martedì, 19 Marzo 2024
Home Blog

Argentina: l’8 marzo Milei cambia nome alla Sala della Donna

La notizia giunta dalla sede del Governo argentino nel giorno della festa della donna è stata considerata dai movimenti femministi, e non solo, una provocazione e un oltraggio alla figura femminile.

Qualche ora prima dell’inizio dei cortei femministi, manifestazioni organizzate ogni anno in diversi punti del Paese da grandi associazioni quali quella del Ni Una Menos, il portavoce dell’esecutivo Adorni annuncia che il Salón de la Mujer (Sala della Donna) cambia nome.

Si tratta di una sala della Casa Rosada, sede centrale del Governo, recante al suo interno ritratti di donne argentine che si sono distinte negli anni, contribuendo a scrivere la storia del Paese.

Da venerdì 8 marzo, il nome della sala è diventato “Salón de los Próceres” (Sala degli Eroi dell’Indipendenza).

Tale modifica è solo una delle tante che ha visto coinvolte le donne, tra cui si ricorda l’eliminazione del Ministerio de las Mujeres, Géneros y Diversidad, creato nel 2019 dal governo di Fernández, ma anche la proibizione dell’utilizzo del linguaggio inclusivo nell’amministrazione pubblica argentina.

Ciononostante, tale cambio di denominazione sembra essere il frutto della volontà della Segretaria Generale della Presidenza, Karina Milei, sorella del Presidente argentino.

Il portavoce Adorni afferma inoltre che «l’esistenza di una sala delle donne potrebbe anche essere discriminatoria per gli uomini» e continua sottolineando che un semplice nome non conferisce nell’effettivo un valore alla figura della donna.

Alle accuse sulla discriminazione femminile da parte dell’esecutivo, Adorni risponde sostenendo fermamente che quello di Milei è il Governo più ugualitario che l’Argentina abbia mai visto, con una percentuale di donne molto più elevata rispetto ai precedenti. «Valorizzare la donna è qualcosa che va molto oltre una semplice sala. Il primo a dare valore alla donna è il Presidente Milei, assieme a tutti i membri di questo Governo». Queste le parole arrivate dall’esecutivo, riportate dalla BBC.

Ogni anno, la grande manifestazione femminista di Buenos Aires confluisce davanti al Congresso argentino, sede di Camera e Senato, che si colora di lilla per l’occasione. Quest’anno, tuttavia, il lilla è stato cancellato dal bianco, come da decisione presa dai presidenti di Camera e Senato, entrambi appartenenti al partito di Milei.

I diversi movimenti femministi dell’Argentina si dicono preoccupati dalla prossima mossa del Governo, in quanto nel mirino di Milei, oltre all’Agenda di Genere, c’è l’aborto. Il Presidente aveva infatti affermato, durante la sua campagna elettorale, la volontà di organizzare un plebiscito al riguardo. Se la maggioranza votasse contro la legalizzazione dell’aborto, l’esecutivo eliminerebbe la Legge.

Incidente d’autobus a Maiorca: 24 feriti, 7 gravi

Sono 24 i turisti rimasti feriti lunedì scorso in un incidente a Maiorca dopo che l’autobus su cui viaggiavano è caduto da un terrapieno di due metri e si è ribaltato al chilometro 5 della strada che collega Sant Llorenç a Son Servera. Secondo quanto riporta El País, i fatti sono accaduti intorno alle dieci del mattino e dei 54 passeggeri a brodo 7 sono rimasti gravemente feriti, 17 hanno riportato ferite lievi e i restanti 30, compreso l’autista dell’autobus, sono rimasti illesi.

Sul luogo dell’incidente si sono recati per assistere alle vittime i vigli del fuoco di Maiorca, i membri della protezione civile e della polizia locale di Son Servera e Sant Llorenç e i professionisti della facoltà ufficiale di psicologia delle Isole Baleari. Inoltre, sono intervenute anche le ambulanze per trasportare i feriti in ospedale. El Mundo riferisce che uno dei passeggeri è rimasto ferito molto gravemente. Si tratta di una donna di 67 anni che ha riportato diverse fratture al corpo ed è stata trasportata all’ospedale di Son Espases con un elicottero.

Inoltre, sempre secondo quanto riporta El Mundo, il gruppo si stava dirigendo verso le zone costiere vicino ad Artà e secondo i passeggeri rimasti illesi l’autobus procedeva a una velocità moderata.

Secondo El País, il conducente è risultato negativo all’alcol test e al test antidroga effettuato sul posto. El Mundo riferisce che le autorità ipotizzano un guasto meccanico per spiegare il motivo della perdita di controllo dell’autobus, ma la guardia civile sta continuando a indagare sulle cause dell’incidente.

Marga Prohens, presidente del governo delle Isole Baleari ha comunicato che sono state mobilitate tutte le risorse necessarie per monitorare lo stato di salute dei feriti ed è stato messo a disposizione delle famiglie un numero di telefono per ricevere le informazioni sull’accaduto. Inoltre ha dichiarato che «in attesa delle informazioni sulle cause dell’incidente avvenuto questa mattina sulla strada da Sant Llorenç a Son Servera e dello stato di salute di tutti i feriti, tutti i servizi e i protocolli di emergenza sono stati attivati per prendersi cura delle vittime e delle famiglie».

Irlanda: bocciato il referendum per modernizzare la Costituzione

Venerdì 8 marzo l’Irlanda si è recata alle urne per votare un doppio sì (o un doppio no) a due referendum riguardanti la Costituzione, che risale al 1937.

I temi messi in discussione riguardano la concezione di famiglia (che si sarebbe modificata con il cosiddetto “Family Amendment”) e il ruolo della donna all’interno di quest’ultima (da modificare attraverso il “Care Amendment”).

La Costituzione irlandese offre una protezione legale alle famiglie fondate sul matrimonio. Votare il primo “sì” al referendum avrebbe significato aderire a un ampliamento del concetto di famiglia, che non comprenda per forza il vincolo del matrimonio. Il primo ministro irlandese Leo Varadkar ha sostenuto questo emendamento, affermando che circa un milione di famiglie non sono fondate sul matrimonio (si pensi ai genitori conviventi ma non sposati, o ai single). Secondo Varadkar, come riporta la BBC, «si tratta di riconoscere che tutte le famiglie sono uguali».

Tuttavia, una forte opposizione ha criticato la «scarsa chiarezza» della clausola per cui si è stati chiamati a votare. Quest’ultima sancisce che la famiglia può essere fondata sul matrimonio o su «altre relazioni durature». Cionondimeno, i detrattori hanno non pochi dubbi su questo concetto, asserendo che sia confusionario per i votanti e che «cancelli» donne e madri dalla Costituzione. Il senatore Michael McDowell, in un suo articolo citato dalla stessa BBC, afferma che «nessuno può sapere chi ha o chi non ha una relazione duratura, a meno che non lo stabilisca un tribunale».

Il secondo articolo della Costituzione messo in discussione dal Governo irlandese riguarda invece il ruolo della donna all’interno della famiglia. La Costituzione, di 87 anni fa, sostiene che la vita della donna all’interno dell’ambiente casalingo sia un supporto essenziale allo Stato, e che quest’ultima contribuisca a tale supporto restando a casa e svolgendo le proprie mansioni, tra cui quella di prendersi cura dei familiari infermi. Questo sarebbe un «vero contributo al bene comune». Votando il secondo “sì” al referendum, si sarebbe cancellato dunque il riferimento al ruolo della donna casalinga come «essenziale supporto allo Stato», così come sarebbe venuta meno la clausola che recita «le madri non devono essere obbligate a lavorare a discapito dei loro doveri all’interno della casa». Il tutto sarebbe stato sostituito da una formula assicurante il sostegno dello Stato ai “membri della famiglia” che si prendono cura dei diversamente abili. A riportarlo è Al Jazeera.

Per Perla O’Connor, direttrice del National Women’s Council, gli articoli 41 e 41.2 rappresentano «il cuore delle politiche crudeli e discriminatorie, che costringevano le donne sposate ad abbandonare il proprio lavoro e a rinunciare ai propri sogni».

D’altra parte, l’eventuale modifica del 41.2 ha suscitato le preoccupazioni degli attivisti per i diritti dei diversamente abili, secondo cui “prendersi cura” non è una prerogativa esclusiva della famiglia, ma una responsabilità dello Stato, che dovrebbe assistere i cittadini in modo equo.

Col fallimento del referendum, l’Irlanda rinuncia a fare un passo avanti in favore delle donne.

L’aborto diventa costituzionale in Francia

Il parlamento francese, presidiato da Emmanuel Macron, si è riunito a Versailles per l’approvazione definitiva della proposta di inserimento dell’aborto nella Costituzione. L’evento segna un momento importante nella storia, in quanto la Francia diventa il primo paese al mondo a inserire tale diritto nella costituzione. Tuttavia, i legislatori non parlano di “diritto” ma piuttosto di “libertà garantita”, scelta che ha provocato non poche critiche, come riporta la CNN.

Ciononostante, il peso della maggioranza è schiacciante: 780 voti a favore contro 72 contrari.

In Francia l’aborto è legale sin dal 1975, ma l’esplicita inclusione di tale diritto nella Costituzione è frutto della volontà dell’85% dei francesi che, secondo un sondaggio riportato dalla BBC, si sono espressi fermamente a favore della sua costituzionalità.

«My Body My Choice». Queste le parole comparse sulla Torre Eiffel illuminata a seguito dell’approvazione dell’emendamento. Un emendamento che, secondo quanto affermato dall’associazione francese per i diritti delle donne Fondation des Femmes, sembrerebbe arrivare a seguito dell’annullamento da parte della Corte Suprema statunitense del Roe. V. Wade, che garantiva il diritto costituzionale all’aborto da almeno 50 anni. Con la sua cancellazione, spetta adesso ai diversi stati americani la scelta autonoma di garantire o meno il diritto all’aborto. La decisione della Corte statunitense, secondo il guardasigilli francese Dupond-Moretti, è solo uno degli esempi di violazione dei diritti fondamentali nella storia. «Adesso abbiamo la prova inconfutabile del fatto che nessuna democrazia, neanche la più forte di tutti, è immune». Queste le sue parole, riportate dalla CNN. E l’emendamento non è stato immune neanche dall’opposizione, prima fra tutte quella della Chiesa. La Pontificia Accademia per la Vita ha infatti espresso in un comunicato la sua disapprovazione, sostenendo che «nell’era dei diritti umani universali, non può esistere alcun “diritto” alla privazione della vita umana». Anche i vescovi francesi si sono uniti all’accorato appello del Vaticano contro questa risoluzione, definendo la protezione della vita «un’assoluta priorità».

D’altra parte, fioccano le critiche della destra al presidente Macron, accusato di servirsi della Costituzione per scopi prettamente elettorali. L’emendamento non sarebbe in sé «sbagliato» ma «innecessario», attacca l’opposizione, imputandogli la colpa di utilizzare la causa per aumentare i consensi a sinistra.

Nonostante ciò, il Presidente afferma che tale emendamento rappresenta «un orgoglio per la Francia», la quale ha inviato «un messaggio di portata universale».

Airbnb cambia: vietate le telecamere all’interno delle case in affitto

0

Airbnb, la piattaforma utilizzata per gli affitti di brevi periodi, ha annunciato che a partire dal 30 aprile sarà vietato installare le telecamere di sorveglianza all’interno delle proprietà in affitto. Come riporta la CNN, in precedenza Airbnb consentiva ai proprietari di utilizzare le telecamere nei luoghi comuni come corridoi e soggiorni, a condizione che tali dispositivi fossero indicati nella pagina dell’annuncio e fossero posizionati in parti visibili della casa. Tuttavia, le telecamere interne non erano consentite nelle camere da letto e nei bagni.

Come riporta la BBC, la piattaforma ha annunciato che questa nuova politica è volta a semplificare le regole vigenti sull’utilizzo delle telecamere e a dare priorità alla privacy degli ospiti. Inoltre, Juniper Downs, responsabile delle politiche comunitarie e delle partnership di Airbnb, secondo quanto riporta la BBC, ha dichiarato in una nota che «questi cambiamenti sono stati apportati consultando i nostri ospiti, i proprietari delle case e gli esperti di privacy, e continueremo a cercare feedback per garantire che le nostre politiche funzionino per la nostra comunità globale». E, ha anche aggiunto che «poiché la maggior parte degli annunci su Airbnb non segnala la presenza di una telecamera di sicurezza, si prevede che questo aggiornamento avrà un impatto su un sottoinsieme più piccolo di annunci sulla piattaforma».

Come riporta la CNN, le nuove regole consentiranno ai proprietari l’utilizzo di telecamere esterne nei citofoni o di rilevatori di rumori, tuttavia è necessario che la presenza e la posizione di tali dispositivi sia resa nota agli ospiti prima della prenotazione. E, come riporta la BBC, Airbnb ha affermato che in questo modo si cerca di bilanciare la necessità dei padroni di casa di monitorare la sicurezza della loro proprietà, essendo anche consapevoli di problemi come le feste non autorizzate, e di dare priorità alla privacy degli ospiti.

Inoltre, i proprietari che attualmente dispongono di telecamere di sicurezza interne hanno tempo fino al 30 aprile per rimuoverle. E, se dopo questa data violano le nuove regole, possono incorrere nella cancellazione dell’annuncio o nell’eliminazione dell’account sulla piattaforma.

Come riporta la BBC, l’annuncio è stato reso noto circa una settimana dopo che lo show comico statunitense Saturday Night Live ha mandato in onda una scena comica che si riferiva a un annuncio di Airbnb e che ironizzava su una telecamera nascosta in un bagno. Tale scena ha ricevuto più di 1,2 milioni di visualizzazioni su YouTube.

La Svezia entra ufficialmente nella NATO e nel mirino della Russia

Il 7 marzo 2024, dopo due anni di trattative diplomatiche il primo ministro svedese Ulf Kristersson ha depositato ufficialmente i documenti per l’ingresso del paese scandinavo nella NATO che diventsa così il 32esimo paese ad unirsi all’alleanza. Il lungo processo di trattative diplomatiche, che hanno risentito di una resistenza da parte del governo turco sbloccatosi solo a gennaio 2024 e del parlamento ungherese che ha dato il via libera solo verso la fine di febbraio 2024, è giunto al termine.

Il presidente americano Joe Biden ha dichiarato che l’adesione della Svezia renderà il blocco più unito, determinato e dinamico che mai e in grado di difendere la libertà e la democrazia per le generazioni a venire, scrive la CNN. Anche il primo ministro inglese si è congratulato per quello che lui ha descritto come un momento storico rimarcando che «l’adesione di Svezia e Finlandia renderà la NATO più forte e l’intera area euro-atlantica più sicura», riporta sempre la CNN.

La soddisfazione dell’alleanza però non è stata l’unica reazione. La ITAR-TASS, agenzia di stampa russa, ha riportato le parole di Konstantin Kosachev, vicepresidente del Consiglio della Federazione, il Senato russo, che ha dichiarato che da ora in poi la Svezia sarà percepita come una minaccia per Mosca e che la decisione di unirsi alla NATO «è una delle decisioni più avventate e miopi della storia del regno». Inoltre, la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, dopo aver definito l’alleanza difensiva un blocco militare aggressivo, ha avvertito che in base ai prossimi passi di Stoccolma, Mosca deciderà le appropriate politiche di risposta e misure militari e tecniche da adottare per fermare le minacce alla sicurezza nazionale della Russia, scrive il The Moscow Times presente alla conferenza stampa del 28 febbraio 2023.

Gli avvertimenti arrivano anche dal Supo, il Servizio di Sicurezza e Intelligence Finlandese che intima al neo-alleato di non sottostimare le capacità dei servizi di intelligence di Mosca registrando un incremento di minacce russe sin dall’ufficializzazione dell’ingresso di Stoccolma nella NATO. L’Agenzia di Stampa turca Anadolu Ajansı riporta inoltre che secondo le autorità finlandesi, dopo l’adesione all’alleanza militare occidentale, le operazioni russe contro il Paese sono aumentate notevolmente e hanno avvertito che lo stesso sviluppo potrebbe attendere la Svezia.

Gaza: pacchi di aiuti aerei precipitano dal cielo. Cinque morti

Non è ancora chiaro a chi appartenesse l’aereo che doveva somministrare attraverso dei paracadute diversi pacchi contenenti cibo e rifornimenti per la popolazione palestinese. Negli ultimi giorni, alcuni paesi quali Stati Uniti, Giordania, Egitto, Francia, Islanda e Belgio hanno consegnato pacchi di aiuti via cielo a Gaza. Tuttavia, questi negano la proprietà del veicolo con un paracadute difettoso.

Come riporta la BBC, la zona di Al-Shati, un campo profughi palestinese situato nella striscia di Gaza settentrionale, è stata tagliata fuori dagli aiuti umanitari ormai da diversi mesi. Approssimativamente 300 mila palestinesi vivono lì con scarsità di cibo e acqua. Oltre alle cinque vittime ci sono diversi feriti, come è stato confermato dal Governo, il quale ha definito gli aiuti via cielo «un’inutile appariscente propaganda piuttosto che un servizio umanitario». Queste le parole dell’esecutivo, riportate da Al Jazeera. Non è tutto. Il Governo aveva già da tempo avvertito della pericolosità del dispensare aiuti via cielo, «e questo è ciò che è successo oggi, quando i pacchi sono caduti sulle teste dei cittadini», aggiunge.

La richiesta avanzata dall’esecutivo riguarda la possibilità di ricevere aiuti umanitari via terra. Tuttavia, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), la più grande agenzia dell’ONU a Gaza, afferma che le autorità israeliane le impediscono di somministrare aiuti a nord della striscia ormai da molto tempo. Inoltre, il World Food Programme sostiene di aver ricevuto indietro i pacchi che aveva inviato attraverso alcuni convogli. Gli aiuti via cielo rappresentano perciò una risposta a tali imposizioni da parte di Israele, risposta ampiamente criticata persino dalle stesse agenzie umanitarie, in quanto considerata costosa e inefficace.

Una soluzione di gran lunga migliore risulterebbe invece essere l’invio di cibo e medicinali via terra o via mare. Lo stesso World Food Programme afferma che un convoglio di 14 camion sarebbe in grado di trasportare ben 200 tonnellate di cibo, mentre le somministrazioni settimanali di pacchi via cielo ne trasporterebbero soltanto 6 tonnellate.

Inoltre, il presidente degli Stati Uniti Biden aveva affermato in un discorso pronunciato qualche giorno prima della fatalità, la volontà di costruire un molo temporaneo sulle coste di Gaza per somministrare gli aiuti. Il Segretario di Stato per gli Affari Esteri inglese David Cameron aveva appoggiato l’idea, sostenendo però che l’operazione avrebbe richiesto del tempo, e sollecitando Israele ad aprire il porto di Ashdod per permettere il passaggio degli aiuti umanitari.

Ad ogni modo, la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha annunciato l’apertura di un corridoio marittimo per l’invio degli aiuti da Cipro. A sostenere questa iniziativa, oltre ai paesi europei, anche Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti.

Chiusura anticipata dei locali notturni in Spagna: il settore alberghiero rifiuta la proposta

0

La vicepresidente e Ministro del lavoro, Yolanda Díaz, come riporta El País, ha dichiarato che non le sembra ragionevole che i ristoranti in Spagna siano aperti fino all’una di notte, mentre nel resto d’Europa chiudono prima. La ministra ha denunciato la situazione durante una riunione del gruppo parlamentare Sumar al Congresso dei deputati dove si è parlato anche della riduzione della giornata lavorativa che il governo vuole promuovere.

Inoltre la ministra ha trattato questo tema con i rappresentanti del settore alberghiero per sottolineare le differenze degli orari che ci sono con il resto d’Europa, e come riporta El País, ha anche affermato che non è ragionevole convocare le riunioni alle otto di sera.

Secondo quanto riporta El País, l’associazione dei datori di lavoro España de Noche, ha dichiarato di non fare parte del gruppo con cui la ministra sta discutendo questa proposta. E, ha anche affermato che non si possono considerare gli orari del tempo libero e delle attività alberghiere senza un approccio sociologico approfondito degli specifici orari della società spagnola.

Inoltre, anche José Luis Yzuel, presidente del settore alberghiero spagnolo, ha dichiarato che è importante garantire il servizio di ristorazione per chi esce tardi dall’ufficio, e come riporta El Mundo, ha affermato «siamo leader nel turismo e il settore alberghiero spagnolo è invidiato da tutto il mondo». Inoltre ha aggiunto che tutto ciò comporta anche una maggiore occupazione e quindi una maggiore richiesta di personale.

Come riporta El Mundo, anche Isabel Díaz Ayuso, presidente della Comunità di Madrid, ha affermato che «la Spagna ha la migliore vita notturna del mondo, con strade piene di vita e libertà. E questo offre anche lavoro». Inoltre ha criticato la chiusura anticipata dei locali notturni, e ha dichiarato sul social X «ci vogliono puritani, materialisti, socialisti, senza anima, senza luce e senza ristoranti. Annoiati e a casa».

Sulla stessa linea si è espresso anche il segretario generale del Partito popolare di Madrid, Alfonso Serrano, che, secondo quanto riporta El País, ha criticato come la sinistra cerca di limitare il modo in cui vivono i madrileni e gli spagnoli. Infine ha aggiunto che il maggior successo del settore alberghiero spagnolo deriva dalla libertà degli orari.

Russia e Cina puntano alla luna

Le due potenze mondiali uniscono le forze per un nuovo grande obiettivo: l’installazione di un reattore nucleare sulla luna entro il 2035.

È Borisov, amministratore delegato dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, a darne l’annuncio durante una conferenza al World Youth Festival di Sirius. Secondo le sue parole, Russia e Cina stanno «seriamente considerando l’attuazione di un progetto che prevede l’installazione di una centrale nucleare sulla superficie lunare». Il tutto dovrebbe concretizzarsi nel periodo compreso tra il 2033 e il 2035, come riportato dall’Agenzia Anadolu. Il discorso di Borisov, tenutosi lo scorso martedì 5 marzo, ha già destato i primi sospetti. Il gruppo di ricerca americano Institute for the Study of War (ISW) ha infatti definito il progetto «strano», non mancando di sottolineare che la Russia e la Cina «stanno rafforzando la loro cooperazione strategica nello spazio, inclusa quella sulla sorveglianza satellitare e sull’esplorazione di quest’ultimo». Allo stesso tempo, le affermazioni del CEO di Roscosmos rappresenterebbero, sempre secondo la ISW, una velata minaccia all’Occidente, concretizzata attraverso l’intensificazione di una partnership strategica a lungo termine con la Cina. Questo quanto sostenuto dal NHK World Japan.

La motivazione alla base di un tale progetto pioneristico sarebbe la necessità di ovviare alle limitazioni dei pannelli solari nel rifornimento di energia elettrica a delle potenziali future colonie lunari. Borisov ha anche tenuto a precisare la falsità delle accuse mosse dagli Stati Uniti alla Russia di Vladimir Putin riguardo le intenzioni di quest’ultimo di trasportare armamenti nucleari nello spazio.

Inoltre, le fasi per l’installazione della centrale nucleare non necessiterebbero della presenza umana, ma di soluzioni tecnologiche che sarebbero quasi pronte all’uso, come riportato dall’EurAsian Times.

Secondo quest’ultimo, l’idea dell’installazione di una centrale nucleare sulla superficie lunare era già stata avanzata da divere agenzie spaziali, tra cui la NASA, con il medesimo obiettivo: fornire energia alle colonie lunari. Già nel 1969, durante la missione Apollo 12, la seconda che aveva visto lo sbarco di umani sulla luna, erano stati utilizzati dei generatori nucleari per fornire elettricità.

La collaborazione tra Cina e Russia è il frutto di un memorandum d’intesa firmato nel marzo 2021 tra la Roscosmos e la China National Space Administration (CNSA), volto a enfatizzare l’importanza della cooperazione nel progetto della Stazione Internazionale di Ricerca Lunare, la base lunare capitanata dalle due potenze.

È morto all’età di 68 anni Akira Toriyama, il creatore giapponese di Dragon Ball

Akira Toriyama, il celebre fumettista giapponese, è morto lo scorso 1° marzo all’età di 68 anni a causa di un ematoma subdurale acuto, una forma di emorragia celebrale. Come riporta la CNN, la notizia è stata annunciata venerdì 8 marzo sul sito ufficiale di Dragon Ball in una dichiarazione condivisa da Bird Studio e Capsule Corporation Tokyo. E, secondo quanto riporta la BBC, al funerale hanno partecipato solo la sua famiglia e pochi amici.

Akira Toriyama, nato il 5 aprile 1955 a Nagoya, nella prefettura di Aichi, ha debuttato come fumettista nel 1978 con Wonder Island. Dopo il suo debutto ha prodotto molte opere popolari, in particolare la serie di fumetti Dragon Ball lanciata nel 1984 che ha conquistato un grande successo. Come riporta The Japan Times, Dragon Ball è una delle serie con oltre 260 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Inoltre, è diventata un fenomeno globale che ha generato una vasta gamma di film, videogiochi e merchandising.

