell’esplosione sul Ponte di Crimea

«5 cittadini russi e 3 cittadini ucraini e armeni sono stati arrestati in quanto responsabili dell’esplosione avvenuta lo scorso 8 ottobre sul Ponte di Crimea». Questo è quanto affermato dalla Federal’naja služba bezopasnosti russa (FSB), ovvero organo federale che svolge compiti per garantire la sicurezza interna della Russia. Sin da subito Putin si era espresso sull’episodio, etichettando l’atto come terroristico. Secondo la ricostruzione, il piano è stato organizzato da Kyrylo Oleksiyovych Budanov, capo della direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa dell’Ucraina. Budanov è inoltre riuscito a coinvolgere nell’attuazione materiale dell’attentato almeno 12 persone.

Non si è fatta attendere la risposta dell’Ucraina che ha categoricamente rigettato le accuse mosse contro loro, definendole un’assurdità al pari dell’essenza stessa dell’operato che svolge regolarmente l’ente federale russo, ritenuto «al completo servizio del regime di Putin» e per questo non meritevole di esaurienti repliche.

Tornando alla versione russa, l’ordigno esplosivo sarebbe stato camuffato in rotoli di pellicola di polietilene da costruzione per un peso totale di oltre 22 tonnellate e spedito dal porto di Odessa alla città bulgara di Ruse all’inizio di agosto.

Successivamente, il carico è stato trasportato sino a Erevan, capitale armena: il tutto è stato possibile grazie alle normative e a quei consensi che garantisce l’Unione economica eurasiatica (collaborazione economica tra Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia, sorta dalle ceneri della precedente Comunità economica eurasiatica). I documenti “incriminati” certificano i ruoli di questo scambio commerciale fittizio: il mittente era una società armena, mentre il destinatario una società moscovita.

Il 4 ottobre il carico è stato presumibilmente trasportato da un camion DAF immatricolato in Georgia attraverso il confine russo-georgiano e il 6 ottobre è stato consegnato e scaricato in una base all’ingrosso di Armavir, città dell’oblast’ di Krasnodar.

L’indagine precisa come, per tutto il tragitto, il movimento del carico e i contatti con i partecipanti allo schema criminale di trasporto sono stati monitorati e coordinati da un ufficiale del Servizio di Sicurezza dello Stato dell’Ucraina.

Infine, sempre secondo la ricostruzione dell’intelligence russa, nella giornata di venerdì 7 ottobre i documenti relativi alla merce sono stati nuovamente modificati, designando come destinatario del carico un’azienda inesistente nella Repubblica di Crimea.

Biden: Putin ha sbagliato i calcoli ma è un attore razionale

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato di ritenere il Presidente russo Vladimir Putin un «attore razionale che ha sbagliato notevolmente i calcoli» riguardo alla guerra ucraina. In tal senso, la scorsa settimana ha affermato che il rischio di nucleare è «al punto più alto degli ultimi 60 anni».

Dall’inizio della guerra, Biden e i leader occidentali stanno dibattendo su quali passi Putin potrebbe compiere e se stia agendo razionalmente. Biden ha definito «ridicoli» gli obiettivi del leader russo in Ucraina, tra cui «essere il leader della Russia che unisce tutti i russofoni».

Secondo il Presidente degli Stati Uniti, Putin ha commesso l’errore di dare per scontato che gli ucraini si sarebbero sottomessi all’invasione russa, previsione presto smentita dalla sentita resistenza ucraina. «Credo che (Putin) pensasse che sarebbe stato accolto a braccia aperte, che a Kiev avrebbe trovato la casa della Madre Russia: ma ha completamente sbagliato i calcoli», afferma Biden.

La controffensiva lanciata dall’Ucraina il mese scorso è infatti riuscita a riconquistare il territorio precedentemente detenuto dai russi, compresi gli snodi critici dei trasporti. Le perdite si sono rivelate imbarazzanti per la Russia, il cui esercito ha faticato molto negli ultimi mesi.

Tuttavia, questa settimana la Russia ha lanciato una delle campagne di bombardamento più feroci dall’inizio della guerra fino alla città occidentale di Lviv, a centinaia di chilometri dai principali teatri di guerra nell’Ucraina orientale e meridionale, causando 19 vittime e più di 100 feriti in tutto il Paese.

