sabato, 23 Novembre 2024
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Si abbassa lo scudo dell’immunità diplomatica e il Regno Unito viene colpito in pieno

L’appello alla Corte Suprema britannica rappresenta un’ulteriore fase della lotta contro la schiavitù moderna che, per quanto spesso mascherata, lascia un segno indelebile sul nostro presente

È una forte presa di posizione quella assunta, pochi giorni fa, dalla Corte Suprema del Regno Unito, chiamata ad esprimersi circa i limiti all’applicabilità dell’immunità dei diplomatici stranieri, il cui verdetto ha stabilito sia revocata nei casi di schiavitù.

La vittima in questione è una donna di origine filippina, Josephine Wong, dal 2016 collaboratrice domestica per conto di un funzionario della rappresentanza diplomatica dell’Arabia Saudita, Khalid Basfar, nell’abitazione di quest’ultimo in Inghilterra.

Secondo la sua testimonianza, sarebbe stata sottoposta a continue violazioni dei propri diritti, che hanno caratterizzato due anni trascorsi in condizioni di schiavitù. Infatti, nonostante il regolare contratto d’assunzione, le era permesso uscire solo per buttare la spazzatura, potendo parlare coi propri familiari due volte all’anno e finendo col lavorare per sedici ore al giorno, rispetto alle otto concordate. Le era concesso cucinare per sé solo se sola, mentre, nel caso così non fosse stato, erano gli avanzi della famiglia ad esserle riservati come pasto.

Solo nel 2018, una volta scappata, ha potuto sporgere denuncia, dando il via ad un processo che, dopo aver coinvolto l’Employment Appeal Tribunal, ha portato la questione all’attenzione della Corte, che non si è pronunciata sulla veridicità delle accuse di Wong, ma ha determinato quali conseguenze avessero, visto lo speciale status dell’accusato.

Infatti, secondo la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche tra stati, incorporata nel diritto interno del Regno Unito, un diplomatico gode di completa immunità dalla giurisdizione penale e generalmente anche da quella civile. A questa clausola, però, vi sono eccezioni, che includono la situazione all’esame.  

I fatti esposti non solo delineano un trattamento di schiavitù, ma, avendo anche arrecato all’imputato vantaggi economici, si configurerebbero come “attività commerciale”, rientrando in una delle deroghe all’immunità contemplate dalla Convenzione, riguardanti le condotte dell’agente diplomatico esercitate “al di fuori delle sue funzioni ufficiali”.

Si tratta di un importante precedente dal momento che, sempre secondo quanto affermato nella sentenza della Corte, episodi di sfruttamento del lavoro di migranti da parte di funzionari internazionali sono un problema tutt’altro che marginale.

Elena Consuelo Godi
Studentessa della facoltà di Economia e management internazionale
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