Prendendo ispirazione dal classico della letteratura cinese Viaggio in Occidente, Dragon Ball ripercorre le avventure del protagonista Son Goku alla ricerca delle sfere magiche del drago perché vuole difendere la Terra dagli umanoidi alieni chiamati Saiyan. Inoltre, nel corso della storia Son Goku crea molte amicizie e combatte contro i cattivi.

Come riporta The Japan Times, Akira Toriyama oltre ad essere stato l’illustratore dei personaggi per la serie di videogiochi tratti proprio da Dragon Ball, è stato anche il disegnatore dei personaggi di videogiochi come Chrono Trigger e Dragon Quest.

Toriyama ha affascinato diverse generazioni e molti fan hanno pubblicato numerosi post sui social per esprimere la loro solidarietà. Come riporta la BBC, uno dei fan sul social X ha scritto «grazie per aver creato un manga che rappresenta la mia giovinezza. Riposa in pace, grazie per il tuo duro lavoro».

Eiichiro Oda, creatore della serie One Piece, attribuisce una grande importanza al lavoro svolto da Toriyama e, come riporta The Japan Times, ha rilasciato un’intervista sul sito ufficiale della rivista Shonen Jump dove afferma «è troppo presto. La tristezza mi travolge quando penso che non lo rivedrò mai più». Inoltre, ha aggiunto «possa il paradiso essere il mondo gioioso che aveva immaginato».

Toriyama ha ricevuto numerosi riconoscimenti nel corso della sua carriera tra cui lo Shogakukan Manga Award e, nel 2019, è stato anche insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere da parte del governo francese.

Scontri polizia-studenti a Pisa: l’opinione della stampa estera

Lo scorso 23 febbraio si è svolta nella città di Pisa una manifestazione studentesca pro-Palestina. Gli studenti hanno chiesto a gran voce all’ateneo di cessare i rapporti con le università israeliane. La manifestazione non era autorizzata e si è svolta in contemporanea a quella di Firenze, alla quale partecipavano anche sindacati di base e comunità palestinese.

Il corteo è stato caricato dalla polizia mentre cercava di entrare in Piazza dei Cavalieri, dove si trova la sede centrale dell’Università di Pisa: 13 i feriti, di cui 10 minorenni. Immediato è stato il supporto da parte della popolazione locale che ha VERBO un presidio di solidarietà alle porte della Prefettura pisana.  

Numerose, immediate e divise le reazioni da parte di esponenti del mondo politico. Il presidente della repubblica Mattarella ha espresso la sua posizione all’indomani dell’accaduto. Infatti, in una nota indirizzata al ministero degli interni si legge: “che l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni.” Il quotidiano francese Le Monde ha commentato il comunicato come un “raro e chiaro richiamo all’ordine” nei confronti del governo Meloni e del suo partito, Fratelli d’Italia, che invece si era schierato a favore delle forze dell’ordine.

Il ministro dell’interno Piantedosi, intervistato dal Corriere della Sera, si è detto amareggiato delle immagine degli scontri, ma ha ritenuto giusto l’intervento dei poliziotti e la necessità di indagare a fondo sui fatti per valutare l’ipotesi di eccesso di forza.

Dall’opposizione, la segretaria del Partito Democratico Schlein e il presidente del Movimento 5 Stelle Conte, si dicono “preoccupati” per il clima di repressione attuato dall’attuale governo.

Le reazioni non sono mancate nemmeno da personaggi di spicco. Come Vecchioni che, durante l’intervista al programma de La7 In Altre Parole, ha dichiarato in lacrime: “Queste sono cose che non possono succedere, noi non siamo così”.

La notizia degli scontri è riecheggiata anche nelle testate internazionali. Tra le prime The New Arab, in cui sottolineano le condanne e l’amarezza dell’opposizione nei confronti delle forze dell’ordine pisane ma anche dell’attuale governo Meloni. Parole riportate anche dall’agenzia di stampa britannica Reuters, che cita anche Enzo Letizia, segretario dell’ Associazione Nazionale Funzionari di Polizia. Il Segretario Nazionale ha infatti invitato alla prudenza prima di emettere giudizi senza un’accurata inchiesta.

La salute di Kate Middleton è in ripresa: annunciato il primo impegno ufficiale dopo l’operazione

Kate Middleton (42 anni), attuale principessa del Galles, è stata avvistata il 4 marzo 2024 tramite uno scatto rubato che la ritrae in macchina con la madre, Carole Middleton, nei pressi del castello di Windsor, come riporta Sky TG24.

La notizia ha avuto particolare rilevanza mediatica dal momento che questa è la prima foto scattata alla consorte dell’erede al trono d’Inghilterra dalla sua uscita dalla London Clinic dove, stando a quanto ripotato dal Daily Mail, ha passato un periodo di degenza a seguito di un misterioso intervento all’addome già programmato, avvenuto intorno alla metà di gennaio 2024. 

La foto ha rassicurato il pubblico riguardo le condizioni di salute della Principessa, scomparsa dai riflettori dal 17 gennaio 2024, giorno in cui Kensington Palace ne aveva annunciato il ricovero presso la clinica e il successivo riposo forzato per tre mesi.

Dal giorno dell’operazione c’era stato un solo aggiornamento ufficiale: Kensington Palace aveva smentito che il ricovero della consorte del principe William fosse dovuto a un tumore, ma le condizioni della Principessa sembravano comunque abbastanza serie, tanto che i suoi impegni reali erano stati annullati fino a dopo Pasqua, come riporta CBS News.

Il ministero della Difesa britannica avrebbe recentemente dichiarato che il primo impegno ufficiale per i consorti eredi al trono d’Inghilterra è previsto per l’8 giugno 2024. In particolare, i Principi del Galles presiederanno alla cerimonia del Trooping the Colour (la “Sfilata della Bandiera”), una storica parata militare che, come riferisce il sito ufficiale della Royal Family, coincide con il compleanno ufficiale (non anagrafico) del Sovrano in carica. 

Nel frattempo, anche l’attuale re Carlo III (75 anni) è stato operato presso la stessa struttura di Kate Middleton. Come riporta la BBC, lo staff medico avrebbe scoperto una massa tumorale a seguito di un controllo alla prostata e il Re starebbe seguendo “terapie costanti” al fine di contenerla e monitorarla. Non ci sono stati ulteriori aggiornamenti sulle condizioni di salute di Sua Maestà.

Chiude Telam, la più grande agenzia di stampa dell’America Latina

Il presidente argentino Javier Milei ha annunciato la chiusura dell’agenzia di stampa statale Telam. Secondo quanto riporta La Prensa, il presidente ha affermato che «è stata utilizzata negli ultimi decenni come agenzia di propaganda kirchnerista».

Telam è la più grande agenzia di stampa statale dell’America Latina fondata il 14 aprile 1945 per volere di Juan Domingo Perón, l’allora Segretario del lavoro e della sicurezza sociale. All’inizio l’agenzia non era di proprietà statale, ma nacque come società mista formata da capitale pubblico e privato. Inoltre, nel corso dei suoi 78 anni di storia l’agenzia ha attraversato alcuni tentativi di chiusura ma anche massicci licenziamenti.

Nell’agenzia lavoravano circa 700 persone tra cui giornalisti, fotografi e amministratori e aveva una produzione giornaliera di circa 200 fotografie oltre a contenuti video e radiofonici.

Secondo quanto riporta La Nación, i dipendenti di Telam hanno ricevuto tramite e-mail la comunicazione che li invitava a non svolgere le loro mansioni per sette giorni. Tale comunicazione è stata firmata dal revisore dei conti Diego Chaher. Inoltre, è stata anche ordinata la recinzione della sede principale dell’agenzia situata a Buenos Aires.

Riporta El País, l’assemblea dei lavoratori ha affermato che «il governo nazionale sta portando avanti uno dei peggiori attacchi alla libertà di espressione negli ultimi 40 anni di democrazia». Inoltre, lo scorso lunedì davanti alle porte della sede principale erano presenti molti lavoratori, ma anche giornalisti, fotografi e sindacalisti con degli striscioni per esprimere il loro sostegno.

Anche il sito web ha smesso di funzionare e al suo posto compaiono lo stemma nazionale e la dicitura pagina in ricostruzione. Inoltre non è possibile accedere ai contenuti precedentemente pubblicati e neanche al suo archivio fotografico.

Il portavoce del governo argentino, Manuel Adorni, secondo quanto riportato da El País, ha dichiarato che la decisione di chiudere Telam risponde a una promessa elettorale e «non ha nulla a che fare con il pluralismo dell’informazione o dei media né con questioni che hanno a che fare la libertà di stampa». Inoltre ha aggiunto che Telam ha accumulato quest’anno perdite di circa 24 milioni di dollari.

Militare statunitense si dà fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington

Il 25 febbraio 2024 alle ore 13:00 locali, il soldato statunitense Aaron Bushnell (25 anni), di stanza a San Antonio, Texas, si è dato fuoco davanti al palazzo dell’ambasciata israeliana di Washington al grido di “Palestina libera!”, come riferisce il The New York Times.

Stando a quanto riportato dal sito della BBC, prima di arrivare sul luogo dell’evento, il ragazzo avrebbe inviato delle e-mail in cui spiegava le sue intenzioni a diversi giornalisti e siti di sinistra. In seguito, è andato in live sul sito di streaming Twitch con indosso l’uniforme militare, dichiarando le proprie generalità e il proprio status di membro dell’Aeronautica americana.

«Sto per compiere un estremo atto di protesta ma, rispetto a quello che le persone stanno vivendo in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questa è la normalità secondo la nostra classe dirigente». Queste sono le parole che ha pronunciato il venticinquenne prima di darsi fuoco, come riportato dal New York Magazine.

Diverse ore prima dell’atto, Bushnell aveva postato sul proprio account Facebook il link della successiva live su Twitch, scrivendo «Molti di noi si chiedono, cosa avrei fatto se fossi stato vivo durante il periodo della schiavitù? O al tempo delle leggi segregazioniste? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio Paese stesse commettendo un genocidio? La risposta la sapete, ora.».

Secondo Sky TG24, il gesto del ragazzo sarebbe stato un “estremo atto di protesta” nei riguardi del conflitto israelo-palestinese. Bushnell ha deciso di rendere la protesta pubblica, dichiarando «Non sarò più complice del genocidio!». Si è poi versato del liquido infiammabile addosso e si è dato fuoco davanti agli occhi di migliaia di spettatori online.

Stando a quanto riportato dal sito Internazionale, i vigili del fuoco sono arrivati sul posto dopo che gli agenti del Secret Service, un’unità speciale di polizia incaricata di proteggere la classe dirigente degli Stati Uniti, avevano già spento l’incendio. Dall’ambasciata israeliana è poi arrivata la comunicazione che nessun membro del loro staff era rimasto ferito, mentre Bushnell è stato trasportato in ospedale dove ha perso la vita alcune ore dopo, come riporta Ansa.

Diversi siti e giornali hanno ribattezzato il suicidio del militare come “The self-immolation of Aaron Bushnell” (L’autoimmolazione di Aaron Bushnell), identificando tale episodio come un evento di grande rilevanza mediatica per quanto riguarda la guerra Hamas-Israele.

Kiev teatro del settimo G7 a conduzione italiana

Sabato 24 febbraio Giorgia Meloni si è recata a Kiev insieme alla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, al Primo Ministro belga Alexander De Croo e al Primo Ministro canadese Trudeau.

I leader del G7 si sono incontrati in videoconferenza, con la partecipazione del Presidente ucraino Zelensky, in occasione dei due anni dall’inizio della guerra russo-ucraina.

I temi fondamentali toccati durante il vertice riguardano l’appoggio instancabile delle sette potenze all’Ucraina, definita «coraggiosa e resiliente», nonché le violazioni della Russia alla Carta delle Nazioni Unite, per finire con un tributo allo «straordinario coraggio di Alexei Navalny». Questo è quanto riportato dalla Commissione Europea nella dichiarazione dei leader del G7 del 24 febbraio.

«Navalny ha sacrificato la sua vita lottando contro la corruzione del Cremlino e per delle elezioni giuste e libere in Russia. Esigiamo che il governo russo chiarisca le circostanze sulla sua morte. Esortiamo inoltre la Russia a liberare tutti i prigionieri detenuti ingiustamente e a fermare la persecuzione agli oppositori politici così come la repressione sistematica dei diritti e delle libertà dei cittadini russi».

Il supporto all’Ucraina è stato inoltre ribadito in un bilaterale tra Meloni e Zelensky, attraverso la firma di un accordo di cooperazione in materia di sicurezza, già redatto nel luglio 2023, durante il vertice NATO di Vilnius. «Continueremo a supportare il diritto dell’Ucraina all’autodifesa», recita il documento del G7.

«Stiamo rafforzando la nostra assistenza per garantire maggiore sicurezza all’Ucraina e aumentando le nostre capacità di produzione e distribuzione per assistere il Paese».

Dieci anni dopo le proteste di Midan, l’Ucraina traccia il suo percorso verso l’integrazione euro-atlantica.

Per quanto riguarda la sfera economica, l’Europa offre un forte sostegno finanziario al Paese: sono stati stanziati 50 miliardi per supportarla fino al 2027.

Inoltre, a breve in Russia si terranno le elezioni per la presidenza del governo. A riguardo, i paesi del G7 hanno dichiarato: «non riconosceremo mai le cosiddette “elezioni”, passate o future, tenute dalla Russia nei territori dell’Ucraina, né gli eventuali risultati. L’intenzione dichiarata della Russia di ottenere dei voti per le proprie elezioni presidenziali nelle regioni ucraine è un’oltraggiosa violazione della sovranità ucraina». Un’ammonizione arriva anche ai paesi che facilitano la difesa militare della Russia, come la Nord Corea e l’Iran. «Condanniamo fermamente le esportazioni della Nord Corea e l’acquisto di missili balistici da parte della Russia. Sollecitiamo l’Iran a interrompere l’appoggio all’esercito russo».

«Mentre l’Ucraina si accinge a entrare nel terzo anno di questa guerra logorante, il suo governo e il suo popolo possono contare sul sostegno del G7 per tutto il tempo necessario».

Aerolineas Argentinas elimina il programma per l’accumulo di miglia

La compagnia aerea Aerolineas Argentinas ha annunciato che a partire dal 1° marzo 2024 i funzionari pubblici che viaggiano con un biglietto pagato dallo Stato non accumuleranno miglia da poter consumare per viaggi personali.

Secondo quanto riporta La Nación durante lo scorso anno sono state accreditate quasi 80 milioni di miglia a coloro che hanno viaggiato con biglietti acquistati dai funzionari dei tre rami del governo, da enti decentralizzati e aziende pubbliche. Tali miglia sono state scambiate con più di 10.000 biglietti per uso personale e tra questi 1.000 sono stati emessi per la classe business. Per la società ciò ha significato un costo di quasi 2,7 milioni di dollari.

Per giustificare questa politica la società ha sottolineato «si tratta di un beneficio che si origina da un pagamento da parte dello Stato e che genera un debito in dollari nei confronti dello Stato stesso». E in un comunicato ha spiegato «l’obiettivo di Aerolineas Argentinas è aumentare la produttività e l’efficienza nell’uso della sua flotta e delle sue risorse tecniche e umane» indicando «le decisioni commerciali e operative prese in questa prima fase di gestione sono in linea con tale priorità, che mira a migliorare i risultati economici verso la fine dell’anno».

Secondo i dati forniti dall’azienda, nel mese di gennaio sono stati trasportati più di 1,3 milioni di passeggeri il che ha rappresentato un incremento del 12% rispetto a gennaio dello scorso anno.  Come riporta La Prensa il comunicato afferma «questo numero segna il miglior gennaio della sua storia» sottolineando, inoltre, che «durante questo periodo la puntualità è aumentata di 11 punti rispetto a dicembre, attestandosi all’81%».

La compagnia prevede che al termine del mese di febbraio ci sarà un aumento del 4% dei passeggeri trasportati rispetto a febbraio 2023 e la società ha riferito di poter chiudere l’estate con un nuovo record.

Secondo quanto riporta La Nacion, Aerolineas Argentinas sul proprio sito ha specificato che è possibile accumulare miglia in altri modi, uno tra questi è quello di effettuare il pagamento con le carte di credito di American Express o delle banche associate.

Pablo Neruda: riaperte le indagini sulla sua morte

Il certificato di morte del poeta e senatore cileno Pablo Neruda recita: «cachessia tumorale dovuta a un cancro alla prostata», cause ufficiali del decesso.

Nel 2011, trentotto anni dopo la sua morte, questa versione dei fatti viene smentita da Manuel Araya, chauffeur e assistente del poeta, il quale assicura che Neruda è stato assassinato con un’iniezione letale nella clinica in cui era ricoverato.

A seguito di tale dichiarazione è stata aperta un’indagine lunga 12 anni, chiusa soltanto lo scorso settembre 2023, per essere riaperta qualche mese dopo. Questo quanto sostenuto dalla BBC.

Attualmente, infatti, il tribunale contesta la diagnosi di cachessia tumorale, in quanto tale malattia comporta una perdita di peso notevole nei pazienti che ne sono affetti, mentre il poeta pesava più di 90 chili alla sua morte. Il giudice ha perciò richiesto una perizia calligrafica al certificato di morte, oltre a un riesame delle conclusioni a cui sono giunti gli studiosi delle università di McMaster e Copenhaguen, secondo cui il poeta sarebbe stato avvelenato con il Clostridium Botulinum, un batterio responsabile della produzione di tossine potenzialmente mortali. Non si esclude perciò l’ipotesi del coinvolgimento di terze parti, a sostengo della quale verrà sottoposto a interrogatorio il medico dell’esercito Eduardo Arriagada Rehren, già condannato per aver ucciso un simpatizzante comunista iniettandogli del dipiridamolo e provocandogli un infarto.

In realtà, afferma El Pais, la lista dei medici presenti nella clinica il giorno della morte del poeta rimane un grande mistero. Il dottor Sergio Draper, infatti, sostiene di aver dato il cambio turno quel giorno a un tale dottor Prize. Tuttavia, né in quella clinica né nel Colegio Medico de Chile o in alcuna scuola di medicina è mai risultato qualcuno con quel nome o cognome.

Pablo Neruda, militante nel Partito Comunista cileno, era molto vicino a Salvador Allende quando il governo di quest’ultimo venne rovesciato dal colpo di stato di Pinochet. Secondo la BBC, che riporta il pensiero dell’ex chauffeur del poeta, il governo del dittatore stava pianificando il suo espatrio in Messico poiché rappresentava un pericolo per la dittatura, vista la sua influenza culturale e politica. Inoltre, il poeta venne internato nella clinica per il suo “delicato stato di salute” ma in realtà, afferma l’ex chauffeur, non era terminale.

È stato grazie alle querele del Partito Comunista se nel 2011, dopo le accuse di Araya, sono iniziate le indagini prolungatesi per 12 anni, con la riesumazione delle spoglie del poeta nel 2013.

La Corte d’Appello cilena ha ordinato l’interrogatorio di Peter Kornbluh, analista dell’Archivio di Sicurezza Nazionale statunitense, che da anni analizza i documenti desecretati sull’ingerenza degli Stati Uniti nella caduta del governo di Salvador Allende e sul loro appoggio alla dittatura di Pinochet.

Protesta degli agricoltori a Madrid: 500 trattori nella capitale

Centinaia di agricoltori si sono riuniti nei pressi della Porta di Alcalá, in pieno centro di Madrid, in attesa che arrivassero altre cinque colonne di trattori da altre province della Spagna per poter raggiungere la sede del Ministero dell’Agricoltura. Secondo l’organizzazione sarebbero dovuti arrivare 1.500 trattori, anche se la Delegazione del Governo ne aveva autorizzati 500.  

I trattori e gli agricoltori sono stati accolti da molte persone, tra cui anche i madrileni stessi, che hanno manifestato il loro sostegno ai lavoratori del settore primario. Alcuni trattoristi, che avevano viaggiato da Buitrago del Lozoya, a 74 Km dalla Capitale, come riporta El Periodico, hanno affermato «è stato molto complicato arrivare a Madrid».

La Delegazione del Governo aveva previsto che la protesta si svolgesse lungo la via Alfonso XII ma alcuni manifestati hanno tentato di modificare il percorso provocando alcuni scontri con la polizia. Nello scontro è rimasto coinvolto Luis Cortés, coordinatore statale dell’Unión de Uniones, che ha riportato lievi ferite.

Arrivati davanti alla sede del ministero, riporta El Mundo, Luis Cortés ha detto «crediamo solo in ciò che uscirà lunedì dal Consiglio dei ministri dell’Agricoltura dell’UE e, a seconda di ciò che verrà approvato, annunceremo un nuovo calendario di mobilitazioni». E dopo la richiesta di svolgere le elezioni per votare i rappresentanti nel settore agricolo, secondo quanto riportato da El Periodico, Luis Cortés ha affermato «siamo agricoltori e non giardinieri».

Alcuni agricoltori hanno scandito slogan dove richiedevano prezzi equi e soluzioni per il settore primario, hanno manifestato vestiti con giubbotti catarifrangenti e hanno mostrato striscioni contro l’Agenda 2030. Secondo quanto riferisce ancora El Mundo l’agricoltore Javier García ha dichiarato «chiediamo prezzi equi perché non possiamo competere contro prodotti provenienti da Paesi terzi che fanno concorrenza sleale, ma soprattutto contro l’Agenda 2030, che prevede norme ambientali restrittive che attaccano agricoltori e allevatori. In Spagna ci sono anche molte restrizioni a livello nazionale, tralasciando ciò che arriva dall’Europa. Resteremo qui finché non ci ascolteranno».

Il presidente del governo Pedro Sánchez, dal Marocco, non si è pronunciato sulla manifestazione a Madrid e ha annunciato l’invio di una lettera alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per rispondere alle richieste degli agricoltori.

La morte di Navalny: il mistero si infittisce

Secondo quanto affermato dalla BBC, il Cremlino starebbe svolgendo un’indagine sulla morte del principale oppositore di Putin, avvenuta lo scorso 16 febbraio nella prigione in cui era detenuto.

Questa è una delle motivazioni che non ha permesso alla moglie, Yulia Navalnaya, di riavere indietro la salma del marito. Il periodo di tempo richiesto dalle “analisi chimiche” che il governo russo afferma di stare portando avanti sul copro di Navalny è pari a due settimane.

Tuttavia, Yulia Navalnaya afferma con certezza in un video che Vladimir Putin è il responsabile della morte di Navalny, e che il Cremlino sta prendendo tempo affinché le tracce del Novichok spariscano completamente dal suo corpo. «Stanno nascondendo il suo corpo, senza mostrarlo né consegnarlo alla madre, e stanno mentendo. Attendono che le ultime tracce del Novichok, con cui Putin lo ha avvelenato, spariscano». Queste le sue parole, riportate dalla BBC. Lyudmila Navalnaya, la madre di Alexei, si era in effetti recata nella prigione in cui il figlio era detenuto, a nord del Circolo Polare Artico, senza però riuscire a vederlo. Come riporta il Guardian, le autorità le avevano fornito delle informazioni contraddittorie riguardo il luogo in cui si trovava la salma, dirigendola all’obitorio di Salekhard, una città vicino al complesso carcerario, che al suo arrivo era chiuso.

Inoltre, un impiegato ha affermato che la salma del principale oppositore di Putin non è mai arrivata in obitorio, nonostante alcune presunte testimonianze sostenessero il contrario, aggiungendo che il corpo presentava tracce di lividi dovute al tentativo di effettuare un massaggio cardiaco.

«Ci stanno facendo girare in tondo per coprire le tracce» sostiene il portavoce di Navalny, Kira Yarmysh.

Il Cremlino afferma che la causa ufficiale della morte dell’attivista è legata a un problema cardiaco presentatosi improvvisamente durante una passeggiata nel cortile del carcere. Tuttavia, secondo le autorità russe il decesso sarebbe avvenuto nel primo pomeriggio, mentre lo stesso Navalny aveva affermato che l’unica “ora d’aria” prevista era all’alba, con -40°C.

«Siamo sconvolti dalla morte di Navalny. Avevamo ripetutamente sollecitato la Russia affinché garantisse la sua sicurezza e il suo benessere. Ci siamo sempre opposti alle ingiustificate e illegittime misure disciplinari adottate, così come alle forme di tortura fisica e psicologica da parte delle autorità carcerarie. Navalny è stato lentamente assassinato dal presidente Putin e dal suo regime, che teme più di ogni altra cosa il dissenso da parte del suo popolo. Esigiamo chiarezza. La Russia deve rilasciare immediatamente tutti gli altri prigionieri politici». Questo è quanto affermato in una dichiarazione congiunta della Commissione Europea da Ursula von der Leyen e dal Vicepresidente Borrel.

La malattia di Carlo III: gli assetti si modificano

«Durante il ricovero recente del Re per un ingrossamento benigno della prostata, è sorta una nuova fonte di preoccupazione. Conseguenti test diagnostici hanno identificato una forma di tumore». Questo è quanto affermato dal comunicato ufficiale di Buckingham Palace del 5 Febbraio 2024.

Una doccia fredda e improvvisa per la famiglia Reale che, oltre al recente intervento chirurgico di Sua Maestà, ha visto l’intervento improvviso all’addome della Principessa del Galles, nonché futura Regina, Catherine Middleton.