A tal proposito, Biden ha incontrato virtualmente i membri del Gruppo dei 7 Paesi più industrializzati (G7), che hanno ascoltato il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky sulla necessità di rafforzare le difese aeree nazionali in seguito ai nuovi bombardamenti russi. Zelensky ha affermato che «gli sforzi comuni per creare uno scudo aereo per l’Ucraina devono essere intensificati in mezzo alla raffica di missili da crociera e di droni russi».

I funzionari della Casa Bianca hanno dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a rafforzare ulteriormente le difese aeree dell’Ucraina, anche attraverso i sistemi di difesa missilistica, la cui consegna è stata accelerata da Biden durante l’estate.

Dal canto suo, Putin potrebbe impiegare nuove tattiche per terrorizzare gli ucraini all’approssimarsi dell’inverno, come dimostra l’intenso assalto aereo della Russia sulla capitale ucraina Kyiv e le sue infrastrutture civili.

Perù: denunciato il presidente Pedro Castillo

Martedì 11 ottobre, a Lima, dinanzi al Congresso della Repubblica, la procuratrice generale Patricia Benavides ha presentato una denuncia costituzionale contro il presidente Pedro Castillo Terrones, accusato di aver fondato ed essere a capo di un’organizzazione criminale, di traffico di influenze illecite e di collusione in tre diversi casi. 

La denuncia si estende anche ad altri membri della presunta organizzazione, tra cui un uomo d’affari vicino al Presidente e quattro ex consiglieri, arrestati in via preliminare per il loro presunto coinvolgimento. 

Sembrerebbero essere coinvolti nel caso anche dei deputati, chiamati dall’opposizione e dai media “Los Niños”, accusati di aver favorito l’attività illecita del Presidente in cambio di appoggio al governo. 

Stando a quanto dichiarato dalla Procura, l’organizzazione avrebbe la finalità di controllare e dirigere i processi di appalti statali al fine di ottenere profitti illeciti. Dalle indagini svolte infatti si sarebbe scoperto l’ottenimento di benefici economici per nomine in posizioni chiave, la riscossione di percentuali di gare d’appalto ottenute illecitamente e l’uso illecito dei poteri presidenziali. 

Nel corso delle indagini, la Procura ha fatto perquisire l’abitazione della sorella del Presidente e gli uffici e residenze di alcuni parlamentari del partito centrista Acción Popular (AP). In risposta all’azione della Procura, il presidente peruviano ha dichiarato in un tweet: “La Procura è entrata in casa di mia sorella. Mia madre si trova lì. Questo atto offensivo ha avuto ripercussioni sulla sua salute. Ritengo la Procura Generale responsabile della salute di mia madre.”

Il Presidente, in quanto tale, gode dell’esenzione legale, ovvero dell’immunità, e non può essere accusato di reati dai tribunali. Per questo, la Procura è dovuta ricorrere a un reclamo costituzionale, una procedura speciale che si applica esclusivamente agli alti funzionari statali e che permette di accertare la commissione di reati nell’esercizio delle loro funzioni. 

Per presentare una denuncia penale nei confronti del Presidente e adire la Corte Suprema di Giustizia è però necessaria l’approvazione del Congresso.

Secondo quanto riportato da BBC Mundo, in un primo momento il presidente Castillo si è difeso dalle accusa affermando di essere disposto a “dare la vita” per il bene del popolo, e ha poi denunciato, in sede di conferenza stampa, di trovarsi di fronte a “una nuova forma di colpo di Stato”. 

Non è la prima volta che il Presidente viene accusato di corruzione e attività illecite. Castillo è ora coinvolto, insieme a sua moglie, in sei indagini della Procura, ed è sopravvissuto a due tentativi di impeachment. Seppur afflitto da una serie di cause giudiziarie, il Presidente ha fermamente espresso la propria volontà di tener testa a questi affronti e portare a termine il proprio mandato.

Ciononostante, la denuncia costituzionale costituisce per i suoi rivali al Congresso una nuova opportunità per cercare di destituirlo dalla carica.