Il comunicato di Buckingham Palace specifica che il Re ha già iniziato i trattamenti e, durante il periodo delle cure, continuerà a occuparsi degli incontri settimanali col Primo Ministro Sunak, nonchè delle questioni burocratiche. Gli incontri pubblici verranno invece portati avanti dalla Regina. Qualora il Re fosse impossibilitato a svolgere i doveri ufficiali per un periodo di tempo, alcuni membri della Famiglia Reale subentrerebbero come Consiglieri di Stato. Tra questi la Regina Camilla, il Principe del Galles (William), la Principessa Reale (Anna) e il Duca di Edimburgo (Edoardo). Questo è quanto riporta la BBC, specificando inoltre che il Re, dopo l’inizio delle cure, si è subito recato a Sandringham.

Il ruolo di William in questo momento è dunque cruciale, in quanto, quale futuro sovrano d’Inghilterra, sta a lui occuparsi dei doveri a cui si dedicò lo stesso Carlo quando Elisabetta II era ancora viva e temporaneamente impossibilitata a svolgere i suoi compiti.

Le responsabilità da futuro erede al trono hanno perciò costretto il Principe del Galles a un ritorno ai doveri reali dopo circa tre settimane di assenza, durante le quali si è dedicato ai figli e alla moglie Kate, ricoverata nella stessa clinica privata di Carlo. La convalescenza della Principessa sembra però essere più lunga del previsto, in quanto tutti i suoi impegni sono stati cancellati sino a Pasqua. Tuttavia, non si ha nessun comunicato ufficiale di Buckingham Palace riguardo al problema di salute che ha colpito Kate, diversamente da Re Carlo, il quale ha voluto dichiarare apertamente la sua malattia al fine di «prevenire speculazioni e trasmettere conforto e vicinanza ai malati di cancro in tutto il mondo», come si legge nel comunicato.

Attualmente, secondo la CNN, i membri della Famiglia Reale più vicini al Sovrano si stanno occupando dei loro numerosi impegni pubblici, ma potrebbero dover sbrigare ulteriori incombenze in vece di Carlo III.

La vera «sfida» di William in questo momento delicato per la sua famiglia, e nelle settimane che verranno, sarà dunque quella di riuscire a bilanciare i suoi impegni personali e professionali.

Il caso Salis

A Budapest, in Ungheria, la cella che Ilaria Salis condivide con un’altra detenuta «misura meno di 7 metri quadri» e le due sono costrette a «stare 23 ore su 24 in una cella completamente chiusa. Oltre alle cimici da letto, sia le celle che i corridoi sono infestate da scarafaggi e topi». Queste le parole dell’insegnante elementare originaria di Monza, che da circa un anno si trova rinchiusa nel carcere ungherese, come riporta il Guardian. Il caso Ilaria Salis è diventato di stampo internazionale quando il padre, Roberto Salis, ha deciso di mostrare le lettere inviategli dalla figlia riguardo alla situazione precaria e alle ingiustizie del carcere. A sconvolgere l’opinione pubblica è soprattutto un video che mostra Ilaria, in tribunale, con mani e piedi incatenati e una sorta di “guinzaglio” col quale viene tenuta da una poliziotta.

Salis è accusata di aver preso parte a un’aggressione contro alcuni neonazisti durante un raduno annuale a Budapest, il cosiddetto “Day of Honour”, una commemorazione dei caduti ungheresi durante l’assedio di Budapest del 1945.

«Sono stata lasciata senza carta igienica, sapone e assorbenti» sono alcune delle testimonianze della donna nelle lettere al padre. La BBC riporta le parole del servizio carcerario ungherese, il quale respinge le accuse della Salis come «false», aggiungendo che «le celle sono sottoposte a controlli di igiene costanti» e «i prigionieri ricevono un appropriato servizio sanitario». Riguardo quest’ultimo punto, Salis specifica nelle sue lettere che avrebbe dovuto effettuare una mammografia a metà marzo, ma non le è stato concesso fino a metà giugno. Inoltre, la donna afferma di non aver mai ricevuto i risultati, consegnati dalla clinica direttamente al medico carcerario, il quale si rifiuta di inviarli all’avvocato. Salis, per giunta, non ha mai potuto vedere il video dell’aggressione di cui è accusata, ed è stata costretta a firmare dei documenti in ungherese, senza traduzione.

Davanti alle accuse del padre e ai commenti del ministro degli Esteri Tajani, il quale afferma che «siamo nell’Unione Europea e i cittadini hanno diritti che devono essere rispettati», il portavoce del governo ungherese Zoltán Kovács scrive su X: «Certo, (Ilaria) era legata in tribunale, e sì, aveva già scontato 11 mesi in carcere. Ma si può davvero parlare di “trattamento inumano”? No, non direi. Piuttosto, di trattamento adeguato alla gravità del crimine di cui è accusata».

Il caso Salis è stato preso in considerazione dal Governo italiano che, durante un bilaterale Italia-Ungheria, ha esposto la questione al presidente Orbán. Quest’ultimo ha ribadito di potere soltanto chiedere un trattamento migliore in carcere, poiché la magistratura ungherese è indipendente dall’esecutivo. Inoltre, Roberto Salis è stato ricevuto dal Ministro degli Esteri Tajani e dal Ministro della Giustizia Nordio. L’obiettivo è quello di portare Ilaria ai domiciliari in Italia. Tuttavia, entrambi i ministri hanno ribadito che «i principi di sovranità giurisdizionale di uno Stato impediscono qualsiasi interferenza sia nella conduzione del processo sia nel mutamento dello status libertatis dell’indagato».

Allo stato attuale, Salis rischia 11 anni di carcere.

Social media sotto processo

Gli amministratori delegati dei principali social media, quali Facebook e Instagram, TikTok, Snapchat, Discord e X, sono comparsi davanti al Senato americano per un’udienza sulla tutela di bambini e adolescenti online. Le accuse da parte dei senatori sono molto forti, e non sono da meno quelle dei genitori delle vittime di suicidio a causa dei social. Durante l’udienza, infatti, la platea era gremita di madri e padri con in mano le foto dei loro figli scomparsi, dopo aver subito ricatti sessuali o aver contratto malattie mentali come disturbi del comportamento alimentare, causati dalla promozione sui social di standard di bellezza surreali.

Si tratta di un «raro momento di unione» di democratici e repubblicani, come afferma Al Jazeera. L’accusa mossa agli amministratori dal presidente democratico della commissione giudiziaria, Dick Durbin, è che siano responsabili di molti pericoli che i bambini e le bambine incontrano in rete. «il loro fallimento nell’investire adeguatamente sulla sicurezza, il loro perseguire costantemente profitti piuttosto che creare sicurezza, hanno messo in pericolo i nostri figli e nipoti».

Il Senatore repubblicano Hawley si è poi rivolto a Zuckerberg, domandandogli se avesse mai ricompensato le famiglie per ciò che avevano vissuto, e se volesse porre delle scuse.

«Mi dispiace per tutto ciò che avete passato. Nessuno dovrebbe patire tutto quello che voi e le vostre famiglie avete patito». Queste le parole dell’informatico e imprenditore statunitense, nonché CEO di Meta, che si è girato verso le famiglie delle vittime per presentare le sue scuse, le quali, secondo quanto affermato dall’analista Matt Navarra alla BBC, «non porteranno a niente di concreto in fatto di regolamentazione social».

Le scuse di Zuckerberg si aggiungerebbero a una lunga lista che risale ai tempi in cui l’imprenditore fondò Facebook, nel 2004. Al Jazeera riporta un esempio recente, quando nel 2018 Zuckerberg dovette scusarsi per problemi riguardanti la privacy e i dati degli utenti. Era stato scoperto, infatti, che Facebook aveva permesso a un’applicazione di inviare le informazioni degli utenti alla Cambridge Analytica, una società di consulenza politica britannica accusata di aver utilizzato i dati di milioni di utenti Facebook per influenzare le elezioni politiche.

Ad ogni modo, Mark Zuckerberg e Shou Zi Chew (Ceo di TikTok) sono stati gli unici ad accettare volontariamente di testimoniare, mentre gli amministratori di Snapchat, X e Discord hanno ricevuto un mandato di comparizione, in quanto avevano inizialmente negato la loro partecipazione.

Inoltre, in vista dell’udienza, Meta aveva annunciato delle nuove misure di sicurezza, tra cui quelle sui minori, che d’ora in poi non potranno, di default, ricevere messaggi da sconosciuti su Instagram e Messenger.

La difesa degli amministratori delegati si è conclusa con la citazione del numero degli addetti alla moderazione dei contenuti, pari a 40 mila per Meta e TikTok, che vantano il maggior numero di iscritti, e a 2300 per Snapchat. Seguono X con 2000 e Discord con un centinaio.

Musk lancia “Telepathy”, un chip nel cervello umano

È stato impiantato dalla Neuralink il primo chip in un cervello umano. «I risultati iniziali mostrano un promettente rilevamento dell’attività neuronale». Queste le parole dell’imprenditore miliardario, che lunedì 29 gennaio ha scritto su X il primo aggiornamento dopo l’intervento chirurgico a un volontario. Secondo il Guardian, Musk aveva ricevuto a settembre il via libera da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense alla sperimentazione sugli esseri umani del chip da impiantare nel cervello.

L’obiettivo ultimo, allo stato attuale, è quello di connettere il cervello al computer per permettere alle persone affette da malattie neurologiche importanti, con paralisi agli arti, di utilizzare dispositivi esterni. Questo avverrebbe grazie al riconoscimento da parte del chip dell’attività neuronale, e quindi delle intenzioni di movimento degli arti.

«Il chip permetterà di controllare il proprio smartphone, il computer e, attraverso questi, un qualsiasi altro dispositivo, semplicemente con il pensiero». «I primi utenti a beneficiarne saranno coloro che hanno perso l’uso delle gambe». Per questo motivo la decisione di chiamare il nuovo prodotto “Telepathy” (Telepatia).

Tuttavia, quella di Musk non è un’assoluta novità. Memorabile, infatti, è il traguardo raggiunto dall’École Polytechnique Fédérale in Lausanne (EPFL), l’università e istituto di ricerca svizzero che ha permesso a un paralitico di camminare con la forza del pensiero, grazie a degli impianti elettrici innestati in cervello e spina dorsale capaci di comunicare in modalità wireless i pensieri a gambe e piedi. Questo quanto riportato dalla BBC, che ha intervistato la Neuralink, l’azienda fondata da Musk, specializzata nello sviluppo di interfacce cervello-computer. Secondo quanto affermato da quest’ultima, l’impianto è il frutto di sei anni di test effettuati su un robot, al quale sono stati impiantati 64 fili flessibili, più sottili di un capello, in una parte del cervello che controlla le intenzioni di movimento. Questi fili permettono all’impianto, che si ricarica in modalità wireless attraverso una batteria, di registrare e trasmettere i segnali cerebrali a un’applicazione, la quale decodifica come la persona intende muoversi.

Secondo Anne Vanhoestenberghe, professoressa di dispositivi medici impiantabili attivi al King’s College di Londra, «sono molte le aziende che lavorano a prodotti interessanti» ma «solo alcune hanno impiantato i loro dispositivi in esseri umani; perciò, la Neuralink si è unita a un gruppo piuttosto piccolo». Tuttavia, prosegue, «il vero successo a mio parere dovrebbe essere valutato nel lungo termine, sulla stabilità dell’interfaccia nel tempo e sul reale beneficio dei partecipanti».

Critiche arrivano anche dallo stesso Guardian, secondo cui Musk avrebbe un passato di promesse audaci ma alcuni problemi nel mantenerle. L’esempio fornito ai lettori risale a una predizione di Musk del 2016, secondo il quale entro i due anni successivi una Tesla sarebbe stata in grado di guidare in autonomia da New York a Los Angeles. Inoltre, nel 2017 l’imprenditore aveva affermato che il primo prodotto della Neurolink sarebbe stato in vendita sul mercato entro i quattro anni successivi. Così non è stato, ma il fatto che il primo intervento sia stato già realizzato rappresenta per molti studiosi una “pietra miliare” nel raggiungimento di un grande obiettivo.

Al via il Piano Mattei

Il Senato ha accolto nella giornata di lunedì 29 gennaio diversi capi di Stato e ministri africani, in un vertice nel quale è stato annunciato ufficialmente un nuovo piano strategico. A rappresentare l’Europa, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la Presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola.

Il piano sopracitato, “Piano Mattei”, prende il nome dal fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, e prevede «un ambizioso programma di interventi che sia capace di aiutare il Continente a crescere e prosperare partendo dalle sue immense risorse». Queste le parole della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel suo discorso riportato dalla pagina della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Meloni chiarisce le «cinque grandi priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia». L’obiettivo è quello di incentivare uno sviluppo comune dei due Paesi, italiano e africano, in un’ottica di cooperazione. Il DDL sul Piano Mattei riassume gli obiettivi condivisi: «promuovere una crescita comune, incentivare la creazione di opportunità di lavoro, migliorare l’istruzione e la formazione professionale sono priorità cruciali per avviare un circolo virtuoso di investimenti, sviluppo e crescita reciproca, capace di assicurare alle giovani generazioni africane il diritto a non emigrare e a rimanere nella propria Patria per contribuire al suo futuro».

Un punto cruciale per l’Italia (e per l’Europa in generale) è senza dubbio quello riguardante l’energia. Il Piano Mattei difatti si propone di fare dell’Italia un hub di rifornimento energetico per l’Europa, sempre nell’ottica dello sviluppo comune: il continente africano verrà assistito dall’Italia nella produzione di energia sufficiente al proprio sostentamento e, in cambio, esporterà in Europa (attraverso l’Italia) quella in eccesso.

Questo permetterà all’Africa di generare ricchezza, e all’Europa di avere un fornitore energetico diverso dalla Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di quest’ultima.

La Presidente von der Leyen si dice «profondamente grata all’Italia per aver fatto della cooperazione con l’Africa il cuore della propria politica estera». Aggiunge inoltre nel suo discorso che «tutti noi abbiamo bisogno di energia pulita e di adattarci al cambiamento climatico. Tutti noi vogliamo fermare le tragiche morti lungo le rotte migratorie. Perciò non è solo la geografia ad unirci ma anche l’impegno a garantire benefici reciproci ai nostri popoli». Queste alcune delle sue parole nel discorso pronunciato durante il summit, riportate dal sito della Commissione europea.

Non sono mancate le critiche da parte dell’opposizione, che ha definito il Piano una “scatola vuota”, o ancora una “nuova politica di stampo neo coloniale”. Critiche anche da leader africani presenti al summit, che affermano di non essere stati consultati nella realizzazione del piano, e di aspettarsi “fatti, non parole”, come riporta la CNN. Meloni a riguardo ha tenuto a specificare che «non si tratta di un Piano concepito come una scatola chiusa, da imporre e calare dall’alto» ma di un «approccio non predatorio, né caritatevole». «Un approccio tra pari».

Elezioni Taiwan: la posizione della Cina

0

Il 2024 si apre con le nuove elezioni nella Repubblica di Cina. Il nuovo presidente Lai dichiara di voler seguire la linea del suo precursore, Tsai. In sostanza: non auspica la riunificazione. 

Xi Jinping, invece, continua a rivendicare l’isola come parte della sua nazione e queste elezioni potrebbero esacerbare i rapporti, di per sé già tesi. Per il presidente cinese, Lai non è altro che un “piantagrane e separatista”, come riporta la BBC, e un faccia a faccia tra i due non pare sia contemplato al momento. D’altronde i canali di comunicazione sono interrotti dal 2016, ricorda il reporter da Taiwan.

Le relazioni, dunque, potrebbero farsi più aspre, la Cina potrebbe attuare strategie quali pressione economica e restrizioni commerciali più incalzanti per le nazioni che appoggiano e riconoscono Taipei indipendente; intensificare la minaccia militare via mare, facendo leva anche sull’inferiorità militare e di risorse dell’isola, delle quali quest’ultima ne è consapevole.  

“我们的未来将由我们自己决定”, ovvero “il nostro futuro dipende da noi stessi”, questa una frase riportata dal discorso di uno dei sostenitori che sottolinea il desiderio taiwanese comune di indipendenza e altresì sottolinea come la componente giovanile sia stata d’impatto nelle elezioni, nonostante i tentativi da parte della Cina di minare la campagna elettorale. La Cina avrebbe volentieri preferito la vittoria del Kuomintang, ossia l’opposizione, con il quale nel peggiore dei casi avrebbe avuto quantomeno un confronto. La suddetta opposizione teme l’attacco della Cina, motivo per cui nelle campagne si è dimostrata non tanto favorevole alla riannessione quanto propensa a mantenere i rapporti pacifici. I partiti avversi accusano il KMT di essere debole e poco propenso a proteggere l’identità nazionale di Taiwan. Insomma, Xi non si fa intimorire della salita al potere di Lai, ma nemmeno quest’ultimo ha intenzione di rendersi vulnerabile alle minacce del primo.   La situazione attualmente risulta statica nella tensione persistente, senza nessun segnale di guerra o di ulteriore fermento. Si attendono i prossimi mesi, l’insediamento del presidente e le azioni e gli interventi da parte delle altre nazioni.  

Significativa la posizione degli Stati Uniti, che dichiarano però di sostenere Taiwan in una sovranità di fatto e non in un’indipendenza vera e propria, confermata dalla visita non ufficiale di una delegazione americana sull’isola. 

Le sorti sembrano muoversi su un filo sottile e impercettibile e ogni minima tensione potrebbe risultare significativa.  

Cosa succederebbe se la Cina volesse attaccare? Che ruolo avrebbero gli Stati Uniti, tra l’altro in questo 2024 impegnati nelle elezioni presidenziali?  

L’Italia e il grave problema dei femminicidi

Il 25 novembre è stata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita dall’ONU in onore delle sorelle Mirabal: Patria, Minerva e Maria Teresa, attiviste uccise il 25 novembre 1960 dalla dittatura di Trujillo in Repubblica Dominicana. Numerose sono state le manifestazioni nelle principali città italiane, organizzate dal movimento “Non Una Di Meno”, con nutrita affluenza da parte di giovani e meno giovani.

Pochi giorni prima, il 18 novembre, era stato rinvenuto il corpo senza vita di Giulia Cecchettin, 102ª vittima di femminicidio su suolo italiano nel 2023, in pratica una ogni tre giorni. 87 di queste sono state uccise in ambito familiare e affettivo. Sebbene si trattasse di uno scenario già tristemente noto, l’Italia intera si è fermata e ha invocato per l’ennesima volta giustizia. Colpisce la nonchalance di alcuni, come i familiari dell’assassino Filippo Turetta, che fino all’ultimo lo definivano solo «un po’ possessivo» o dichiaravano che lui volesse bene a Giulia, tant’è che «le faceva i biscotti», secondo quanto riferito dal legale di Turetta. Continua a non essere una novità l’approccio dei media italiani ai casi di femminicidio: hanno continuato a concedergli il beneficio del dubbio chiamandolo «presunto assassino» fino all’ultimo. Ancor di più, insistendo nella pubblicazione di foto di coppia della vittima con il suo assassino, ritratti in momenti “felici”. Non sono nemmeno mancate polemiche alla Rai che, come riporta L’Espresso, ha l’abitudine ad assumere atteggiamenti incoerenti a riguardo. Per citarne uno, la comparsa del logo “La Rai dice basta alla violenza sulle donne”, con contestuale invito come ospite a Domenica In alla senatrice leghista Simonetta Matone, nota al pubblico per incolpare le madri che subiscono senza ribellarsi.

Non Una Di Meno invece dichiara che «la risposta è in una trasformazione radicale delle condizioni culturali e sociali che producono violenza, abusi, discriminazione e marginalizzazione delle donne, delle soggettività LGBTQIA+ e migranti». In tal senso, sarebbe intervenuto il Ministero dell’Istruzione presentando il piano “Educare alle relazioni”, seppur risulti inconcludente secondo i più, tanto da essere definito «infimo» dalla deputata del PD Rachele Scarpa sui social. I percorsi di educazione non saranno infatti obbligatori, ogni scuola potrà scegliere se farli, e in tal caso, in orari extracurricolari, previa autorizzazione dei genitori. Inoltre, non saranno coinvolti professionisti ma i soli docenti dopo aver svolto una formazione.

Non mancano, inoltre, numerose testimonianze via social di tutte quelle donne che denunciano e cercano aiuto, ma che non si sentono protette dalle istituzioni. In particolare, hanno suscitato clamore i commenti al post contro la violenza sulle donne pubblicato dalla Polizia di Stato, in cui migliaia di donne italiane hanno denunciato episodi di totale inadeguatezza nella gestione delle loro richieste.

In questo clima di incertezza, continuano ad aumentare i femminicidi, con altre quattro donne uccise subito dopo Giulia Cecchettin. Secondo l’Istat, il 20% degli uomini ancora si ostina a essere convinto che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle donne. Aumenta inoltre il numero di orfani speciali, così come vengono definiti i minori che hanno assistito all’omicidio di uno dei due genitori, come anche gli assassini che beneficiano di sconti di pena. È esattamente quanto accaduto a Oscar Pistorius, ex campione paralimpico sudafricano, scarcerato anticipatamente nelle scorse settimane con la condizionale, appena dieci anni dopo aver ucciso la fidanzata, Reeva Steenkamp. 

António Guterres: «Il Consiglio di sicurezza deve premere per evitare una catastrofe umanitaria»

Il 6 dicembre 2023 il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha inviato una lettera al presidente del Consiglio di Sicurezza, José Javier De la Gasca, sollecitando una risoluzione per un cessate il fuoco a Gaza, come riporta il sito delle Nazioni Unite. La situazione nella Striscia ha raggiunto un livello critico tale che il Segretario Generale ha dichiarato il «severo rischio del collasso del sistema umanitario». La decisione di invocare l’articolo 99 è stata descritta come una drammatica mossa costituzionale da Stéphane Dujarric, Portavoce di Guterres. Il suddetto articolo è considerato uno degli strumenti più forti e, per questo, raramente utilizzato che dichiara che il Segretario Generale «può portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza qualsiasi questione che, a suo parere, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale», come si può leggere nella Carta delle Nazioni Unite, Capitolo XV. L’articolo 99 è stato invocato solamente due volte nella storia delle Nazioni Unite, riporta il The National News, la prima nel 1960 a causa della crescente violenza in Congo, e successivamente nel 1989 verso la fine della guerra civile in Libano. È chiaro quindi che questo potere è stato pensato per riportare l’attenzione del più alto organo dell’ONU alle situazioni in cui la pace e la sicurezza internazionali sono in grave pericolo.

La richiesta urgente di António Guterres arriva alla luce della recente escalation del conflitto israelo-palestinese dopo la pausa umanitaria concessa per l’ingresso del supporto umanitario, essenziale per la popolazione stremata dai costanti attacchi, e per lo scambio di prigionieri da parte di Hamas e del governo di Tel Aviv, dal 24 Novembre al 1 dicembre 2023. È proprio nella mattina del 1 dicembre che l’esercito israeliano non solo ha ripresto i bombardamenti al nord della Striscia, la zona più colpita dall’inizio del conflitto, ma ha anche intensificato i raid aerei nel sud di Gaza nel tentativo di piegare Hamas, come riporta la rassegna geopolitica di Limes del 5 dicembre. L’intensificarsi degli attacchi sembra aprire una seconda fase del conflitto che, come ha dichiarato il portavoce del governo israeliano Eylon Levy, citato in un articolo di Reuters, sarà militarmente più intensa. La decisione di Guterres di evidenziare la necessità di un immediato cessate il fuoco è stata duramente criticata dall’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, che in un post su X ha dichiarato che il Segretario Generale ha raggiunto un «nuovo minimo morale» accusando inoltre Guterres di avere un pregiudizio nei confronti di Israele. Anche Eli Cohen, Ministro degli Affari Esteri israeliano, sempre su X il 5 dicembre, ha accusato l’ONU di avere un pregiudizio nei confronti di Tel Aviv e ha revocato il visto di residenza alla coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite Lynn Hastings.

L’articolo 99 è stato invocato non solo per la grave situazione umanitaria nella Striscia, ma anche per le implicazioni che questo conflitto può avere sulla stabilità della regione intera. A questo proposito, il The National News riporta che una delle preoccupazioni principali resta quella di un allargamento del conflitto in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Questo timore è chiaramente condiviso da Guterres che nella sua lettera ribadisce che la guerra potrebbe avere delle implicazioni irreversibili per i palestinesi e per la pace e la sicurezza in tutta la regione. Nonostante resti contestata l’uso da parte del Segretario Generale di questo potente strumento, Al Jazeera riporta che gli Emirati Arabi Uniti, membri del Consiglio di sicurezza, hanno già presentato una nuova bozza di risoluzione al Consiglio e hanno chiesto l’adozione urgente di una risoluzione per il cessate il fuoco umanitario.

La Russia dichiara organizzazione estremista il movimento internazionale LGBTQ+

Il 30 novembre la Corte Suprema della Federazione Russa ha dichiarato organizzazione estremista il Movimento internazionale LGBTQ+. Secondo quanto riporta il portale di informazione Meduza, la Corte ha ritenuto valida la richiesta del Ministero della Giustizia, secondo il quale l’attività del movimento LGBTQ+ avrebbe un orientamento estremista volto a scatenare provocazioni sociali e religiose.

La discriminazione della comunità LGBTQ+ in Russia va avanti da molti anni. Nel 2013 fu varata una legge che vietava la “propaganda gay” tra i minorenni, estesa poi alle persone di qualsiasi età con il divieto di propaganda delle relazioni sessuali non tradizionali e della pedofilia. A inizio 2023 il governo ha iniziato a multare determinate piattaforme online con l’accusa di propaganda LGBTQ+ per la proiezione di alcuni film e serie tv e, a giugno dello stesso anno, il presidente Putin ha firmato una legge contro il cambio di genere. Da quel momento, le persone transgender non possono più sottoporsi a interventi per la riassegnazione del sesso, modificare il proprio genere sul passaporto e adottare bambini.

Secondo quanto riferito a Meduza dall’attivista per la difesa dei diritti nell’ambito del progetto “Pervy’ otdel” Valerija Vetoškina, questo movimento non esiste: non si tratta di un’organizzazione registrata in Russia, non possiede un proprio statuto o documenti che permetterebbero, almeno in teoria, di definirla tale e di condannarla. Tuttavia, qualora una persona dovesse fare attivismo LGBTQ+, le autorità potrebbero perquisire le sue reti sociali e raccogliere informazioni sulle sue attività. In questo modo, si rischia fino a 10 anni di reclusione.

Secondo quanto riportato a BBC Russian da Ksenija Michajlova, avvocato per i diritti delle persone LGBTQ+, i singoli individui non saranno ritenuti legalmente responsabili e accusati di estremismo per il modo in cui conducono la propria vita privata o in quanto parte della comunità, né per il fatto di parlarne apertamente. Tuttavia, non si conoscono le argomentazioni avanzate dal Ministero della Giustizia alla Corte Suprema poiché la sessione si è svolta a porte chiuse.

Nonostante queste rassicurazioni, Mediazzzona riporta le parole dei canali Telegram “Ostorožno, Moskva” e Sota, secondo i quali nella notte del 2 dicembre si sono verificate irruzioni in alcuni locali e saune gay della capitale: gli ufficiali di polizia sono entrati con il pretesto di verificare la presenza di droga, hanno controllato i documenti dei presenti e registrato i dati dei passaporti dei cittadini stranieri. Di conseguenza, altri locali hanno comunicato una riduzione dell’attività o la chiusura a causa della nuova legge.

Sudan: continua la crisi umanitaria

In Sudan torna lo spettro della pulizia etnica, effetto della rivoluzione che ha portato i militari a spodestare il dittatore Omar al-Bashir nell’aprile 2019, che è stata seguita da un colpo di stato che ha rimosso i leader civili e poi, questa primavera, dallo scoppio della guerra tra l’esercito del Sudan e le forze paramilitari. A un ritmo incessante, lo scontro tra l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (RSF) del tenente generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, si è diffuso in tutto il paese. Si stima che finora siano state uccise più di 10.000 persone e 4,8 milioni sfollate all’interno del paese, mentre altri 1,2 milioni sono fuggiti nei paesi vicini. La coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per il paese, Clementine Nkweta-Salami, ha dichiarato che all’inizio di questo mese la violenza contro i civili è “al limite del male puro”. L’avidità di risorse e di potere, le rivalità e gli odi di lunga data, alimentano il fuoco. Si ritiene, infatti, che più di 1.000 membri della comunità Masalit siano stati uccisi ad Ardamta, nel Darfur occidentale, all’inizio di novembre dalle RSF e dalle milizie arabe alleate.

Quello che per alcuni mesi è sembrato uno stallo nella guerra più ampia si è trasformato con drammatici guadagni da parte delle RSF nelle ultime settimane in Darfur e altrove nell’ovest, e avanza nelle ex roccaforti dell’esercito. Funzionari statunitensi, europei e africani ritengono che le spedizioni di armi dagli Emirati Arabi Uniti e attraverso il Gruppo Wagner siano state fondamentali, anche se gli Emirati Arabi Uniti affermano di non equipaggiare nessuna delle due parti. Anche il sostegno dell’Egitto all’esercito sudanese, sebbene meno sostenuto, ha aggravato il conflitto. Come affermato dal Guardian, i governi occidentali dovrebbero fare pressione su Abu Dhabi e Il Cairo affinché si ritirino. Una prospettiva è che il Sudan possa effettivamente essere diviso in due zone, come è successo in Libia.

Anche il compito fondamentale di nutrire i rifugiati non è adeguatamente affrontato: l’ONU ha avvertito che il cibo, per il mezzo milione di persone che sono fuggite in Ciad, finirà il mese prossimo senza ulteriori finanziamenti. Funzionari e analisti avvertono della mancanza di impegno internazionale e dell’urgenza quando si tratta di trovare una via d’uscita da questo conflitto. Anche se entrambe le parti apparentemente volevano riprendere i colloqui a Jeddah, le speranze di una svolta sono basse. In mezzo a tutto questo, gli innocenti sono terrorizzati, e l’aspirazione a un governo civile sembra un sogno che si allontana. I generali, però, hanno dimostrato di non essere né adatti a governare il Sudan, né in grado di farlo.

Accordo tra Israele e Hamas: temporaneo cessate il fuoco a Gaza

Dopo settimane di negoziati segreti tra i rappresentanti di Hamas e Netanyahu, mediati da ufficiali di Washington e Doha, le parti sembrano giunte ad un accordo che dovrebbe entrare in vigore nella mattinata del 23 novembre, ha riportato il The Watcher Post. L’accordo, autorizzato dal Gabinetto israeliano, prevede un cessate il fuoco di quattro giorni, estendibile a cinque, e il rilascio di 150 ostaggi palestinesi, tra cui donne e bambini, detenuti nelle prigioni israeliane e 50 ostaggi israeliani catturati da Hamas il 7 ottobre scorso, sempre donne e bambini, riporta l’ISPI in un articolo del 22 novembre. Israele ha anche accettato di consentire l’ingresso di ulteriore carburante a Gaza e di significative quantità di aiuti umanitari, che sono stati limitati a causa della guerra in corso. Hamas ha dichiarato che, come parte del cessate il fuoco, Israele interromperà i voli dei droni sul sud di Gaza e li effettuerà solo nel nord dell’enclave, lo riporta il The Times of Israel il 22 novembre.

La decisione per una tregua approvata da una maggioranza nel Gabinetto israeliano ha però diviso la forza politica di Tel Aviv trovando le critiche delle fazioni di ultradestra che hanno definito l’accordo con Hamas un disastro, riporta l’ISPI. Netanyahu però ha dichiarato più volte e molto fermamente che la tregua non rappresenta la fine della guerra e che Israele continuerà a combattere finché i suoi obbiettivi di eliminare Hamas, riportare a casa gli ostaggi e garantire che Gaza non sia più una minaccia alla sicurezza dello Stato di Israele non saranno raggiunti, riporta sempre il The Times of Israel.

Nell’accordo non si discute del possibile cessate il fuoco anche sul fronte libanese, ma Hezbollah ha dichiarato che fintanto che Israele rispetterà di sospendere i bombardamenti e gli attacchi militari, il gruppo libanese non attaccherà al confine con Israele, riferisce i24news in un articolo del 22 novembre.

Nonostante questa sia solo una momentanea sospensione del sanguinoso conflitto che vede, ad oggi, più di 14 mila vittime palestinesi, la premier Meloni si dichiara sollevata dall’accordo sugli ostaggi e dal cessate il fuoco, rimarcando la necessità di una pausa umanitaria per consentire l’accesso di aiuti a Gaza, come riporta Euronews.

Il sollievo del mondo e la stessa tregua siglata il 22 novembre sembrano però già vacillare. Riportano varie fonti italiane e internazionali, tra cui Sky Tg24 e il Reuters, nelle prime ore del 23 Novembre, che l’attuazione della tregua molto probabilmente slitterà a venerdì 24 novembre per la mancata ratifica dell’accordo da parte di Hamas e la mancata pubblicazione della lista degli ostaggi palestinesi che dovrebbero essere liberati. Riporta sempre Sky Tg24 che la Casa Bianca e fonti israeliane sembrano però aver confermato che la tregua avverrà e lo slittamento è dovuto a questioni amministrative in via di risoluzione.

No alla deportazione in Ruanda dei richiedenti asilo del Regno Unito

Mercoledì 15 novembre la Corte suprema britannica ha bocciato all’unanimità il progetto del governo di deportare in Ruanda i richiedenti asilo. Applicando, così, una precedente sentenza della corte d’appello che aveva stabilito che tale politica – che è stata duramente condannata dagli organismi umanitari – non era legale. Il progetto era stato annunciato per la prima volta nell’aprile 2022, ma è stato oggetto di cause e diatribe legali per cui non si è riusciti a espellere una sola persona. Tale piano per il Ruanda è stato svelato in risposta all’aumento del numero di pericolose traversate su piccole imbarcazioni effettuate dai richiedenti asilo attraverso il Canale della Manica. Il tasso di attraversamenti è aumentato rapidamente negli ultimi anni, una tendenza che il premier Sunak si era impegnato a invertire.

Sunak ha, inoltre, dichiarato che avrebbe invece cercato di siglare un trattato formale con il Ruanda – una mossa che sarebbe soggetta a un ulteriore controllo legale – e avrebbe introdotto una “legislazione di emergenza” che consentirebbe al parlamento britannico di dichiarare unilateralmente il Ruanda un paese sicuro. I giudici, invece, hanno stabilito che il Ruanda non poteva essere considerato un paese sicuro in cui inviare i richiedenti asilo, come ha sostenuto il governo, perché c’era il rischio che i veri rifugiati venissero rimpatriati nei paesi da cui erano fuggiti. Inoltre, come ha affermato la CNN, il Ruanda è stato criticato per «esecuzioni extragiudiziali, morti in custodia, sparizioni forzate e torture».

La decisione della corte è stata celebrata da gruppi umanitari che si erano a lungo opposti al piano come Care4Calais, che sostiene i rifugiati nel Regno Unito e in Francia, che ha affermato che la sentenza «dovrebbe porre fine a questo stigma vergognoso nella storia del Regno Unito». Inoltre, Medici Senza Frontiere ha detto che la sentenza è un «risultato incoraggiante», aggiungendo: «Il nuovo ministro dell’Interno ha ora la possibilità di abbandonare questo approccio inutilmente crudele e concentrarsi invece sulla fornitura di percorsi sicuri per coloro che cercano rifugio nel Regno Unito. Questo è l’unico modo realistico e umano per ridurre il numero di persone che rischiano la vita nella Manica».

La Corte d’appello di Palermo ufficializza l’adozione gay: condannati Ministero dell’Interno e Comune

Lo scorso 16 novembre, la Corte d’appello di Palermo ha accolto i ricorsi di due famiglie arcobaleno che avevano adottato quattro bambini in Inghilterra. L’odissea era cominciata oltre 10 anni fa, nel 2012, quando una coppia formata da un cittadino italiano e uno inglese decideva di adottare due bambini britannici. Più tardi, nel 2015 e nel 2017, un’altra coppia, formata da un italiano e un francese seguiva la stessa procedura. Il problema principale era rappresentato dal fatto che l’adozione avvenuta negli stati che la permettono non poteva essere trascritta nei registri italiani a causa della legge vigente.

Tuttavia, il Comune di Palermo ignorava una serie di norme internazionali che riconoscono automaticamente la trascrizione dell’adozione fatta in un altro Paese, adducendo che non erano presenti chiare disposizioni da parte del Ministero dell’Interno. Tenendo presente il quadro normativo italiano, si fa invece riferimento alla legge 40/04, che sancisce la possibilità di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistite (PMA) soltanto per le coppie sterili o infertili con componenti maggiorenni, di sesso diverso e coniugati o conviventi in età potenzialmente fertile.

Le coppie si sono dunque rivolte alla Corte d’Appello di Palermo, che ha accolto i due ricorsi presentati da Rete Lenford, associazione di avvocati che si occupa della tutela dei diritti LGBTQIA+, condannando il Ministero dell’Interno e il Comune a pagare alle due coppie un risarcimento di oltre 5.000 euro. 

Casi simili erano stati resi noti lo scorso marzo, quando il Prefetto di Milano aveva chiesto lo stop delle trascrizioni dei certificati di nascita esteri dei figli nati da coppie omogenitoriali e, successivamente, gli uffici giudiziari di Padova avevano deciso di impugnare gli atti di nascita di 33 bambini figli di coppie di due madri registrati dal 2017 ad oggi, in ottemperanza alla circolare n. 3/23. Lo scopo era quello di cancellare dai certificati di nascita i nomi delle madri non biologiche, così come i cognomi di queste ultime attribuiti ai figli. Il sindaco di Padova Sergio Giordani ha continuato comunque a trascrivere i bambini nati da coppie omogenitoriali e, in una recente intervista per La Repubblica, dichiarava:« L’interesse del minore viene prima di tutto: l’idea che a dei piccoli siano negati diritti fondamentali e che siano esposti a gravi discriminazioni è inaccettabile anche moralmente»

La sentenza rappresenta un importante step verso l’allineamento con gli altri stati dell’UE, dal momento che ad oggi solo Italia, Ungheria e Polonia non riconoscono i figli di coppie omogenitoriali fin dalla nascita. La circolare n. 3/23, inoltre, era stata condannata dall’UE, quando l’Eurocamera aveva approvato l’emendamento al testo della Risoluzione sullo Stato di Diritto, a causa delle istruzioni date dal governo italiano al Comune di Milano di sospendere la registrazione delle adozioni delle coppie omogenitoriali. 

 

Marcia contro l’antisemitismo: Emmanuel Macron denuncia un “inutile dibattito” sulla sua assenza

Mercoledì 15 novembre, Emmanuel Macron ha dichiarato che il “dibattito” sulla sua assenza alla marcia contro l’antisemitismo è “inutile”, poiché il suo “ruolo” è quello di “continuare a preservare l’unità del Paese in questo momento”.

Come si legge su Le Monde, il Presidente della Repubblica francese condivide le aspettative della marcia di domenica seppur riconoscendo che il suo ruolo non consiste nel “guidare una manifestazione.” “Il mio ruolo è lavorare per aiutare a liberare i nostri ostaggi”, ha proseguito il Capo di Stato in una conferenza stampa in Svizzera. “E il mio ruolo è continuare, in questo momento, a preservare l’unità del Paese e non mettere mai una parte contro l’altra”, ha insistito.

Il Presidente francese è stato anche interrogato sulla mancanza di chiarezza riguardo alla guerra tra Israele e Hamas, per la quale è stato criticato da alcuni. Ha affermato di difendere una posizione “equilibrata” che “non è mai cambiata”. “Riconosciamo pienamente il diritto di Israele a difendersi e a combattere il terrorismo, ma poiché Israele è una democrazia (…), questo diritto a difendersi deve rientrare nel quadro del diritto umanitario internazionale e rispettare le regole della guerra (…). Non abbiamo mai vacillato”, ha dichiarato.

Questa posizione ” è di non transigere mai sul diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza nella regione, e la Francia ha anche sempre sostenuto le legittime aspirazioni del popolo palestinese e continuerà a lavorare per una soluzione a due Stati”, ha insistito il Presidente.

Rivendico la responsabilità di tutti i discorsi che ho fatto ai vostri colleghi della stampa anglosassone, perché sono in linea con la nostra condanna dei bombardamenti sulle popolazioni civili e con la nostra analoga condanna dell’uccisione di bambini (…) La Francia non ha due pesi e due misure”, ha detto.

Interrogato sulla situazione dell’ospedale Al-Shifa, il più grande della Striscia di Gaza, Emmanuel Macron ha condannato “con la massima fermezza” i bombardamenti sulle infrastrutture civili a Gaza. Ha insistito sul fatto che questo vale “non solo per gli edifici, ma anche per le persone che se ne prendono cura”, ricordando che decine di operatori umanitari e funzionari internazionali sono morti nei bombardamenti intensivi che Israele ha condotto nell’enclave palestinese dopo l’attacco senza precedenti del movimento islamista Hamas al territorio israeliano il 7 ottobre.

L’operazione dell’esercito israeliano sull’ospedale Al-Shifa, che secondo l’esercito ospita una base strategica di Hamas, ha suscitato mercoledì profonda preoccupazione e condanna da parte dei membri della comunità internazionale.

Il Louvre acquisisce un dipinto di Cimabue destinato alla discarica

Un dipinto del XIII secolo trovato appeso sopra i fornelli della cucina di un’anziana donna francese e successivamente venduto all’asta per 24 milioni di euro è stato acquistato dal Louvre dopo un divieto di esportazione, riporta il Guardian

Il museo parigino ha dichiarato che il dipinto pre-rinascimentale, ora una delle opere più antiche della sua collezione, sarà al centro di una mostra nel 2025 dopo quattro anni di sforzi per mantenerlo in Francia.

Il Cristo deriso è stato dipinto dall’artista fiorentino Cimabue intorno al 1280. Si ritiene che sia uno degli otto pannelli di un grande dittico, cinque dei quali sono ancora mancanti.

Il dipinto era destinato alla discarica durante uno sgombero di casa, quando la famiglia del proprietario ha chiamato un esperto per verificare se ci fosse qualcosa di valore nella proprietà. Pensando che l’opera potesse valere fino a 400.000 euro, l’esperto l’ha inviata a uno specialista d’arte di Parigi che ha dichiarato che si tratta di un Cimabue autentico.

Nel 2019, il Louvre sperava di acquistare il dipinto quando è stato messo all’asta, con un valore stimato tra i 4 e i 6 milioni di euro. Il museo ha rinunciato quando il martello è caduto su un’offerta record di 19,5 milioni di euro, per un prezzo di vendita totale di 24 milioni di euro con le spese.

Il ministero della Cultura francese ha prontamente dichiarato l’opera “tesoro nazionale” e ha posto il dipinto sotto un temporaneo divieto di esportazione, dando al Louvre 30 mesi di tempo per raccogliere i fondi necessari all’acquisto.

Cimabue nacque a Firenze e morì a Pisa. Gli viene spesso attribuito il merito di aver insegnato al più famoso artista fiorentino Giotto, che lo eclissò notevolmente, ma alcuni studiosi d’arte contestano questo legame.

Il Cristo deriso misura poco più di 25 cm per 20 cm e raffigura la derisione di Gesù prima della sua crocifissione. È dipinto su uno sfondo a foglia d’oro su un pannello di legno di pioppo.

Sono stati ritrovati solo altri due pannelli della serie: La Flagellazione di Cristo è conservata dalla Frick Collection di New York e La Vergine e il Bambino con due angeli si trova alla National Gallery di Londra. La National Gallery descrive la serie come rappresentante di “un momento cruciale nella storia dell’arte”, quando i pittori italiani si orientarono verso rappresentazioni più realistiche dei loro soggetti.

Si conoscono solo una dozzina di opere attribuite a Cimabue, che non firmava i suoi dipinti.

Al Louvre è già esposto un dipinto di Cimabue molto più grande, la Maestà. Completata anch’essa intorno al 1280, l’opera misura quasi 4,3 metri di altezza per oltre 2,7 metri di larghezza ed è in fase di restauro. Il museo afferma che entrambi i Cimabue saranno esposti nella prima metà del 2025.

Né il Ministero della Cultura né il Louvre hanno fornito dettagli sull’importo pagato per il Cristo deriso o su come è stato raccolto il denaro per acquistarlo, tranne che si è trattato di una “mobilitazione eccezionale” per incoraggiare le donazioni da parte di mecenati a cui sono state offerte esenzioni fiscali.

La proprietaria originaria, novantenne e trasferitasi in una casa di cura, non ha potuto godere dell’improvviso guadagno, essendo morta due giorni dopo l’asta.

Ucraina sempre più vicina all’ingresso nell’Unione Europea

Mercoledì 8 novembre l’Ucraina ha ottenuto il sostegno della Commissione europea per i colloqui sull’adesione dell’Ucraina. Ciò permetterebbe all’Ucraina di avvicinarsi all’adesione all’Unione europea, cinque mesi dopo che i 27 Stati membri le hanno conferito lo status di candidato. Inoltre, come affermato dalla BBC, il capo della Commissione Ursula von der Leyen ha elogiato i suoi «eccellenti progressi, anche se sta combattendo una guerra esistenziale», aggiungendo anche che i colloqui dovrebbero iniziare con la Moldavia e che la Georgia, nel caso approvi le riforme, dovrebbe diventare candidata. La Moldavia e l’Ucraina hanno presentato domanda di adesione nelle settimane successive all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed entrambe sono diventate candidate a giugno. All’epoca la Georgia era stata scartata per lo status di candidato.

Il presidente Volodymyr Zelensky ha descritto il rapporto della Commissione europea come “storico” e ha affermato che è stato un giorno importante per la nazione. Von der Leyen ha affermato che l’Ucraina ha completato «ben oltre il 90% delle riforme necessarie» che l’UE ha stabilito l’anno scorso, aggiungendo che «l’obiettivo è davvero a portata di mano». È stato anche un giorno da festeggiare in Georgia, ha detto. Si ritiene che il governo di Tbilisi abbia compiuto progressi sufficienti in materia di parità di genere, lotta alla violenza contro le donne e alla criminalità organizzata. Una decisione finale sulle raccomandazioni sarà presa dagli Stati membri dell’Unione europea al vertice di dicembre. I negoziati di adesione all’UE, infatti, sono uno slalom di tecnicismi e avvertimenti e tendono ad essere faticosamente lenti. Per aderire, i paesi candidati devono soddisfare criteri giuridici ed economici rigorosi. Ogni decisione di allargamento richiede il sostegno di tutti i 27 membri dell’UE e qualsiasi paese può bloccare i negoziati in qualsiasi fase, spesso a causa di controversie bilaterali. Il rapporto della Commissione europea, pubblicato mercoledì, raccomanda tuttavia che l’Ucraina debba riformare ulteriormente il modo in cui vengono selezionati i giudici costituzionali, introdurre un’azione più severa contro la corruzione e il riciclaggio di denaro e adottare nuove leggi per frenare l’influenza dei potenti uomini d’affari del Paese, noti come oligarchi.

G7: Il sostegno all’Ucraina non verrà meno

Secondo quanto riportato dalla BBC,I leader dei Paesi del G7 hanno ribadito che il loro sostegno all’Ucraina “non vacillerà mai”, anche in presenza di crescenti tensioni in Medio Oriente.

In occasione di una riunione del G7 in Giappone, i ministri degli Esteri del blocco hanno dichiarato di riconoscere che la Russia è pronta a una lunga guerra, e hanno ribadito che continueranno a sostenere Kiev economicamente e militarmente.

Il gruppo dei Paesi ricchi è stato in prima linea nelle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dello scorso anno. A Tokyo, i governi dei Paesi del G7 – Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Giappone, Canada e Stati Uniti – e i rappresentanti dell’Unione Europea hanno affermato che la guerra tra Israele e Gaza non dovrebbe distrarre dal sostegno all’Ucraina.

Secondo un comunicato del ministero degli Esteri giapponese, i leader hanno concordato sulla necessità di imporre severe sanzioni alla Russia e di continuare a sostenere l’Ucraina, “anche nell’attuale situazione internazionale” – un riferimento alla situazione in Medio Oriente.

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato che il blocco è “unito nella [sua] condanna della guerra della Russia”. Ma la forte retorica nasconde tensioni crescenti mentre la guerra si trascina.

Kiev è sempre più preoccupata che la “stanchezza da Ucraina” dei Paesi occidentali stia erodendo la sua capacità di tenere a bada le forze russe.

Ulteriori finanziamenti statunitensi per l’Ucraina, pari a circa 60 miliardi di dollari (49 miliardi di sterline), richiesti dal presidente Joe Biden, sono stati bloccati dall’opposizione dei membri repubblicani del Congresso. I funzionari americani affermano che gli aiuti attuali si esauriranno entro poche settimane, con conseguenze potenzialmente disastrose per l’Ucraina.

La premier Georgia Meloni ha fatto notizia la scorsa settimana quando ha detto a dei comici russi che fingevano di essere funzionari dell’Unione Africana che la “stanchezza” per la guerra in Ucraina stava aumentando. “Siamo vicini a quel momento in cui tutti capiscono che abbiamo bisogno di una via d’uscita”, ha detto.

Il primo ministro slovacco Robert Fico, insediatosi il mese scorso, ha interrotto le forniture di armi all’Ucraina da parte del suo Paese.

Anche l’unità interna ucraina mostra segni di tensione. Questo mese, i disaccordi tra il presidente Volodymyr Zelensky e il comandante delle forze armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny, sono usciti allo scoperto dopo che Zaluzhny ha dichiarato in un’intervista che la guerra ha raggiunto uno “stallo”.

In risposta, Zelensky ha lanciato un appello agli ucraini “a non annegare nelle lotte intestine”. Nel frattempo, mercoledì un collaboratore russo è stato ucciso da un apparente attacco con autobomba nell’Ucraina occupata.

Mikhail Filiponenko, ex capo di una milizia separatista, è morto in un’esplosione nella città di Luhansk. L’intelligence militare ucraina ha affermato di essere coinvolta nell’attacco insieme ai combattenti della resistenza locale. Filiponenko’ era già stato oggetto di un attentato nel febbraio dello scorso anno, secondo quanto riportato dai media russi.

L’Italia invia navi militari nel Mediterraneo orientale

In un comunicato stampa del 30 ottobre 2023, riportato dal sito del Governo, il ministro della Difesa Crosetto ha comunicato la partenza di un volo C130, un aereo da trasporto tattico militare, per portare i primi aiuti umanitari alla popolazione palestinese. L’aereo è atterrato in Egitto da dove poi si trasporteranno gli aiuti a Gaza tramite il valico di Rafah, aperto solo il 21 ottobre dopo numerose trattative con Israele. Inoltre, due fregate multi-missione, navi da guerra destinate a proteggere altre navi da guerra o navi mercantili, parte delle Fregate europee multi-missione frutto di un progetto congiunto tra Italia e Francia, la  Virginio Fasan e la Carlo Margottini, sono arrivate il 5 Novembre nel Mediterraneo orientale di fronte a Israele, Gaza e Libano, riporta Il Foglio in un articolo del 5 novembre. Le due Fregate missilistiche italiane si uniscono al pattugliatore Polivalente d’Altura, Thaon di Revel, già dispiegato verso la fine di ottobre in via precauzionale nelle vicinanze di Cipro, riporta un articolo di Il Messaggero. In ultimo, l’Italia invierà in supporto anche un’unità anfibia nell’eventualità di dover raggiungere le coste palestinesi e israeliane per vie subacquee, ha riportato sempre Il Foglio.

Le forze militari italiane si uniscono ad altre forze navali occidentali dispiegati in via precauzionale nelle acque internazionali davanti alla Striscia, tra cui i portaerei americani Gerald R. Ford e Dwight D. Eisenhower, diretta nel Golfo Persico, le forze francesi con un porta elicotteri in supporto ad altre due fregate francesi, e una nave inglese. Le forze navali italiane, spiega Il Foglio, non hanno solo una funzione deterrente per intimare una de-escalation del conflitto, ma sono in primo luogo pensate per evacuazioni di connazionali o altro personale e per portare aiuti umanitari. In quest’ottica l’Italia ha inviato la nave-ospedale Vulcano, destinata ad attraccare appena fuori dalle coste di Gaza e aiutare la popolazione palestinese. La nave, partita dal Porto di Civitavecchia nella sera dell’8 novembre scorso, trasporta 170 passeggeri tra marinai e impiegati nella struttura sanitaria, dotata di sale operatorie e strumenti diagnostici salvavita, riporta The Times of Israel in un articolo dell’8 novembre.

Gli aiuti mobilitati nelle acque limitrofe a Israele e Libano dimostrano la crescente preoccupazione per un allargamento del conflitto, specialmente sul fronte libanese dove gli scontri tra Israele e Hezbollah si sono intensificati negli ultimi giorni. Il Primo Ministro Giorgia Meloni ha avvertito in un’intervista che uno spillover del conflitto porterebbe delle “incalcolabili conseguenze”, commento ripetuto anche nella telefonata con la controparte libanese Najīb Mīqātī, scrive Reuters il 9 ottobre. L’interesse italiano a evitare un coinvolgimento nella guerra del Libano è legato anche alla presenza di circa dieci mila militari italiani, impegnati nella missione di peacekeeping delle Nazione Unite, UNIFIL, una missione nata con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 1978 in seguito all’invasione del Libano da parte di Israele nel marzo 1978, di cui l’Italia è il secondo maggior contributore riporta Reuters.

Accordo migranti Italia-Albania

Lo scorso 6 Novembre la presidente Meloni ha incontrato il Primo ministro dell’Albania Edi Rama per firmare un accordo sulla costruzione di due centri in Albania per ospitare i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane. Meloni, come affermato dalla CNN, ha detto che le strutture dovrebbero aprire la prossima primavera e inizialmente accoglieranno 3.000 persone. Una volta che i centri saranno “pienamente operativi e funzionanti”, Meloni ha detto che il suo governo spera di poter gestire fino a 36.000 persone all’anno. I centri saranno costruiti nei porti albanesi di Shengjin e Gjader e sono pensati «nel pieno rispetto dell’Unione Europea e del diritto internazionale», ha affermato la Presidente del Consiglio

L’Albania, però, non fa ancora parte dell’Unione Europea, nonostante abbia ottenuto lo status di candidato quasi un decennio fa. L’accordo ha segnato la prima volta che un paese dell’Unione Europea ha chiesto aiuto per esternalizzare i richiedenti asilo a un paese non facente membro dell’Unione. Ciò potrebbe ammettere l’espulsione immediata dei richiedenti asilo, poiché essa non è consentita all’interno dell’Unione Europea a causa degli statuti sui diritti umani che consentono a tutti gli arrivi di presentare domanda di asilo. Poiché l’Albania non è un membro dell’UE, tali norme non si applicheranno. Il piano consentirebbe, così, all’Italia di aggirare l’accordo di Dublino, che stabilisce che il primo paese in cui arrivano i migranti deve prendersi cura di loro e trattare i loro casi.

Secondo le affermazioni, un centro sarà utilizzato per trattare i migranti soccorsi dalle imbarcazioni in mare; il secondo sarà utilizzato per ospitare i migranti che hanno i requisiti per presentare domanda di asilo nell’UE. Non è chiaro cosa accadrà a coloro che non ne hanno i requisiti, ma il governo Meloni si è concentrato sull’uso della minaccia di espulsione immediata come mezzo per dissuadere i migranti dall’arrivare sulle coste italiane.

Nuovi atti di antisemitismo: Stelle di David nelle mura parigine

Nella notte di Lunedì 30 Ottobre sono comparse circa 60 Stelle di David nel XIV arrondisement di Parigi. Più di 425 arresti e 850 atti di antisemitismo sono stati segnalati in Francia dopo gli attacchi di Hamas in Israele il 7 Ottobre, afferma alla BBC il ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Secondo quanto riferisce il Guardian, Israele ha iniziato a bombardare Gaza dal 7 Ottobre, a seguito degli attacchi di Hamas che hanno ucciso circa 1400 persone secondo le notizie ufficiali di Israele. Più di 8500 persone, principalmente civili, sono state uccise a Gaza, secondo i dati del Ministero della Salute nel territorio controllato da Hamas.

Le autorità parigine hanno annunciato che sarà avviata un’indagine per degrado di proprietà aggravato da intenti razzisti. Inoltre, Emmanuel Grégoire, vicesindaco di Parigi, ha aggiunto che oltre ad avviare un’indagine, le Stelle di David saranno rimosse. In aggiunta, il vicesindaco ha affermato: «L’antisemitismo continua a uccidere. Non smetteremo mai di lottare». Graffiti simili sono stati trovati anche nelle periferie parigine tra cui Vanves, Fontenay-aux-Roses, Aubervilliers e Saint-Ouen. Secondo i rapporti, le stelle erano a volte accompagnate da iscrizioni come “dal fiume al mare, la Palestina vincerà”.

Olivier Klein, delegato del governo per l’antisemitismo e il razzismo, ha dichiarato mercoledì alla radio France Inter: «Gli attacchi antisemiti e razzisti hanno un legame con le notizie attuali, ma se c’è una recrudescenza è perché questo era presente, c’era un terreno fertile… Purtroppo il nostro Paese, come altri, ha questa capacità di risvegliare vecchi demoni». Il sindacato degli studenti ebrei di Francia ha detto, infatti, che i recenti graffiti sono stati progettati per rispecchiare il modo in cui gli ebrei sono stati costretti a indossare le stelle dal regime nazista. Ciononostante il sindaco di Aubervilliers, Karine Franclet, ha condannato i graffiti come «in totale contraddizione con i valori fondamentali che sosteniamo, tra cui la tolleranza, l’uguaglianza e il rispetto reciproco, in particolare nel contesto attuale».

TV: perché i critici di The Crown si sentiranno “stupidi” dopo aver guardato la serie

I critici di The Crown, tra cui Dame Judi Dench e Sir John Major, si saranno sentiti “piuttosto stupidi” dopo aver visto la serie, ha dichiarato il creatore nonché sceneggiatore e drammaturgo britannico Peter Morgan.

Come riportato dal Guardian, prima del lancio della sesta stagione della serie di successo di Netflix sulla famiglia reale britannica, lo sceneggiatore e drammaturgo Peter Morgan ha dichiarato di non aver mai lavorato a nulla che avesse causato un tale clamore pubblico.

“Tutte le critiche sull’atteggiamento di The Crown nei confronti dei reali arrivano in vista dell’uscita della serie”, ha dichiarato Morgan a Variety. “Nel momento in cui esce e la gente lo guarda – che si tratti di Judi Dench o di John Major – si ammutoliscono all’istante. E credo che probabilmente si sentano piuttosto stupidi”.

Dench ha accusato lo show di “rozzo sensazionalismo” prima dell’uscita della penultima stagione l’anno scorso, mentre Major ha descritto alcune scene come “assurdità maligne”. In risposta, Netflix ha inserito una clausola di esclusione di responsabilità per “drammatizzazione fittizia” nel trailer dello show.

Morgan ha esposto le difficoltà che si riscontrano quando si avvia una conversazione sensata su The Crown nel Regno Unito. “Tutti in Gran Bretagna, che lo riconoscano o meno, hanno un livello di sensibilità e di attaccamento a questa famiglia, ed è per questo che per i drammaturghi è un campo assolutamente minato da esplorare. Eppure i drammaturghi sono nati per scrivere di re e regine. È quello che facciamo”, ha dichiarato Peter nel corso della sua intervista.

La sesta e ultima tranche della serie sarà pubblicata in due parti, la prima il 16 novembre e la seconda il 14 dicembre. La serie tratterà della morte di Diana, Principessa del Galles, e di Dodi Fayed in un incidente d’auto a Parigi nel 1997, del giubileo d’oro del 2002 e del matrimonio del 2005 tra l’allora Principe Carlo e Camilla Parker Bowles.

Morgan, che è stato nominato due volte all’Oscar per la sceneggiatura (per The Queen e Frost/Nixon) e ha vinto numerosi Emmy, Golden Globe e Bafta, ha dichiarato di essere sicuro che interrompere lo show quasi due decenni prima del periodo attuale sarebbe stato più “dignitoso”. Ha detto di avere un’idea su un prequel che potrebbe essere precedente a Elisabetta II, ma che “avrebbe bisogno di una serie di circostanze particolari per essere realizzato”.

Lo sceneggiatore ha detto che aveva quasi finito di scrivere l’ultima stagione quando Elisabetta II è morta lo scorso settembre, e ha cambiato il finale per tener conto della sua morte.

“Avevamo tutti vissuto l’esperienza del funerale. Quindi, dato che tutti l’avranno sentita profondamente, ho dovuto cercare di trovare un modo in cui l’episodio finale affrontasse la morte del personaggio, anche se lei non era ancora morta”.

Morgan ha detto di aver evitato di leggere il libro di memorie del principe Harry, Spare, perché non voleva che la voce del principe “abitasse troppo i suoi pensieri”, aggiungendo, “Ho molta simpatia per lui, molta simpatia. Ma non volevo leggere il suo libro”.


Il grave problema demografico dell’Italia

Secondo il Guardian, la popolazione italiana sta calando da anni, come dimostrato dai dati Istat pubblicati ad aprile del 2023, che rivelan che nel 2022 la popolazione residente si è ridotta di 179mila persone, ovvero dello 0,3 per cento. Le morti superano le nascite che l’anno scorso sono scese per la prima volta sotto le 400mila. Anche le scuole hanno visto una diminuzione delle richieste, infatti secondo il sito d’informazione Tuttoscuola, dall’anno scolastico 2014-2015 in Italia sono state chiuse 2600 scuole dell’infanzia e primarie. Il numero degli studenti è in continuo calo, tant’è che le previsioni dicono che quest’anno gli alunni saranno 127mila in meno rispetto all’anno precedente.

L’”indice di sostituzione”, ossia il tasso di fecondità che permette alla popolazione di rimanere stabile, dovrebbe essere di 2,1 ma in Italia è di 1,24 e in regioni come Basilicata e Sardegna scende, rispettivamente, all’1,09 e allo 0,95. Inoltre, le stime dicono che la popolazione italiana passerà dagli odierni 59 milioni di persone a poco meno di 48 milioni entro il 2070. Dato che il sistema pensionistico ha bisogno di nuovi contribuenti per finanziarsi, questo squilibrio demografico produrrà un grave problema economico e le uniche soluzioni sembrano essere un aumento delle tasse o il taglio delle pensioni.

Secondo i demografi, però, ci potrebbero essere altre soluzioni, infatti secondo Francesco Billari, rettore e professore di demografia dell’università Bocconi di Milano, esiste una correlazione positiva tra la partecipazione al mercato del lavoro femminile e la natalità; difatti egli afferma: «nei paesi e nelle regioni con un mercato del lavoro più attento alla parità di genere, la natalità è più alta». Invece secondo la sociologa Chiara Saraceno, uno dei grandi paradossi della situazione italiana è dato dal fatto che il tasso di natalità sia basso proprio perché la famiglia è predominante e ci si aspetta da essa solidarietà dal punto di vista economico e dell’assistenza, ma è un meccanismo che sovraccarica le famiglie e riduce l’autonomia delle giovani generazioni. È importante, dunque, convincere gli italiani che il problema del crollo delle nascite non è né di destra né di sinistra e riguarda tutto il Paese. Forse solo a quel punto l’inverno demografico dell’Italia lascerà il posto a una primavera.

Attentato a Bruxelles: quale nesso tra fondamentalismo islamico e il calcio?

L’attentato terroristico ha nuovamente sconvolto il mondo del calcio, riporta la BBC. La notte del 13 novembre 2015, a Parigi, prima degli spari sui tavolini dei ristoranti e dell’attacco al Bataclan, si è verificato l’attacco allo Stade de France durante l’amichevole Francia-Germania. Rimarranno per sempre impresse nella mente le immagini che ritraggono la sorpresa dei giocatori e degli spettatori al boato del primo kamikaze che si è fatto esplodere all’esterno dello stadio di Saint Denis, causando la morte dell’autista Manuel Dias, mentre il presidente François Hollande veniva scortato fuori dallo stadio mentre la partita continuava per ragioni di ordine pubblico.

L’attacco di lunedì sera a Bruxelles ha preso di mira ancora una volta uno stadio, il Roi Baudouin, un tempo Heysel, già tristemente noto per la tragedia del 1985 (i 39 morti di Juventus-Liverpool). In questa occasione, i giocatori svedesi e belgi hanno rifiutato di continuare la partita dopo l’intervallo, quando hanno appreso dell’uccisione di due tifosi svedesi di 60 e 70 anni da parte del terrorista tunisino Abdesalem Lassoued. La partita è stata interrotta e gli spettatori sono rimasti confinati nelle tribune fino alle prime ore del mattino, quando la polizia belga li ha poi accompagnati negli alberghi.

La relazione tra il fondamentalismo islamico e il calcio è complessa e contraddittoria. Il sito salafita Dammaj, con sede nello Yemen, sostiene che il calcio è accettabile solo se mira ad allenare il fisico per la jihad, ma lo considera invece una detestabile opera del demonio” quando crea divisioni tra squadre e assimila i musulmani ai non credenti.

Abdesalem Lassoued, il terrorista di Bruxelles, sfugge all’ammonimento, nonostante indossasse una kefiah mediorientale bianca e rossa, e una maglietta dell’Ajax, squadra di calcio di Amsterdam nel primo dei due video in cui rivendica l’attentato, riporta il Corriere della Sera. Secondo il noto giornalista britannico Simon Kuper, i terroristi sono da lungo tempo affascinati dal calcio, poiché per loro rappresenta più di un semplice passatempo. Nel saggio Football Against the Eenemy, Kuper osserva che per gli estremisti islamici, partecipare a una squadra di calcio creerebbe un legame maschile simile a quello che si forma facendo parte di una cellula del terrorismo islamico. In entrambi i casi, i giovani uomini sviluppano un atteggiamento di ostilità condivisa verso il mondo.

Il contrasto irrisolto tra il calcio come simbolo della dannazione occidentale e allo stesso tempo fonte di un fascino irresistibile è evidenziato dalla figura di Osama Bin Laden, il quale, secondo la leggenda, era un appassionato tifoso dell’Arsenal. Durante il suo soggiorno londinese nel 1994, si dice che Bin Laden abbia frequentato lo stadio per ben quattro volte, tanto che dopo gli attacchi dell’11 settembre, uno dei cori più goliardici e di pessimo gusto degli ultras era “Osama Osama, si nasconde a Kabul, ama l’Arsenal”. Tralasciando il contesto del terrorismo, l’investimento di miliardi di dollari nel calcio da parte dei Paesi del Golfo, come Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita, sembra aver messo da parte la concenzione di impurità del calcio. Su TikTok, tuttavia, alcuni giovani musulmani francesi diffondono foto del loro idolo Karim Benzema, ormai stella nel campionato saudita, con le ginocchia coperte in segno di rispetto per le restrizioni religiose. Le gambe nude sono pixelate, nascoste tra gli short e i calzettoni.

https://www.corriere.it/esteri/23_ottobre_17/attentato-bruxelles-islam-radicale-calcio-che-cosa-c-entrano-f811ccec-6cfd-11ee-8916-b147ab1385f6.shtml

La posizione italiana nel conflitto Israele-Palestina

All’alba del 7 Ottobre 2023 Israele è stata svegliata da una pioggia di 5 mila razzi lanciati da Hamas, un’organizzazione politica e paramilitare palestinese islamista, sunnita e fondamentalista. Le maggiori testate mondiali, tra cui la Stampa, nelle prime ore dell’8 ottobre scorso, hanno riportato la notizia dell’inizio dell’operazione “Tempesta-al-Aqsa” da parte di Hamas e della risposta di Israele con un attacco aereo che provoca circa 237 vittime e oltre 1700 feriti: Netanyahu dichiara subito cominciata una guerra.

Sono cominciati così violenti combattimenti che vedono lanci di razzi e missili da parte di Hamas e una risposta massiccia delle forze di difesa israeliana che serrano la popolazione palestinese all’interno della Striscia di Gaza. Non si fanno attendere le prese di posizione dei leader mondiali a fronte del conflitto scoppiato partendo dal discorso della presidente von der Leyen alla plenaria del Renaissance European Campus del 7 ottobre, in cui condanna con la massima fermezza l’attacco insensato di Hamas contro Israele, definisce l’attacco stesso puro terrorismo e sostiene il diritto israeliano a difendersi, come riportato dal sito della Commission Europea. Simile posizione viene richiamata da tutti i paesi europei e Nato, come si può notare dalla mappa dati riportata da Le Grand Continent. L’Ansa, in un articolo del 7 ottobre, ha riportato il messaggio del presidente Mattarella al presidente israeliano Herzog in cui condanna il “proditorio attacco”, e, in un comunicato pubblicato nel sito del Governo italiano, il ministro degli Esteri Tajani ha chiarito che «l’Italia è contro Hamas non contro la Palestina», ma ha ribadito ancora il diritto di difesa di Israele.

Nella riunione parlamentare del 10 ottobre, le forze politiche italiane si sono divise. La maggioranza ha votato una risoluzione impegnandosi ad impedire che nuovi fondi raggiungano Hamas, mentre l’opposizione ha dibattuto parecchio e non è riuscita a trovare un fronte unico. Nelle risoluzioni portare dall’ultima, il punto di scontro con la maggioranza si è rivelato sui fondi da inviare in Palestina e il supporto alla risposta di Israele. La coalizione PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, avevano previsto anche una sezione che dichiarava la politica di espansione del governo israeliano un fattore chiave della mancanza di una pace in Palestina tanto quanto lo è stato l’attacco unilaterale di Hamas. La sezione non è però stata approvata dal Parlamento come ha riportato in un articolo il Decode39.

Mentre la situazione in Palestina e a Gaza è sempre più tesa e si rischia un allargamento del conflitto, sabato 21 ottobre la premier Meloni ha tenuto un incontro bilaterale con Netanyahu a Tel Aviv in cui ha rinnovato il supporto italiano nella lotta contro gli atti antisemiti di Hamas. L’incontro bilaterale è avvenuto al termine del summit per la pace tenutosi sabato 21 ottobre al Cairo, organizzato dal presidente egiziano al-Sisi.

L’esplosione all’ospedale di Gaza, la questione degli ostaggi israeliani e gli ostacoli nell’invio di aiuti umanitari, hanno infatti evidenziato, l’urgente necessità di trovare una soluzione al conflitto. Tuttavia, il quotidiano panarabo Asharq al-Awsat ha riportato che le divergenze tra l’agenda araba, concentrata sullo sfollamento dei palestinesi, e quella europea, focalizzata sull’importanza dell’apertura di corridoi umanitari, insieme all’assenza dei rappresentanti di Israele e degli alti rappresentanti americani al vertice egiziano, hanno complicato ulteriormente i negoziati per un accordo che infatti non si è concluso. La mancanza di rappresentanti americani e israeliani ha portato i leader presenti a dubitare della possibilità di raggiungere una soluzione effettiva, rendendo il processo negoziale ancor più complesso, come riportato in un articolo del 21 ottobre da Reuters. Questa situazione mette in evidenza le sfide e le complessità del processo diplomatico in corso.

Un anno di Giorgia Meloni

Poco più di un anno fa, il 25 settembre 2022, il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, ha vinto le elezioni ed i toni della leader sono cambiati, ma il significato è rimasto lo stesso. Sembrerebbe esserci stato un cambiamento ideologico riguardo a temi come Unione Europea, Ucraina e migranti che hanno portato il partito fondato da Meloni a un atteggiamento più mite; forse si è arrivati alla conclusione, con l’esempio dell’Ungheria, che l’estremismo non è la via giusta.

Giorgia Meloni nata a Roma nel 1977, come ricorda il Guardian, si è fatta strada sin dai quindici anni attraverso l’entrata in campo nell’ala giovanile del Movimento Sociale Italiano (MSI), un partito formato nel 1946 da sostenitori di Benito Mussolini. Alcune tracce di quel passato si possono ricordare in alcune sue testimonianze del 1996 quando dichiarò, secondo Der Spiegel, che Mussolini era stato un “buon politico”. Successivamente, ha contribuito a fondare Fratelli d’Italia nel 2012 e in dieci anni è stata capace di far crescere dall’1,96 al 26 per cento l’adesione al partito allontanandolo dall’estremismo, per guidarlo verso il conservatorismo di centrodestra.

I parlamentari di Fratelli d’Italia hanno già cominciato a discutere di una “terza repubblica”. La prima era cominciata con la fine della monarchia nel 1946 e la seconda con l’elezione di Berlusconi nel 1994. Adesso, dicono, sta nascendo una nuova era: quella di Giorgia Meloni. Per soddisfare le sue ambizioni, dopo aver preso il potere a Roma, ora il suo obiettivo è Bruxelles, facendo un passo indietro rispetto alla sua campagna contro l’Unione Europea. Inoltre, con il suo atteggiamento filoccidentale sull’Ucraina si è guadagnata il rispetto anche degli alleati della Nato. Meloni, però, sta cercando di evitare la rabbia di coloro che l’hanno votata cercando di mettere al centro la “patria”. Ciononostante, tra gennaio e settembre 2023 il numero di migranti arrivati in Italia via mare è più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2022, quando era in carica Draghi. Eleonora Camilli, giornalista ed esperta di immigrazione ha dichiarato: «Siamo a più di 127.000 arrivi, non succedeva da anni. Eppure non la sentiamo più tuonare sull’”invasione”. Se i politici non ne parlano, la gente non se ne accorge». Inaspettati sono stati anche alcuni elogi da parte di Enrico Letta, ex presidente del consiglio ed ex leader del Partito Democratico (PD), che ha definito Meloni “migliore del previsto” e di Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia-Romagna, dopo la devastante alluvione avvenuta a maggio nella regione, ha dichiarato di aver costruito un rapporto molto franco, cordiale e rispettoso con la Presidente del Consiglio.

Gaza: missili sull’ospedale, si temono centinaia di morti

Lo scorso 17 ottobre l’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza è stato colpito da un missile che ha causato danni ingenti e la morte di numerosi pazienti. Non è ancora possibile confermare la responsabilità dell’attacco, poiché Israele ha fornito video che attribuiscono l’attacco alla Jihad islamica palestinese, accusa smentita dai diretti interessati, mentre i palestinesi affermano che il bombardamento sia dovuto da un attacco israeliano.

Come riportato dalla BBC, Israele ha incominciato a bombardare Gaza, uccidendo più di 3000 persone, dopo l’attacco di Hamas, maggior gruppo armato palestinese, avvenuto il 7 ottobre in Israele e che ha causato la morte di 1300 persone, la maggior parte delle quali uccise a sangue freddo in casa nei villaggi israeliani vicini alla frontiera di Gaza o mentre si trovavano a un rave party presso un kibbutz. Il bombardamento avvenuto all’ospedale di Gaza ha ferito e ucciso non solo chi risiedeva all’interno ma anche coloro che erano all’esterno, a causa degli incendi provocati dall’esplosione. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha dichiarato: «Gli ospedali dovrebbero essere santuari in cui preservare le vite umane, non scene di morte e distruzione. Nessun paziente dovrebbe morire in un letto d’ospedale. Nessun dottore dovrebbe perdere la vita mentre sta cercando di salvarne altre». E aggiunge: «L’ordine di evacuazione è stato impossibile da eseguire data l’attuale insicurezza, le condizioni critiche di molti pazienti e la mancanza di ambulanze, personale, capacità di posti letto del sistema sanitario e alloggi alternativi per gli sfollati».

Gli Stati Uniti hanno dichiarato, secondo quanto riferisce la CNN, che l’attacco non è riconducibile a Israele. Inoltre sembrerebbe essere stato un missile lanciato via terra e non via aerea ad aver colpito l’ospedale, poiché non vi erano crateri a terra che potessero dimostrare un attacco aereo, piuttosto sono stati notati gravi danni da fuoco e detriti sparsi ovunque. I leader politici di tutto il mondo hanno espresso sgomento e preoccupazione per l’accaduto, esortando però alla cautela nell’attribuire la colpa del bombardamento, tanto che le Nazioni Unite hanno aperto un’indagine sull’accaduto. Fino a quando gli investigatori non sapranno valutare l’incidente in dettaglio, non è ancora possibile sapere con certezza cosa abbia portato all’esplosione. Intanto, però, vari paesi arabi come Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Iraq hanno accusato Israele e il suo esercito di aver colpito l’ospedale.

Terzo terremoto in Afghanistan in una settimana

Lo scorso 15 ottobre nella parte occidentale dell’Afghanistan, precisamente a Herat, è avvenuto il terzo terremoto in una settimana, causato dalle placche tettoniche dell’Eurasia e dell’India; ciò ha portato i volontari a dover scavare a mani nude per trovare i superstiti.

Come affermato dalla BBC, la scorsa settimana ci sono state altre due scosse che hanno ucciso più di 1000 persone. L’Istituto Geologico degli Stati Uniti (USGS, dall’inglese United States Geological Survey) ha fornito maggiori dettagli sul recente terremoto che ha colpito il territorio di Herat, la terza città più grande del Paese vicino al confine iraniano, con una magnitudo di 6.3 e una profondità di 6.3 chilometri. Come riportato da Al Jazeera, tale scossa è stata seguita da un ulteriore terremoto di magnitudo 5.5, solo venti minuti dopo la prima. Le scosse hanno ridotto in polvere intere case, troppo fragili per resistere ai sismi. Il Paese, infatti, è spesso colpito da terremoti a causa della vicinanza della catena montuosa dell’Hindu Kush, alla congiunzione delle placche tettoniche eurasiatica e indiana.

Secondo le autorità locali, almeno una persona è morta e 100 persone sono rimaste ferite, la maggior parte sono donne e bambini. Gli abitanti, infatti, dormono in tende fuori dalle proprie case per paura che le loro abitazioni si possano sgretolare e che loro possano rimanere intrappolati tra le macerie; inoltre, le tempeste di polvere che hanno seguito i terremoti hanno aggravato le condizioni di salute dei civili. Le notti si stanno facendo più fredde per gli abitanti costretti a dormire nelle tende, inoltre, panico e paura sono i sentimenti più comuni secondo Hamid Nizami, commerciante di Herat. Inoltre, egli ha aggiunto: «è stata la benedizione di Allah che sia successo durante il giorno, le persone erano sveglie». Migliaia di persone vivono ancora vicino alle macerie delle proprie case perché non hanno nessun posto dove andare e la situazione politica non è d’aiuto. Dal 2021 con la presa del potere dei talebani, dopo il ritiro delle forze statunitensi, gli aiuti umanitari internazionali sono cessati e le condizioni sono sempre più critiche.

La strage di Lampedusa: 10 anni dopo

Lo scorso 3 ottobre si è celebrata la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, in ricordo della strage di Lampedusa del 2013. Il naufragio provocò la morte di quasi 400 persone, divenute poi simbolo di tutte le vittime della traversata dal Nord-Africa all’Europa

Dieci anni fa, un peschereccio di appena 20 metri partito da Misurata, in Libia, con a bordo per lo più rifugiati dall’Eritrea e dalla Somalia, si inabissava davanti alle coste di Lampedusa 

Stando alle prime notizie riportate da Rai News e The Guardian e dalle ricostruzioni effettuate, la barca era salpata appena due giorni prima. Nella notte del 3 ottobre si sarebbe verificato un blocco dei motori, portando l’acqua ad entrare nell’imbarcazione. A quel punto un membro dell’equipaggio, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione, diede fuoco ad un panno. Le persone a bordo si spostarono su un lato e il peschereccio ruotò tre volte su stesso prima di affondare definitivamente. La barca si ribaltò a mezzo miglio dall’Isola dei Conigli. I soccorsi non si sarebbero attivati prima delle 07:00 della mattina successiva. Le operazioni di soccorso durarono giorni, furono salvate 155 persone delle oltre 500 a bordo. Nella successiva giornata di venerdì, mentre continuavano le disperate ricerche dei superstiti, il governo Italiano dichiarò una giornata di lutto nazionale. 

Nel 2015 il tunisino Khaled Ben-Salam e il somalo Mouhamud Elmi Muhid furono accusati e condannati per traffico di esseri umani, riporta Rai News. 

Il 18 ottobre fu inaugurata l’operazione militare e umanitaria della Marina Militare italiana, detta Mare Nostrum con l’obiettivo di controllare i flussi migratori via mare, assicurare giustizia alle vittime di trafficanti e garantirne la salvaguardia. L’operazione si concluse il 31 ottobre 2014 con non poche critiche. Fu sostituita dall’operazione europea Triton che, come denuncia Save The Children, apparve inadeguata dato che, rispetto al Mare Nostrum, lo scopo principale era il controllo delle frontiere e le operazioni di salvataggio venivano effettuate solo in caso di estrema necessità e senza mai spingersi oltre le 30 miglia dalla costa, e successivamente da altre operazioni congiunte (Themis, Sophia, Poseidon, Indalo) in collaborazione con l’agenzia europea Frontex

Anche quest’anno a Lampedusa le celebrazioni del 3 ottobre che ricordano i morti del 2013 e i tanti migranti che ancora attraversano il Mediterraneo si sono svolte come di consueto, con la marcia in ricordo delle vittime e la commemorazione davanti alla spiaggia dei Conigli con la deposizione in mare di una corona di fiori. Spicca però l’assenza, nonostante la Giornata sia stata istituita ufficialmente con la Legge 45/2016, delle istituzioni nazionali italiane proprio in occasione del decimo anniversario dell’evento, che è stato invece ricordato dalla Presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola all’apertura della sessione plenaria a Strasburgo.

con la collaborazione di Consuelo Dosolini

Tensioni sul fronte migranti: Italia in difficoltà

Tra il 15 e il 16 settembre, circa 8000 persone sono sbarcate sull’isola di Lampedusa (AG). Di fronte alla drammatica situazione dell’hotspot di Lampedusa, il primo ministro Meloni ha esortato i suoi omologhi europei a rispettare gli accordi sottoscritti in materia di gestione dei migranti. Per discutere della questione, il ministro dell’Interno francese Darmanin si è recato in visita a Roma il 19 settembre, dove ha dichiarato che la Francia non avrebbe continuato l’accoglienza, offrendo invece il sostegno francese per il rimpatrio dei migranti arrivati pochi giorni prima. Darmanin, che già lo scorso maggio aveva criticato il premier Meloni e la sua inefficace politica migratoria, come riportato da La Repubblica, ha ribadito che l’Italia deve intensificare i controlli e respingere chi non ha diritto a chiedere asilo politico in Europa.

A livello nazionale, le dichiarazioni di Darmanin hanno suscitato molte critiche, soprattutto da parte dei membri del partito di sinistra La France Insoumise, che chiedono alla Francia di riconsiderare e rispettare gli accordi presi con l’Italia con la firma del Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica francese per una cooperazione bilaterale rafforzata, scrive Le Figarò in un articolo pubblicato il 20 settembre.

Tuttavia, la ferma decisione della Francia di interrompere l’accoglienza dei migranti sembra essersi ammorbidita dopo le dichiarazioni di Macron, la sera del 26 settembre, secondo cui la Francia non può lasciare sola l’Italia, ribadite di persona durante un incontro con il Presidente del Consiglio a Roma dopo i funerali dell’ex Presidente Giorgio Napolitano, secondo quanto riportato da Le Figarò.

Il retrofront della Francia allenta la tensione causata dalla sospensione temporanea dell’accoglienza volontaria dei migranti dall’Italia da parte di Berlino il 13 settembre. Lo riferisce un articolo di Die Welt del 15 settembre. Secondo un articolo di Rai News, la decisione della Germania di interrompere il meccanismo di solidarietà volontaria deriva dalla sospensione dei trasferimenti previsti dalla Convenzione di Dublino, che prevede il rimpatrio dei richiedenti asilo che si recano in un altro Paese dell’UE senza autorizzazione nel primo Paese di ingresso. L’Italia ha infatti dichiarato che non sarà più in grado di accettare, per motivi tecnici, trasferimenti a partire dal dicembre 2022.

Come in Francia, il ministro degli Interni federale Nancy Faeser ha annunciato l’intenzione di Berlino di riprendere l’accoglienza volontaria dei migranti dall’Italia, come riportato da Die Welt il 18 settembre. Tuttavia, le tensioni tra Roma e Berlino sulla questione migranti si sono nuovamente acuite nella settimana del 25 settembre, quando Meloni ha inviato una lettera a Scholz per esprimere il proprio disappunto sui finanziamenti tedeschi alle ONG che operano in acque italiane, non coordinati con Roma. Come riportato da Il Mitte, Meloni ha criticato la decisione di Berlino, sottolineando che i fondi avrebbero potuto essere utilizzati per migliorare gli aiuti interni, e anche il ministro della Difesa Corsetto ha condannato la decisione del Bundestag.

Khaled Al Qaisi: detenuto senza accuse in Israele

Lo scorso 31 agosto Khaled Al Qaisi, studente, ricercatore e traduttore italo-palestinese, è stato arrestato al confine tra Cisgiordania e Giordania dalla polizia di frontiera israeliana ed è tutt’ora detenuto senza ancora conoscere i capi d’accusa.

Al Qaisi, di ritorno da una vacanza a Betlemme con la moglie e il figlio di quattro anni, è stato fermato al valico di frontiera di Allenby per un controllo. All’improvviso, è stato ammanettato e portato via. Francesca Antinucci, moglie di Khaled, ha raccontato, in un’intervista riportata da Il Fatto Quotidiano, dei numerosi controlli di tutti i loro effetti personali, telefoni e documenti; delle domande sulla vita privata e lavorativa dei due coniugi e dell’arresto del marito avvenuto senza alcuna spiegazione.

Ad oggi, Khaled Al Qaisi non ha ancora potuto parlare con il suo avvocato e non conosce le motivazioni della sua detenzione. Per questo motivo, la moglie Francesca e la madre del ragazzo, Lucia Marchetti, dopo una prima udienza risalente al 21 settembre, hanno diffuso un comunicato, pubblicato da Il Manifesto, in cui ne chiedono la scarcerazione: «Vista la perdurante e allarmante situazione detentiva di Khaled e del mancato rispetto dei suoi diritti, facciamo nuovamente appello per la sua immediata liberazione».

Tuttavia, seguendo quanto riportato da La Repubblica, secondo la moglie Francesca e l’avvocato Flavio Albertini Rossi, le motivazioni dell’arresto potrebbero essere di tipo politico. Di fatti Al Qaisi, insieme alla moglie ed altri amici, ha fondato nel 2016 il Centro di Documentazione Palestinese, un’associazione culturale il cui obiettivo è diffondere la memoria e raccontare le realtà palestinesi martoriate da 75 anni di conflitti con Israele.

Nel frattempo, grande solidarietà si è mossa nei confronti del ragazzo da parte dei colleghi dell’università La Sapienza di Roma, con la creazione del comitato #freekhaled. Tuttavia, per l’avvocato Albertini Rossi e Amnesty International è doveroso denunciare la violazione dei diritti umani che Khaled sta subendo ed è anche necessario fare pressione sulle autorità italiane affinché intervengano al più presto sulla liberazione dello studente e traduttore italo-palestinese.  

Amnesty, inoltre, aggiunge che l’arresto di Al Qaisi è “l’ennesimo esempio dell’uso spregiudicato della detenzione arbitraria da parte delle autorità israeliane”. Secondo l’ultimo report dell’organizzazione internazionale per i diritti umani, sono “oltre 5000 i palestinesi detenuti in Isreale, tra i quali almeno 1260 senza accuse né processo”. Al momento, la famiglia e gli amici di Khaled attendono novità sulle condizioni dello studente, ma per ora nessuna notizia è trapelata dal governo Israeliano e nessuna risposta è stata data dalla Farnesina.

Meloni annuncia: Italia esce dalla Nuova Via della Seta cinese

0

Lo scorso 9-10 settembre, durante il G20 2023 a Nuova Dehli, la premier Giorgia Meloni ha tenuto un incontro bilaterale con il capo del governo cinese Li Qiang. Durante la riunione, Meloni ha ufficialmente comunicato la decisione di non rinnovare il Memorandum d’Intesa tra Cina e Italia, originariamente firmato nel 2019 dall’ex premier Giuseppe Conte. La notizia è stata riportata sia dal Corriere della Sera che dal China Daily. Tuttavia, è importante notare che questa svolta italiana è stata accompagnata da un accordo bilaterale che mira a rafforzare le relazioni tra Roma e Pechino.

Il Memorandum d’Intesa del 2019 ha visto l’Italia entrare come partner nel progetto di Xi Jinping noto come Belt and Road Initiative (BRI) o Nuova Via della Seta. Questo ambizioso progetto, lanciato nel 2013 dal Presidente cinese, mira a ricostruire l’antica Via della Seta attraverso la cooperazione di 65 paesi. Questi paesi, aderendo al progetto, si impegnano nella creazione di infrastrutture e reti di trasporti per lo sviluppo del commercio tra la Cina e l’Eurasia.

La decisione del governo Conte di aderire all’iniziativa cinese aveva già suscitato critiche, sia all’interno della politica italiana che a livello internazionale. Nel 2019, The Guardian riportava l’avvertimento da parte degli Stati Uniti all’Italia di “non legittimare il progetto di vanità infrastrutturale cinese” e l’apprensione di Bruxelles riguardo alle possibili reazioni degli altri Stati membri. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva criticato questa scelta, definendola “scellerata” in un’intervista al Corriere della Sera a luglio di quest’anno, secondo quanto riportato dalla BBC.

L’intenzione di Giorgia Meloni di non rinnovare l’accordo quando scadrà nel 2024, era stata resa nota già a maggio, con la richiesta di un colloquio tra Roma e Pechino durante il Forum di Nuova Dehli. Inoltre, nei giorni precedenti al G20, il tema era stato discusso durante l’incontro tra la premier italiana e il presidente americano Joe Biden a Washington. Il China Daily aveva criticato la pressione degli Stati Uniti, accusandoli di aver contribuito “all’atteggiamento di inacidimento dell’Italia verso la BRI”. Tuttavia, durante una conferenza stampa riportata dal sito del Governo il 27 luglio, la premier italiana aveva smentito quest’accusa, sottolineando che l’Italia non subiva alcuna pressione esterna nel prendere decisioni.

Il China Daily non ha commentato ufficialmente la decisione finale dell’Italia, ma ha enfatizzato l’accordo tra i due capi di governo per intensificare il dialogo e la cooperazione, il che sembra aver soddisfatto sia Pechino che Roma.

Guyana, Brasile e Argentina: i protagonisti del boom petrolifero latinoamericano

Nonostante il mondo stia attraversando una grave crisi del cambiamento climatico, la produzione globale di petrolio aumenterà nel corso di questo decennio.

Secondo l’AIE (Agenzia internazionale dell’energia), la produzione petrolifera mondiale aumenterà di 5,8 milioni di barili al giorno entro il 2028 e circa un quarto di tale offerta aggiuntiva sarà latinoamericana, secondo quanto riporta la BBC.

Paesi come il Venezuela, il Messico, l’Ecuador e la Colombia, diminuiranno la loro offerta di greggio sul mercato internazionale nei prossimi cinque anni e esperti come Francisco Monaldi, direttore del Programma Latinoamericano di Energia dell’Istituto Baker dell’Università Rice, non crede che possano invertire il loro declino.

La Guyana invece, uno dei paesi più piccoli e poveri del Sud America, potrebbe diventare il paese che produce più barili al mondo, superando il Kuwait, secondo Monaldi.

Ciò risulterebbe possibile grazie al gigante petrolifero americano ExxonMobil che ha scoperto la prima delle riserve comprovate di greggio, stimate in circa 11 miliardi di barili, nelle profondità dell’Oceano Atlantico.

Con queste quantità, si ritiene che entro il 2028 la Guyana potrebbe produrre 1,2 milioni di barili al giorno. Un risultato che porterebbe la Guyana ad essere un paese ricco, per via di uno spettacolare aumento del PIL.

Insieme alla Guyana, anche il Brasile sarà uno dei principali protagonisti del boom petrolifero latinoamericano.

Il Brasile estrae il petrolio da uno dei più grandi giacimenti petroliferi marini del mondo. Nel 2022 ha raggiunto i 2,2 milioni di barili, così da diventare l’ottavo produttore mondiale. Ha superato il Messico, che nel 2017 ne deteneva il primato, così come ha superato il Venezuela, che per anni è stata l’avanguardia petrolifera della regione.

La crescita di questi paesi non poggia solo sulla quantità di produzione, ma sia il Brasile che la Guyana producono il greggio in modo più efficiente e redditizio rispetto ad altri paesi. Inoltre, entrambi i paesi emettono meno CO2 per barile prodotto rispetto alla media mondiale, secondo Monaldi.

In terzo luogo c’è l’Argentina, la quale negli ultimi anni ha subito un incremento della produzione petrolifera. Al centro di questo sviluppo c’è Vaca Muerta, un gigantesco giacimento situato nel nord-ovest del paese con la seconda più grande risorsa mondiale di gas di scisto e i quarti di petrolio di scisto.

L’AIE prevede che la produzione supererà i 700.000 barili al giorno quest’anno e alcune stime indicano che potrebbe superare il milione di barili al giorno entro la fine di questo decennio, secondo la società di consulenza Rystad Energy.

Tuttavia, dopo il 2030, le proiezioni indicano un calo perché si prevede che la produzione di petrolio convenzionale continuerà a diminuire e quella di scisto non sarà sufficiente a compensare tale calo.

Bolivia e Iran siglano un nuovo accordo in materia di difesa e sicurezza

Giovedì 20 luglio il ministro della Difesa boliviano, Edmundo Novillo Aguilar, e dalla sua controparte iraniana, e Mohammad Reza Ashtiani, hanno firmato un accordo d’intesa per ampliare la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza e della difesa, come ha riferito l’agenzia statale persiana IRNA secondo quanto riporta la BBC.

Il memorandum, che è stato siglato a Teharan, mira ad aiutare la Bolivia nella lotta contro il narcotraffico e a rafforzare la sorveglianza delle sue frontiere. Inoltre, il ministro iraniano ha ammesso che il patto include la vendita di materiale e l’addestramento del personale.

Gli esperti dell’Istituto di studi per la guerra statunitense (ISW) danno per scontato che il governo di Teheran offrirà i suoi droni alle autorità di La Paz. Infatti, il ministro iraniano ha assicurato, prima della firma dell’accordo, che l’industria militare del suo paese avrebbe offerto, in caso di necessità, “tecnologia avanzata” alla Bolovia.

Già in diversi luoghi è comune l’utilizzo dei droni per la sorveglianza delle frontiere, nello specifico, nel 2022, un funzionario iraniano ha assicurato l’impiego di droni in 22 paesi, tra cui il Venezuela.

Le parole del ministro Novillo, riportate dai media boliviani, non si riferiscono solo ad un aiuto in materia di sicurezza, ma si tratta di una cooperazione anche nei settori “scientifico, della difesa e della sicurezza”.

L’accordo in questione è ritenuto un modello per le nazioni che cercano la libertà, tanto che il Consiglio europeo di Madrid ha preso atto con soddisfazione dell’impegno assunto dall’Unione europea nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente.

Questo processo di avvicinamento si sta rafforzando dal primo governo di Evo Morales (Bolivia) e Mahmud Ahmadinejas (Iran), i quali, durante le visite reciproche e i loro incontri, hanno sottoscritto decine di accordi per promuovere la produzione di alimenti e medicinali, di legami culturali, scientifici e tecnologici.

I rapporti tra i due paesi hanno subito una battuta d’arresto solo durante l’interinato di Jeannie Añez (2019-2020), ma sono stati ripresi poi con l’elezione di Arce, che era ministro di Morales.

Questo riavvicinamento non è ben visto dall’opposizione boliviana. Il deputato del partito Comunità Cittadina, Marcelo Pedrazas, crede che il governo preferisca intrattenere rapporti con paesi che violano i diritti umani, come Russia, Venezuela, Nicaragua e Iran, a sostegno di un allontanamento con la comunità internazionale.

Il legislatore ha condannato che i dettagli del patto non sono stati resi noti.

L’Europa intende stanziare 50,6 miliardi di dollari in investimenti e accordi commerciali in America latina

Martedì 18 luglio si è concluso a Bruxelles il vertice dei leader dell’Unione europea e della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici. Al centro delle discussioni ci sono miliardi di dollari di investimenti, promesse di accordi commerciali e parole di unità, secondo quanto riporta la BBC.

La Commissione europea ha annunciato che l’America latina riceverà 50,6 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni come prevede il programma europeo Global Gateway (progetti sostenibili che riguardano la salute, l’istruzione e la tecnologia).

Gli europei si affrettano inoltre a concretizzare l’accordo commerciale negoziato dal 1999 con il Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay). Secondo Pedro Sánchez, presidente del governo spagnolo (attualmente alla presidenza di turno dell’UE), c’è la possibilità che l’accordo si chiuda entro la fine dell’anno.

L’esigenza dell’Europa di offrire questi benefici è data dalla sensazione che abbia perso molto tempo negli ultimi decenni, ma non solo. Altri due punti spiegano questo desiderio: la crescente influenza della Cina in America Latina e la rivalità con la Russia. La stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha riconosciuto questi motivi durante la seconda giornata del vertice affermando che: “l’America Latina, i Caraibi e l’Europa sono più che mai necessari. Viviamo in un mondo più competitivo e conflittuale di prima, che si riprende dall’impatto del covid. Il mondo subisce le conseguenze dell’invasione della Russia in Ucraina. E tutto questo accade con la crescente influenza della Cina all’estero”.

Il riavvicinamento ai paesi latinoamericani è testimoniato anche dai viaggi di Von der Leyen fatti durante questo anno in Brasile, Argentina, Messico e Cile.

Il programma di investimento europeo, il Global Gateway, è visto come una risposta all’ambizioso progetto di investimento cinese conosciuto come “Nuova Via della Seta”. Questo progetto (uno stanziamento tra gli 890 000 milioni di dollari e 1 miliardo) ha portato alla costruzione di strade, linee ferroviarie e porti e ha aumentato l’influenza di Pechino in oltre 140 paesi.

L’Europa, per colmare il divario di investimenti globali, intende investire 337 miliardi di dollari entro il 2027, nei paesi ricchi e in quelli in via di sviluppo.

Si intende sostenere la produzione brasiliana di idrogeno verde e energie rinnovabili, istaurare un’alleanza con l’Argentina in materie prime sostenibili e il lancio di un fondo di idrogeno rinnovabile in Cile, con un budget iniziale di 235 milioni di dollari.

Nel caso del Mercosur, tuttavia, esistono diversi ostacoli. Paesi come la Francia, l’Irlanda, i Paesi Bassi e l’Austria, cercano di evitare di concludere accordi con paesi che deformeranno le loro foreste.

“La conclusione dell’accordo Mercosur-Unione europea è una priorità e deve basarsi sulla fiducia reciproca, non sulle minacce. La difesa dei valori ambientali, che tutti condividiamo, non può essere una scusa per il protezionismo”, ha detto Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile.

Per quanto concerne la Russia, i leader europei chiedevano una chiara condanna dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma alla fine il vertice ha accettato una condanna moderata e senza il sostegno del Nicaragua.

Secondo alcuni esperti di relazioni internazionali, il sostegno dei paesi latinoamericani nei conflitti delle grandi potenze è sempre stato “neutrale”.

Honduras: il governo vuole costruire un mega carcere seguendo le orme di El Salvador

Il modello delle mega carceri in El Salvador di Nayib Bukele è un esempio che vari paesi, come la Colombia, stanno prendendo sempre più in considerazione.

Questa volta, a voler rinchiudere su un’isola i capi delle bande criminali, è l’ultimo disperato provvedimento del governo dell’Honduras. La presidente Xiomara Castro per far fronte alla violenza sempre più massiccia del paese centroamericano prevede di costruire nelle isole del Cigno, un arcipelago disabitato situato nei Caraibi honduregni, un’enorme prigione di massima sicurezza.

Come hanno spiegato le autorità honduregne all’agenzia statunitense AP, il complesso avrà una capienza di circa 2.000 persone e sarà isolato a tal punto che le comunicazioni potranno essere fatte solo via satellite, secondo quanto riporta El País.

“È il più lontano possibile, quindi questi leader delle bande sentono la pressione una volta sull’isola. L’idea è che perdano il contatto con tutto, il contatto con tutta la società…e possano davvero pagare per i loro crimini”, ha detto José Jorge Fortín, capo delle forze armate dell’Honduras.

Questa drastica decisione è data dalle bande e dai gruppi criminali che hanno un ampio controllo nelle carceri e in vasti territori di questo paese, uno dei più poveri e arretrati del continente. Uno degli episodi più sanguinari è avvenuto a giugno, in un carcere femminile, dove sono state uccise 46 donne. A seguito di ciò, il presidente aveva assicurato di prendere misure drastiche.

L’intenzione di Castro è quella di ripulire il corrotto sistema giudiziario, scegliendo le orme del presidente di El Salvador, Nayib Bukele. “Se un altro paese ha fatto qualcosa di giusto, perché non copiarlo?” ha detto all’AP il capo delle forze armate”. Non permetteremo che questa atmosfera di terrore continui”, ha aggiunto.

La sua politica di sicurezza prevede misure estreme che comprendono il coprifuoco e il Parlamento europeo ha adottato una serie di misure volte a combattere la criminalità in 120 comunità, schierando militari e poliziotti per riprendere il controllo sulle le zone occupate dai gruppi criminali.

“Abbiamo avviato attività per far sì che le carceri cessino di essere scuole del crimine e rompano il ciclo con il crimine organizzato”, ha detto José Manuel Zelaya, segretario di Stato alla Difesa Nazionale. Tuttavia, queste azioni non sembrano essere sufficienti per ridurre la violenza e per questo il governo di Castro aspira alla costruzione del mega carcere nei Caraibi come soluzione più efficace al fenomeno criminale ormai diffuso.

Salvato nelle acque del Messico un marinaio australiano

Tre mesi fa il marinaio australiano Tim Shaddock di anni 54, con la sua cagnolina, inizia un’avventura. Ha lasciato La Paz (al sud della Baja California) per dirigersi verso la Polinesia francese, un viaggio di oltre 6000 chilometri. Durante il tragitto, una tempesta ha danneggiato la sua barca e qualche settimana dopo, una nave tonniera ha trovato il catamarano alla deriva nell’Oceano Pacifico.

Martedì 18 luglio, dopo mesi a passati a mangiare pesce crudo e bere acqua piovana per sopravvivere, Shaddock è arrivato al porto di Manzanillo (Colima), secondo quanto riporta El País. Scendendo dalla nave si è rivolto ai media rilasciando una dichiarazione: “mi sento meglio di prima. L’Oceano Pacifico è un po’ grande […]. Ho pensato che non ce l’avrei fatta, specialmente dopo l’uragano”. È rimasto senza provviste solo in compagnia della sua cagnolina Bella, alla quale ha rivolte parole di affetto e riconoscenza: “lei è messicana e il suo spirito è di questo paese”.

Al momento del suo salvataggio, Shaddock era provato dagli ultimi tre mesi in mare, con segni di disidratazione e insolazione. Nonostante abbia attraversato una prova molto difficile in mare, afferma di aver solo bisogno di riposo e buon cibo. La navigazione è la sua più grande passione, ha infatti dichiarato di aver viaggiato in passato con il suo catamarano in atre parti del mondo. “Penso di tornare a navigare molto presto […] La barca è la mia vita, la mia terra”, ha evidenziato.

Shaddock ha mostrato il suo entusiasmo nonostante la spiacevole esperienza: “ci sono molti giorni buoni e molti giorni cattivi. Ho cercato di trovare la felicità dentro di me. E l’ho trovata abbastanza. Mi piace anche essere in acqua”.

L’ultima volta che vide la terra fu nel marre di Cortés, nel golfo della California, all’inizio di maggio.

L’azienda Grupomar ha mostrato in una dichiarazione la sua soddisfazione in quanto non è la prima volta che una delle sue navi salva un naufrago dalle acque oceaniche. Parlando di questa vicenda ha affermato: “grazie all’esperienza dell’equipaggio della nave, è stato in grado di essere salvato sano e salvo, ricevendo le cure mediche, l’idratazione e l’alimentazione necessarie”.

Il presidente della compagnia, Antonio Suarez, ha infatti espresso il suo orgoglio nei confronti dell’equipaggio della Maria Delia. “Sono orgoglioso dei miei marinai per il loro coraggio e umanesimo nel riuscito salvataggio del signor Shaddock. La loro professionalità e il loro impegno per la sicurezza e il benessere degli altri sono chiari esempi dell’etica della nostra gente. Sono felice che siamo riusciti a salvare la vita a qualcuno in difficoltà”, ha dichiarato Suarez.

Colombia: il modello delle mega-carceri di Bukele come soluzione alla criminalità

L’idea delle mega-carceri, sulla scia di quelle costruite dal presidente di El Salvador Nayib Bukele per combattere la criminalità, è arrivata anche in Colombia.

Diego Molano e Jaime Arizabaleta, candidati del Centro Democratico ai Comuni di Bogotà e Cali, sono entrambi difensori della “mano dura” come soluzione alla criminalità e alla corruzione. Se vinceranno le elezioni amministrativa del prossimo 29 ottobre, hanno promesso di costruire le mega-prigioni.

«Ci saranno due mega-carceri in stile Bukele in Colombia, una a Bogotà e una a Cali che costruirò per criminali e corrotti», ha scritto in un tweet Arizabaleta. Molano ha invece affermato che serve una prigione di grandi dimensioni a Bogotà, che riesca a contenere almeno 3000 criminali, secondo quanto riporta El País.

Nessuno dei due ha fatto riferimento né ai costi né al tempo di costruzione. Tuttavia, l’idea delle mega carceri è un chiaro segno di ammirazione nei confronti di Bukele, il cui nome si sente sempre più spesso nelle strade. Ciò lo dimostrano alcuni sondaggi, nei quali il 55% degli intervistati ha risposto sì quando è stato chiesto loro se il paese avesse bisogno di un presidente come Bukele.

Proporre il suo modello sottolinea un’evidente assenza di una leadership chiara nella destra colombiana. Poiché non essendoci una figura palpabile, questa la si cerca all’esterno del paese come fonte di risoluzione dei problemi interni.

La proposta è chiaramente motivata dai gruppi criminali che popolano il paese e incutono terrore: l’Esercito di Liberazione Nazionale e lo Stato Maggiore Centrale.

Tuttavia, non è tutto positivo ciò che all’apparenza sembra tale: secondo un rapporto di Human Rights Watch del gennaio 2023, sono stati commessi abusi su larga scala nel mega carcere del El Salvador, tra cui violazioni del giusto processo, arresti di massa, morti in custodia e sovraffollamento.

Pertanto, non è chiara l’efficacia dell’incarcerazione se ha come obiettivo la risocializzazione del detenuto. Fernando Tamayo, direttore del Gruppo di Prigioni dell’Università delle Ande, riconosce che è difficile parlare dell’idea di Molano e di Arizabaleta, in quanto manca un struttura chiara. Inoltre, aggiunge che questi modelli si dimostrano inefficienti a lungo termine perché molto presto tornano a delinquere con un aumento della popolazione detenuta.

Il Venezuela non accetta la missione di osservazione dell’Unione europea in occasione delle elezioni presidenziali del 2024

Il presidente dell’Assemblea nazionale del Venezuela, Jorge Rodríguez, ha annunciato giovedì 13 luglio che il governo di Nicolás Maduro non permetterà la presenza di una missione di osservazione dell’Unione europea nel paese per le elezioni presidenziali del 2024.

«Non abbiamo tempo di considerare la richiesta che ci è stata fatta per venire. Te lo dico chiaramente, Josep Borrell, finché noi saremo i rappresentanti dello Stato venezuelano, tu non verrai. Qui non verrà nessuna missione dall’Europa. Hanno violato l’accordo che abbiamo firmato con loro», queste sono le parole di Rodríguez che hanno messo in chiaro la posizione di Caracas.

Una decisione che arriva mercoledì 12 luglio, quando il Parlamento europeo ha condannato l’esclusione dalle elezioni di Maria Corina Machado, la leader dell’opposizione che esprime preoccupazione di fronte all’evoluzione del regime venezuelano, e ha chiesto la liberazione dei 280 prigionieri politici.

Con il passare del tempo, il governo chavista, che si è aperta a negoziare con l’opposizione, ha raddoppiato le sue richieste, rifiutando di confrontarsi con i dirigenti antichavisti, secondo quanto riporta El País.

L’opposizione ha iniziato a temere sulla possibilità che la Corte Suprema del paese, in mano al chavismo, possa emettere una sentenza che costringa l’opposizione a mettersi d’accordo con la nuova direttiva del Consiglio nazionale elettorale, che non è ancora stata nominata. Una decisione che non è ben accetta dall’opposizione in quanto aveva deciso di organizzare le elezioni per conto proprio dopo la rinuncia alla precedente giunta direttiva della Commissione elettorale nazionale.

Mercoledì 12 luglio si è tenuta presso l’Università Cattolica Andrés Bello, un dibattito tra i 10 candidati alle elezioni primarie dell’opposizione.

Nel saluto finale per la stampa, Machado, che afferma di voler guidare un progetto comune e superare le difficoltà con gli altri aspiranti alla presidenza, si è rifiutata di stringere la mano dei suoi compagni per fare il segno della vittoria.

La popolarità di Machado è cresciuta molto rapidamente negli ultimi mesi, che ha portato un governo debole nei sondaggi, e che deve ancora affrontare le complicazioni dell’economia, a escluderla dal voto. La candidata, tuttavia, afferma che la sua campagna continuerà in modo decisivo «fino alla fine», senza accettare imposizioni dalle istituzioni del chavismo.

Cile: una nuova politica pubblica per controllare l’immigrazione clandestina

L’amministrazione del presidente Gabriel Boric – di sinistra – ha reso nota la sua prima politica nazionale sulle migrazioni. Si tratta di un processo iniziato nel 2021, quando è stata emanata la legge sulla migrazione e sugli stranieri, che ha stabilito la necessità di promuovere un processo migratorio ordinato e sicuro che promuova “l’integrazione armonica” degli abitanti del Cile.

Da allora, il paese vive una crisi migratoria che ha portato il governo a militarizzare i confini settentrionali nel febbraio 2023. La politica si concentra sul controllo delle frontiere e sul rafforzamento del Servizio Nazionale delle Migrazioni, l’ente incaricato di regolare gli ingressi stranieri nel paese. Prevede l’applicazione di 28 misure immediate e una serie di progetti di legge che saranno presentati al Parlamento, secondo quanto riporta El País.

Il processo è finalizzato a registrare coloro che sono entrati in Cile e che vi rimangono illegalmente, per valutare poi in un secondo momento chi potrà scegliere di normalizzare la propria situazione.

Inoltre, il processo di rilascio del permesso di soggiorno sarà soggetto a condizioni e coloro che non soddisfano i requisiti saranno espulsi dal paese.

Il fenomeno migratorio negli ultimi anni ha avuto un impatto rilevante nel paese sudamericano. Tra il 2017 e il 2021, secondo gli esperti, il numero di stranieri presenti in Cile è raddoppiato, così come conferma la Polizia Investigativa, che registra 1,5 milioni di migranti e 100.000 ingressi senza autorizzazione.

Il processo di politica nazionale è già iniziato con la registrazione degli stranieri presenti nel paese illegalmente. Ciò è avvenuto grazie alla piattaforma digitale che il governo ha messo a disposizione. Ad oggi si sono registrate 190.000 persone, le quali dovranno recarsi presso gli uffici del registro in cui verrà effettuata una registrazione biometrica.

Per Andrea Espinoza, direttrice sociale del Servizio dei Gesuiti Migranti, «è una buona notizia che la nuova politica nazionale sulle migrazioni abbia posto particolare attenzione alle persone prioritarie: bambini, bambine e adolescenti, donne vittime di violenza di genere e vittime della tratta».

La politica pubblica è stata definita «ambiziosa» da Soledad Torres, fondatrice di Legal Global Chile, studio legale specializzato nel diritto migratorio, poiché include aspetti che non erano mai stati presi in considerazione prima.

Perù: la dichiarazione dello Stato di Emergenza per il vulcano Ubinas

Una pioggia di cenere da martedì 4 luglio ha messo in pericolo almeno 2000 persone nel sud del Perù, nella regione di Moquegua. Si tratta di Ubinas, il vulcano più attivo tra le 400 strutture vulcaniche presenti nel paese andino. La cenere, dalla prima esplosione, è stata dispersa in un raggio di 10 chilometri in due giorni e ciò ha destato preoccupazione nei villaggi a causa dell’odore di combustibile bruciato, ma anche nelle autorità.

L’ultima volta che il vulcano ha mostrato la sua attività è stata nel luglio del 2019. Le esplosioni durarono tre mesi e sorpassarono il cratere di otto metri, disperdendosi nel raggio di 250 chilometri. Mentre, per questa volta, l’Istituto Geofisico del Perù ha affermato che non si può precisare il suo termine e la sua reale entità, secondo quanto riporta El País.

Tuttavia, mercoledì 5 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato la dichiarazione dello Stato di Emergenza per 60 giorni, coinvolgendo Coalaque, Chojata, Ichuña, Lloque, Matalaque, Ubinas e Yunga. Il documento giustifica anche la decisione, affermando che «la capacità di risposta del governo regionale di Moquegua è stata superata, rendendo necessario l’intervento tecnico e operativo delle entità governative».

La misura messa in atto consentirà al governo di attuare azioni immediate affinché il rischio possa essere ridotto. «Il compito centrale del governo è proteggere la popolazione», ha sottolineato il premier Alberto Otárola. Effettivamente, nella zona particolarmente soggetta a rischio, le lezioni sono state sospese in tredici scuole.

L’esigenza principale è quella di proteggere i cittadini, dove accoglierli e quindi in quale luogo potranno essere evacuati.

L’ostello di Sirahuaya, situato a 12 chilometri dal cratere, è stato individuato dalle autorità come possibile rifugio, ma non è più operativo dalla sua creazione nel 2019, quindi è una lotta contro il tempo.

I cittadini non sono d’accordo. «L’ostello di Sirahuaya sono piccoli moduli dove entra un letto, ma non c’è acqua, scarico o luce. Tra morire lì o morire qui, si preferisce morire a casa», ha detto una vicina del distretto di Ubinas, al quotidiano El Comercio.

Le conseguenze previste dagli esperti non possono essere sottovalutate. Diversi vulcanologi hanno avvertito che la cenere vulcanica, essendo altamente tossica, avrà un grave impatto sull’agricoltura, sul bestiame e, naturalmente, sull’ambiente.

Il servizio Nazionale di Meteorologia e Idrologia del Perù ha previsto che tra giovedì 6 luglio e sabato 8 luglio le dispersioni delle cenere si sposteranno verso la regione di Arequipa.

Orinoco: tra Colombia e Venezuela un fiume tutto da scoprire

Non è facile comprendere ciò che abita il fiume Orinoco, tra Colombia e Venezuela poiché è molto scuro e veloce. È il quarto fiume più profondo del mondo, per questo la difficoltà di analizzarlo lo ha riempito di mistero, secondo quanto riporta El País.

La fauna presente nel fiume è stata ignorata dalla scienza tradizionale del XIX e XX secolo, e solo fino agli anni 70′ una spedizione di venezuelani e americani ha iniziato a cercare di capire cosa potesse esserci sul fondo delle loro acque.

Grazie ad uno studio condotto da 19 ricercatori di Colombia, Venezuela, Brasile e Stati Uniti, durante la pandemia del Coronavirus, si conosce con precisione quali specie lo abitano. Quanto trovato continua ad essere avvolto dal mistero ed risulta essere insolito.

«Tra i casi curiosi c’è un piccolo pesce gatto, di circa 1,5 centimetri, che vive a 40 metri di profondità e di cui si erano visti solo due esemplari. Ma stiamo anche pensando che, in totale, avremmo potuto osservare quasi dieci nuove specie» racconta Carlos A. Lasso, ricercatore senior dell’Istituto di ricerca Alxander von Humboldt. Riferendosi alle specie afferma che sono tutte molto interessanti.

Specie rare che nonostante non avendo luce, non hanno occhi e alcuni comunicano attraverso campi elettrici. Si tratta di pesce gymnotifotmi o coltelli, in grado di capire se c’è una prede nelle vicinanze attraverso la generazione e la percezione di campi elettrici.

Per gli studiosi è stato difficoltoso riuscire a scattare foto a questi animali, una vera e propria sfida. «Quando si rischia di entrare in un fiume pericoloso e complesso come l’Orinoco, dove le acque sono torbide per la maggior parte dell’anno, non abbiamo un profilo del fondo, quindi è fondamentale lavorare con i locali, con quelli che vi pescano e lo conoscono», dice Lasso.

Inoltre, ci deve essere una particolare attenzione nei riguardi dei pesci una volta usciti dall’acqua, utilizzando guanti e anestetico per non farli soffrire.

Purtroppo, c’è stata anche un’altra spiacevole scoperta. Durante la spedizione, si è scoperta la presenza delle microplastiche e i pesci dell’Orinoco li mangiano. I pesci confondono le larve di insetti acquatici con le microplastiche.

Il fondo dell’Onirico è un luogo ancora da scoprire del tutto, uno spazio sorprendente, proprio come gli altri fiumi che condividono la Colombia e il Venezuela.

Il Cecot: le ombre della megaprigione in El Salvador

Il 31 gennaio 2023 è stata inaugurata una grande prigione dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che è diventata il simbolo della lotta alla guerra contro le bande. Inoltre, ha anche istituito una politica di sicurezza che gli ha dato popolarità a livello nazionale e internazionale, secondo quanto riporta la BBC.

Il lavoro di Bukele si basa soprattutto sulla drastica riduzione degli omicidi, in quello che è diventato il paese più violento del mondo. Precedentemente, le bande controllavano i quartieri e l’operato del presidente sta dando alla gente una sensazione di tranquillità.

«El Salvador è riuscito a passare dall’essere il paese più insicuro del mondo al paese più sicuro d’America», ha affermato Bukele con un tweet. «Come ci riusciamo? Mettendo i criminali in prigione. C’è spazio? Ora sì. Possono dare ordini dall’interno? No. Possono scappare? No. Un lavoro di buon senso».

Tuttavia, a cinque mesi dalla sua inaugurazione il Cecot è al centro di contestazioni per lo stato di eccezione approvato, dopo che, in 48 ore nel marzo del 2022, si sono registrati 76 omicidi. Dall’inizio dello stato di eccezione sono state arrestate 70.000 persone, ma si registrano numerose denunce di violazioni dei diritti umani, tra arresti arbitrari e torture fino alla morte, tutto ciò sotto la custodia dello Stato.

Il Cecot è stato presentato ai salvadoregni tramite radio e televisione nazionale come «il più grande carcere di tutta l’America». Tuttavia, sono migliaia i salvadorgegni che da mesi non hanno notizie dei loro familiari lì detenuti.

Secondo il governo, il carcere ha una capacità di 40.000 prigionieri, esclusivo per tre bande: la Mara Salvaturcha e due del Quartiere 18. Queste bande rivali hanno aumentato il loro potere per decenni con il reclutamento dei giovani, attuando un ferreo controllo del territorio e seminando terrore e divisione nel Paese centroamericano.

Nel Cecot «non sono stati costruiti cortili, non sono state costruite aree ricreative per i carcerati», ha riferito a suo tempo il ministro dei Lavori pubblici, Edgar Romeo Rodríguez Herrera, il che contravviene a quanto dettato dalle Regole Minime per il Trattamento dei Detenuti, approvate nel 2005 dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).

Brasile: il Ministero del Lavoro propone un alzamento delle quote per le assunzioni nella PA a favore delle realtà marginalizzate

Il Brasile vuole compiere ulteriori passi in avanti per aiutare le realtà più povere e marginalizzate. Già un decennio fa ha introdotto delle quote universitarie per studenti poveri e neri che hanno rivoluzionato la vita di tante famiglie.

Il Ministro del Lavoro e dell’Occupazione Luiz Marinho ha annunciato di creare quote specifiche per le persone trans (2% dei posti), indigene (un altro 2%) ed estendere al 45% i posti per brasiliani neri e meticci, e al 6% per i disabili. L’iniziativa riguarda il concorso pubblico per l’assunzione di 900 nuovi ispettori del lavoro nella pubblica amministrazione, secondo quanto riporta El País.

Il Ministero del Lavoro e il suo titolare cercano ora la formula legale per realizzare questa volontà politica. Tuttavia, non è chiaro se il presidente e il governo abbiano accolto la proposta di aumentare le quote di concorso per entrare nell’amministrazione. Il ministero ha comunque confermato l’iniziativa, ma l’esecutivo non ha risposto alle domande che riguardano la proposta.

La notizia di questa iniziativa è arrivata poche ore dopo la giornata internazionale per i diritti LGBTI e poco dopo che la Corte suprema degli Stati Uniti ha deciso di porre fine alla discriminazione positiva basata sulla razza nelle università. Molti dei principali edifici ufficiali del Brasile, come il Congresso o il Palazzo di Itamaraty, sede del Ministro degli Affari Esteri, hanno celebrato il Pride LGTBI con illuminazione multicolore.

In un paese dove i meticci e i neri rappresentano il 56% della popolazione, ora sono anche la maggioranza tra gli studenti nelle università pubbliche. Ciò ha costituito una grande rivoluzione: la presenza di un laureato in una famiglia come elemento di cambiamento ed elevazione sociale.

Il paese più popoloso dell’America Latina si costituisce come teatro di importanti progressi in diritti sociali per transessuali. Per esempio, quattro donne transessuali sono state elette alle ultime elezioni, due al Congresso, una al Parlamento statale di Rio de Janeiro e una a quello di Sergipe. Inoltre, alcune aziende private iniziano a mostrare interesse nell’assumerli come parte dei loro piani di diversità. Ciononostante, le transessuali brasiliane hanno notevoli problemi a cercare lavoro e la loro aspettativa di vita è notevolmente inferiore rispetto a quella dei loro connazionali, per questo motivo difficilmente raggiungono la vecchiaia.

La discriminazione è letale per questa minoranza, come dimostra l’ultimo bilancio di Trans Murder Monitoring, una rete internazionale di ONG, che conta 96 trans uccise in un anno, tra il 2021 e il 2022.

Stati Uniti: i risultati dello stress test bancario della Federal Reserve

Secondo i risultati dello stress test bancario annuale della Federal Reserve, pubblicati mercoledì 21 giugno, le banche degli Stati Uniti sono prossime a superare una grave recessione e a continuare a prestare denaro a famiglie e imprese durante questo periodo. Ciò dimostra che la tempesta bancaria degli ultimi mesi è sotto controllo. Tuttavia, chi ottiene punteggi peggiori deve essere pronto a qualsiasi pressione di mercato.

Solo 23 banche sono state esaminate perché le banche di medie dimensioni, con asset compresi tra i 100 e i 250 miliardi di dollari, devono superare il test ogni due anni.

Le due maggiori banche statunitensi hanno ampiamente superato il test: JPMorgan (con un capitale minimo dell’11,1% nel momento peggiore del periodo analizzato sul palco) e Bank of America (10,6%), così come Goldman Sachs (10,1%) e Morgan Stanley (11,2%). Tra i grandi istituti, il peggior punteggio è quello di Wells Fargo, il cui coefficiente di capitale principale scenderebbe ad un minimo dell’8,2%. Il capitale di Citigroup segnerebbe un minimo del 9,1% per poi risalire al 9,7%.

Dai risultati emerge che il più forte è Charles Schwab, con un capitale superiore al 20%, il quale è riuscito a prendere i voti migliori, proprio come Credit Suisse USA. Le altre banche, che vedono erodere i loro livelli di capitale, sono considerate gli anelli deboli della catena, secondo quanto riporta El País.

«I risultati di oggi confermano che il sistema bancario è ancora forte e resiliente», ha detto il vicepresidente della Vigilanza Michael S. Barr. «Allo stesso tempo, questo test di resistenza è solo un modo per misurare quella forza. Dobbiamo rimanere umili su come possono sorgere i rischi e continuare il nostro lavoro per garantire che le banche siano resistenti a una serie di scenari economici, perturbazioni del mercato e altre tensioni», ha aggiunto.

I risultati individuali delle banche hanno un impatto immediato sui requisiti patrimoniali delle banche, se una banca non si mantiene al di sopra di questi requisiti sarà soggetta a restrizioni sulla distribuzione del capitale e sui pagamenti di bonus.

Le 23 banche analizzate sembrano mantenersi al di sopra dei requisiti patrimoniali minimi durante il periodo di grave recessione.

Titan: ritrovate macerie del sommergibile accanto alla prua del Titanic

Giovedì 22 giugno, le autorità statunitensi hanno riferito che si è verificata una possibile implosione del Titan, il sottomarino che ospitava cinque passeggeri e che si stava dirigendo verso il relitto del transatlantico Titanic.

La Guardia Costiera ha riportato che sono stati trovati dei detriti riconducibili al sottomarino, da ciò si presume che sia stato schiacciato dalla pressione oceanica in modo “catastrofico”, secondo quanto riporta la BBC. Inoltre, ha espresso le condoglianze per la presunta morte dell’equipaggio.

Gli esperti sono pronti ad indagare su cosa sia davvero successo, studiano i pezzi trovati vicino alla prua del Titanic. Secondo Ryan Ramsey, ex capitano di sottomarini della Royal Navy britannica, grazie alla raccolta delle macerie si potrà ricostruire il quadro completo della sequenza degli eventi che hanno portato alla tragedia.

Dopo aver trovato cinque frammenti del sommergibile, la Marina degli Stati Uniti ha detto di aver rivelato «un’anomalia acustica compatibile con un’implosione», subito dopo che il Titan ha perso contatti con la superficie.

Le indagini si concentreranno sui pezzi di fibra di carbonio con cui è stata prodotta parte dell’imbarcazione. Ogni pezzo sarà analizzato al microscopio per analizzare la direzione dei filamenti di fibra di carbonio. Infatti, ci si chiede se ha subito un danno strutturale che ha prodotto una rottura nello scafo e che ha conseguentemente provocato la possibile implosione.

Il professore Roderick A. Smith, dell’Imperial College di Londra, ha affermato che “la fibra di carbonio fallisce a causa di difetti interni nella sua costruzione. Le giunzioni tra fibra di carbonio e titanio richiedono un’ispezione molto accurata.”

«Nel caso in cui si trattasse di un guasto catastrofico della carcassa principale, il sommergibile sarebbe stato soggetto a pressioni incredibilmente elevate, equivalenti al peso della Torre Eiffel, decine di migliaia di tonnellate, comprimendo l’imbarcazione», ha affermato il professor Blair Thornton dell’Università di Southampton in una intervista rilasciata alla BBC.

Non è chiaro quale agenzia guiderà l’indagine, poiché non esiste un protocollo per tali eventi con un sommergibile. Il commodoro Mauger ha affermato che questo caso è particolarmente complesso perché l’incidente è avvenuto in una parte remota dell’oceano e ha coinvolto persone di diverse nazionalità.

Brasile: «epidemia di violenza» nelle scuole

In due mesi e mezzo la polizia brasiliana ha arrestato 368 ragazzi, per aver attaccato scuole o per aver organizzato piani di attacco. Si tratta di un’operazione che il governo ha messo in atto insieme alla polizia: Scuola sicura, secondo quanto riporta El País. I primi arresti risalgono al 5 aprile, dopo l’uccisione di quattro bambini in un asilo di Blumenau, nello stato di Santa Caterina.

La metà di questi giovani adolescenti ha rivelato sui mass media l’intenzione di causare terrore nelle scuole. Il Ministro della Giustizia, l’ex giudice Flávio Dino, parla di «epidemia di violenza nelle scuole, di cui soffre il Brasile».

I tentativi di ridurre i rischi non producono i risultati sperati: lunedì 19 giugno un ex alunno di 21 anni ha ucciso due adolescenti in una scuola di Cambé (Paraná). Poco dopo il suo arresto è stato trovato morto nella sua cella.

L’assassino era entrato nell’istituto con un revolver 38 e sette caricatori. Le vittime dell’attacco sono una coppia di giovani, una ragazza di 17 anni e un ragazzo di 16. Lei è deceduta sul colpo, lui dopo una lunga agonia in ospedale.

Le motivazioni non sono state rese note. I principali media brasiliani hanno deciso, seguendo i consigli degli specialisti, di non svelare il movente per evitare qualsiasi glorificazione degli autori e frenare quindi l’effetto imitazione.

Nonostante il flusso di arresti sia continuato, e siano coinvolti 4000 agenti nell’operazione, il fenomeno non accusa battute di arresto.

Altri 1500 ragazzi sono stati interrogati in centrale come sospettati di appartenere a gruppi estremisti. Gli estremisti di destra sono particolarmente presenti al sud del Brasile, popolato da immigrati tedeschi o, più in generale, europei.

Il massacro di Blumenau ha portato il quotidiano O Globo, il principale del paese, ad annunciare che non pubblicheranno immagini o nomi di coloro che attaccano le scuole. Si tratta di ex studenti che vogliono annientare l’altro, perché si sentono incompresi o influenzati da ideologie estremiste.

Sottomarino turistico si immerge e scompare nel luogo del Titanic

Un sottomarino con cinque persone a bordo è scomparso da domenica mentre scendeva verso il relitto del Titanic, il transatlantico affondato nel 1912. La Guardia Costiera di Stati Uniti e Canada ha meno di tre giorni per ritrovare il sottomarino turistico, poiché ha una riserva di ossigeno per un massimo di 96 ore. Le autorità stanno perlustrando la zona al largo della costa canadese di Terranova.

Il sommergibile appartiene alla compagnia OceanGate Expeditions, il cui responsabile, Stockton Rush, si trova a bordo, insieme a un esploratore francese di 73 anni, un pakistano amministratore di un’organizzazione no profit, suo figlio e un imprenditore britannico di 58 anni.

Le autorità ritengono opportuno lavorare per gradi: la prima intenzione è quella di localizzare il sottomarino e nel caso in cui ciò avvenisse, si procederà con l’elaborazione di piano per tentare il salvataggio.

Il sommergibile, chiamato Titan, ha perso i contatti con la superficie solo un’ora e 45 minuti dopo l’inizio della discesa. Da quel momento i soccorritori hanno dichiarato di aver messo a disposizione ogni mezzo disponibile per cercare di localizzare il Titano, in qualunque condizione esso si trovi.

Il consigliere di OceanGate, David Concannon, ha affermato che si sta cercando di portare nella zona delle ricerche un veicolo telecomandato che riesce ad immergersi fino a 6000 metri di profondità, e sarà in grado di collaborare con le autorità per riuscire a rinvenire il sommergibile.

Per i soccorritori il tempo stringe: la metà del limite di ossigeno è già stato consumato. Inoltre, rendono tutto più difficoltoso le condizioni metereologiche e la profondità del fondale marino in quella zona. Il Titanic si trova infatti a 3800 metri di profondità, negli abissi dell’oceano.

L’ammiraglio John Mauger, che coordina i compiti di ricerca ha sottolineato: “La posizione di questa ricerca è a circa 1.700 chilometri a est di Capo Cod, ad una profondità di circa 3.960 metri. È un’area remota, ed è una sfida portare avanti una ricerca in quell’area.”

OceanGate Expeditions gestisce queste avventure sottomarine che prevedono l’immersione di otto giorni e sette notti per visitare il relitto del Titanic. La spesa del viaggio ammonta a 250 000 dollari. La spedizione prevede inoltre specialisti di missione o tre turisti e un pilota esperto in ciò che si vedrà. In questo caso, la compagnia aveva ingaggiato la nave Polar Prince per accompagnare i viaggiatori nel luogo in cui si trova il Titanic.

America Latina: la contesa per il territorio tra le comunità indigene e l’estrazione delle risorse naturali

L’organizzazione Rights and Resource Initiative (RRI) ha pubblicato un rapporto che riguarda quale percentuale di superficie terrestre appartiene alle comunità indigene, riporta El País. Sebbene l’America Latina si presenti come paladina dei diritti territoriali di queste comunità, negli ultimi anni è rimasta indietro.

Tra il 2015 e il 2020 a livello globale le comunità occupano un territorio di 102,8 milioni di ettari. In America Latina raggiunge appena 21 milioni di ettari, di cui 4 milioni di ettari utilizzate dalle aree indigene o afro-latinoamericane (dal 3% nel 2015 al 3,2 nel 2020) e 17 milioni di ettari di cui sono state riconosciute proprietarie queste comunità (dal 16,7% al 17,6%).

La direttrice dei programmi America Latina e Giustizia di genere di RRI, Omaira Bolaños, sostiene che l’America Latina ha fatto molti progressi in questo campo negli anni ’80 e ’90. Da allora, tuttavia, l’assegnazione di nuovi territori indigeni è stata molto lenta. La direttrice ritiene la cifra globale buona, visto l’aumento del territorio, ma ricorda che ciò è dovuto solo ai paesi analizzati dal rapporto, ovvero 38 paesi su 73, molti dei quali si trovano in Africa.

Sulla base di questi dati, il leader indigeno Levi Sucre, crede che si tratti di una situazione scoraggiante. Il problema riguarda anche le aree dei popoli indigeni e afro-latinoamericane già esistenti, perché stanno vivendo forti minacce. Ne è da esempio il taglio dei finanziamenti all’agenzia per gli affari indigeni effettuato dall’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Le situazione è grave anche in Perù: le comunità dell’Amazzonia e delle Ande hanno dovuto avanzare richieste esplicite per proteggere il loro territorio dalla pressione di compagnie petrolifere e minerarie. Una situazione che si potrebbe rilevare in qualsiasi paese dell’America Latina.

Bolaños crede che finché l’economia dell’America Latina sarà basata sull’estrazione intensiva delle risorse naturali, ci saranno minacce continue nei territori indigeni e afro-latinoamericani, e si perderà ulteriormente la possibilità di ottenere nuovi territori per le comunità.

Secondo il rapporto della RRI, inoltre, su 16 paesi dell’America Latina analizzati circa il 79% è in mano dello Stato o dei privati, il 18% è di proprietà di comunità indigene e solo il 3% è stato destinato a nuova occupazione da queste popolazioni.

Stati Uniti: Donald Trump accusato di reati federali

Dopo le accuse sul caso Stormy Daniel, del pagamento a lei effettuato per mettere a tacere una relazione extraconiugale, Donald Trump è stato accusato martedì 13 aprile a Miami per reati federali, per un totale di 37 capi d’accusa. Secondo la procura, avrebbe ostacolato la giustizia nascondendo documenti segreti.

Dopo essersi dichiarato non colpevole, l’ex presidente ha organizzato un evento nella serata di martedì per rispondere all’accusa, definendola «abominevole uso di potere» e «interferenza elettorale». Ha definito Joe Biden «un corrotto», affermando che ha tutto il diritto di conservare il materiale oggetto delle indagini. Ha anche ribadito la volontà di tornare alla Casa Bianca l’anno prossimo, nonostante stia affrontando accuse gravi, e di volersi vendicare dei democratici. «Nominerò un procuratore speciale per perseguire Biden se sarò eletto», ha minacciato.

Lo scenario del suo sfogo è stato il club di golf a Bedminster, in New Jersey, un luogo rilevante nell’accusa, che appare in due momenti chiave nel sommario del procuratore speciale Jack Smith, secondo quanto riporta El País. Trump è arrivato intorno alle 20.30 a Bedminster, entrando nel complesso con la canzone di Elvis Presley, Suspicious Mind, in sottofondo.

Il cortile del Club ha ospitato decine di sedie per ospiti selezionati.

Come si evidenzia dagli ultimi sondaggi della CBS, i suoi sostenitori repubblicani rimangono fedeli a lui nonostante i processi che deve affrontare. Il 61% dei partecipanti ha affermato che le accuse non faranno cambiare loro idea sul candidato delle elezioni del 2024.

I 34 capi d’accusa imposti nell’aprile del 2023, per falsificazione di registri commerciali, sono riusciti a unificare molti repubblicani intorno a Trump, quindi i 37 presentati questo martedì a Miami potrebbero avere lo stesso effetto tra i suoi fedelissimi, e specialmente tra quelli presenti a Bedminster. L’accusa federale, che almeno il 60% dell’elettorato repubblicano considera di natura politica, può incoraggiare ulteriormente il candidato.

Nonostante sia accusato penalmente, non gli è proibito di candidarsi e di avere la possibilità di diventare in futuro di nuovo Presidente degli Stati Uniti.

Colombia: ritrovati dopo 40 giorni quattro minorenni scomparsi nella foresta

Quattro bambini indigeni del sud-est della Colombia hanno trascorso 40 giorni nella foresta, in una delle regioni meno esplorate e più pericolose del mondo.

Il 1º maggio, i minori di 14, 9, 4 e un anno di età sono sopravvissuti allo schianto di un aereo in cui viaggiavano con la madre e altri due adulti, non sopravvissuti all’incidente aereo, secondo quanto riporta la BBC. Venerdì 9 giugno sono stati trovati dall’esercito dopo un’intensa ricerca. Il giorno seguente sono stati trasferiti a Bogotà presso l’ospedale militare dove stanno ricevendo cure.

I bambini si trovano in condizioni cliniche «accettabili», nonostante l’ambiente inospitale in cui sono riusciti a sopravvivere, ha riferito il Ministro della Difesa, Iván Velásquez. Ha aggiunto che alla bambina più grande è riconosciuta «non solo il suo valore ma anche la sua leadership. Fu per lei che i tre fratellini riuscirono a sopravvivere al suo fianco, con le sue cure, con la conoscenza della giungla». Il ministro ha sottolineato direttamente dall’ ospedale come le comunità indigene abbiano partecipato alla ricerca, congiuntamente svolta alle forze militari, come riporta El País.

Nonostante alcune punture e lesioni alla pelle, il generale Carlos Rincón Arango, direttore dell’ospedale militare centrale conferma le condizioni cliniche accettabili dei quattro fratelli. Ricevono supporto nutrizionale e psicologico e saranno tenuti sotto controllo in ospedale per qualche settimana. «Parlano poco ancora e sono deboli, anche se vogliono giocare. Diamogli un po’ di tempo», dichiara la direttrice dell’Istituto colombiano di benessere familiare, Astrid Cáceres.

La missione del governo per trovare i bambini venne chiamata «Operazione Speranza». La notizia ha fatto il giro del mondo e la ricerca ha coinvolto tutti. Gli indizi trovati dall’esercito sono stati ripresi con foto e video: pannolini, biberon, una scarpa e una mela morsa.

Quando sono stati ritrovati, i militari hanno esortato con una parola chiave che avevano concordato in caso del ritrovamento dei piccoli: «miracolo», una parola che hanno ripetuto una volta per ogni bambino.

Consolidamento delle relazione USA-Arabia Saudita: la visita di Blinken

Lo scorso martedì 6 giugno il segretario di Stato americano Blinken è arrivato in Arabia Saudita, dove ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman. La visita rappresenta l’inizio di una missione diplomatica volta a consolidare i rapporti tra i due Paesi, in seguito ad anni di profondi disaccordi relativi a molte questioni.

Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller, in una dichiarazione successiva all’incontro, ha riportato che Blinken e Mohammed bin Salman si sono impegnati a «promuovere la stabilità, la sicurezza e la prosperità in tutto il Medio Oriente e oltre».

Secondo quanto riportato dalla Reuters, la discussione si è incentrata sull’ «approfondimento della cooperazione economica, specialmente nei campi dell’energia pulita e della tecnologia».

Blinken ha, inoltre, ringraziato l’Arabia Saudita per il suo sostegno durante la recente evacuazione di cittadini statunitensi dal Sudan colpito dalla guerra, nonché per gli sforzi diplomatici per fermare i combattimenti tra le fazioni sudanesi rivali.

Durante il soggiorno di tre giorni, il massimo diplomatico statunitense ha incontrato anche altri funzionali sauditi. Questa visita di alto livello avviene dopo circa un mese da quella del consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan.

La presenza di Blinken in Arabia Saudita arriva in seguito alla dichiarazione del Paese arabo circa l’impegno a ridurre ulteriormente la produzione di petrolio, una mossa che potrebbe aggiungere tensione al rapporto tra Washington e Riyad.

In questo quadro, secondo gli analisti gli obiettivi del viaggio di Blinken includono riconquistare influenza su Riyad riguardo ai prezzi del petrolio, respingere l’influenza cinese e russa nella regione e alimentare le speranze per un’eventuale normalizzazione dei legami sauditi-israeliani.

L’attuale amministrazione Biden, inizialmente, ha instaurato legami difficili con l’Arabia Saudita, in quanto il presidente, subito dopo essere entrato in carica nel 2021, ha rilasciato una valutazione dell’intelligence statunitense secondo cui il principe ereditario aveva approvato l’operazione per catturare e uccidere il giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018.

Lo scorso luglio Joe Biden ha visitato il regno senza, tuttavia, riuscire ad alleviare le tensioni con Riyad, la quale è diventata meno interessata ad essere allineata con le priorità degli Stati Uniti nella regione.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, Ma Hussein Ibish, studioso presso l’Arab Gulf States Institute di Washington DC, ha affermato che le relazioni tra Washington e Riyad stanno attualmente migliorando. L’esperto ritiene che «soprattutto quando si tratta di sicurezza e poche altre questioni, il rapporto è più forte di quanto non fosse un anno fa».

Il fumo degli incendi canadesi raggiunge la città di New York

Il fumo denso degli incendi in Canada ha oscurato martedì 6 e mercoledì 7 giugno la città di New York e buona parte del nord-est degli Stati Uniti. La visibilità sulla città è stata pari a zero, come sull’Empire State Building, impossibile da intravedere. Il cielo ha assunto una colorazione giallastra e l’intenso odore di bruciato ha messo in allarme numerosi stati, secondo quanto riporta El País. Inoltre, la scarsa qualità dell’aria, che potrebbe durare per giorni, ha messo in allerta le persone più sensibili.

Secondo le autorità meteorologiche e come ha consigliato attraverso un tweet il sindaco di New York, Eric Adams, i malati polmonari, i cardiopatici, i bambini e gli anziani, dovrebbero evitare le uscite all’aperto. Avvisi di questo genere riguardano anche alcune contee del Connecticut, Massachusetts e Vermont e anche più a sud, zone del New Jersey, del Maryland, della Pennsylvania nonché la capitale federale, Washington.

La Grande Mela non si ritrovava in una situazione così critica dagli anni ’60, la qualità dell’aria ha raggiunto un livello preoccupante. «Non esistono un piano o delle linee guida per questo tipo di problemi», ha detto Adams in una conferenza stampa, affermando che si tratta di una situazione senza precedenti.

Non è la prima volta che il fumo raggiunge gli Stati Uniti, ma i colori apocalittici hanno impressionato tutti. Siti come EarthCam hanno postato tutto il pomeriggio immagini che paiono surreali.

Le conseguenze sono state inevitabili sul piano sociale: l’inquinamento da fumo ha iniziato a provocare ritardi e cancellazioni di alcuni voli, le scuole di vari stati hanno cancellato sport e altre attività all’aperto, le corse di cavalli dal vivo sono state annullate mercoledì 7 e giovedì 8 giugno al Delaware Park Wilmington. Alcune manifestazioni politiche, da Manhattan a Harrisburg (Pennsylvania), sono spostate all’interno o posticipate, e gli sceneggiatori di Hollywood in sciopero sono stati cacciati dall’area metropolitana di New York.

Questo martedì, gli incendi attivi in Canada erano più di 400, di cui 200 fuori controllo. La stagione di incendi già intensa aveva fatto evacuare da lunedì 26.000 canadesi dalle loro case. Sarà la peggiore stagione degli incendi boschivi della storia del paese, secondo le autorità.

Brasile: il governo vuole eliminare la deforestazione entro il 2030

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si pone come obiettivo la salvaguardia della foresta amazzonica. Il governo ha presentato un piano specifico contro la deforestazione nel corso della Giornata mondiale dell’ambiente, secondo quanto riporta El País. Si tratta della rivisitazione di un piano entrato in vigore nel 2004, varato da Lula e dal Ministro dell’ambiente Marina Salva, che fino al 2012 ha dato come risultato la diminuzione della deforestazione dell’83%.

Durante la gestione del governo di Jair Bolsonaro, il piano fu sospeso sostituendolo con operazioni militari di lotta agli incendi e al disboscamento illegale, manovre che gli specialisti hanno considerato di scarsa utilità.

Il piano tornato in auge, che è stato rielaborato da 19 ministri, prevede 194 linee d’azione al fine di raggiungere la deforestazione zero entro sette anni. Il programma comprende altre misure: la creazione di tre milioni di ettari di nuove riserve naturali, la protezione di 230.000 chilometri di rive dei fiumi, il sequestro del 50% dei terreni illegalmente disboscati, l’ampliamento del numero di basi strategiche, di stazioni di polizia e di aerei della polizia federale e delle forze armate in Amazzonia, la creazione di avvisi giornalieri sulla deforestazione e l’assunzione di 1.600 analisti ambientali entro il 2027.

«Portare la protezione socio-ambientale e il cambiamento climatico al centro delle attività e delle priorità del governo va oltre un impegno etico e civile. È anche il più grande trionfo di cui il Brasile dispone per inserirsi nel mondo, attrarre investimenti, generare posti di lavoro e tornare ad essere protagonista nella soluzione dei grandi conflitti globali», ha affermato il Ministro dell’Ambiente. L’intenzione è quella di offrire un’alternativa in campo economico ai cittadini brasiliani che vivono in Amazzonia, attraverso la bioeconomia, il turismo sostenibile e l’agricoltura familiare.

La cerimonia di presentazione del piano anti-deforestazione è stata un atto che ha apportato prestigio internazionale al Ministro dell’ambiente, cercando inoltre di incoraggiarla in un momento di forti pressioni.

Nei tempi previsti dalla politica, i primi risultati si vedranno entro il 2025, quando il Brasile ospiterà la COP-30 a Belém, un appuntamento internazionale che il governatore sfrutterà per capitalizzare gli sforzi a favore del nuovo piano verde.

Ucraina: squarcio nella diga della centrale idroelettrica a Nova Kakhovka

Nella mattinata del 6 giugno 2023, una diga costruita sul Dnepr, fiume che attraversa la città di Nova Kakhovka, è stata gravemente danneggiata. A causa dello scarico incontrollato dell’acqua sia i sistemi fognari sia parte delle linee elettriche sono stati danneggiati e sono state allagate circa 600 case. Le autorità locali hanno prontamente dichiarato lo stato d’emergenza e hanno fatto evacuare la maggior parte dei cittadini. Nonostante ciò, Energoatom, l’azienda statale ucraina che si occupa della gestione delle quattro centrali nucleari attive nel territorio del paese, ha assicurato che la situazione dell’impianto è per il momento sotto controllo.

L’infrastruttura è stata costruita nel 1956 sul fiume Dnepr come parte dell’omonima centrale idroelettrica. Alta 3 metri e lunga 2,3 chilometri, la diga rappresenta un punto strategico e si trova attualmente sul territorio controllato dalla Russia. Per tale motivo, Ucraina e Russia si accusano reciprocamente di aver causato il danno a discapito dell’altro.

L’ucraina parla di atto terroristico russo, come riportato da RTVE. Alcuni video pubblicati sui social media mostrano diverse esplosioni sulla diga, mentre Mikhail Podoloyak, consigliere dell’ufficio presidenziale ucraino, sostiene che si sia trattato di un palese attacco russo mirato ad ostacolare l’avanzata ucraina e a rallentare la fine della guerra.

Il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha convocato d’urgenza il Consiglio di sicurezza nazionale e ha pubblicato su Twitter un video della diga distrutta accusando i soldati russi e dichiarando: «La distruzione della diga della centrale idroelettrica di Kakhovka non fa che confermare a tutti che i russi devono essere espulsi da ogni angolo del territorio ucraino. Non un solo metro deve essere lasciato a loro, perché usano ogni metro per il terrore.»

Dall’altro lato, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha smentito le accuse ucraine e ha incolpato il nemico di “sabotaggio deliberato”. Inoltre, l’agenzia di stampa russa TASS sostiene che le truppe ucraine hanno attaccato l’infrastruttura utilizzando missili sparati da un sistema di lancio multiplo del tipo Olja, mentre il sindaco russo della città di Nova Kakhovka, Vladimir Leontev, ha dichiarato che una serie di attacchi ucraini ha causato un buco nella struttura e che sarà impossibile ripararla.

Stato del Messico: la governatrice in pectore Delfina Gómez celebra il risultato delle elezioni

L’Istituto Nazionale Elettorale del Messico (INE) ha pubblicato i risultati di un conteggio rapido, un calcolo in cui Delfina Gómez, del Partito Morena, otterrebbe in totale tra il 52% e il 54% dei voti, mentre la sua avversaria, Alejandra Del Moral, dell’alleanza PRI-PAN-PRD, otterrebbe tra il 43% e il 45%.

Gómez ha detto: «e l’amore che mi avete dato, io spero di restituirlo. Come? Lavorando. Questo è il trionfo di tutti noi. Vinceremo tutti in questo sforzo che abbiamo fatto. Faremo una nuova storia nello Stato del Messico. Dobbiamo lavorare giorno per giorno. Sarò molto impegnata. Tornerò nei comuni, non solo per ringraziare, ma per presentare progetti di lavoro per ciascuno», ha detto euforica la Gomez, celebrando a Toluca insieme ai suoi sostenitori, una vittoria che sembra sicura.

Gómez dichiara di dare più spazio alle donne che lavoreranno al suo fianco, senza escludere le esigenze di nessun altro. Gli anziani, gli insegnanti, i disabili, i contadini e i giovani saranno al centro del suo impegno politico. «Il nostro sarà un governo aperto, che ascolta, perché vogliamo conoscere in prima persona le necessità. E daremo seguito a tutte le proposte raccolte nei forum. Niente corruzione, niente compromessi, andiamo con tutto il mare della corruzione. Con il popolo tutto, senza il popolo niente!», ha aggiunto la governatrice virtuale.

L’affluenza ha raggiunto il 46,9% nello Stato del Messico e il 55% a Coahuila, come riporta El País. Una battaglia elettorale che in questo 2023 ha chiamato alle urne circa 15 milioni di cittadini dello Stato del Messico. Sono elezioni che sembrano confermare l’egemonia del partito del Presidente Andrés Manuel López Obrador, oltre a sancire la perdita del potere del PRI dopo 100 anni di dominio in questi territori.

Alfredo De Mazo, governatore dello Stato del Messico dal 2017 ad oggi, si è congratulato con Gómez postando un tweet: «Oggi i Messicani nell’esercizio di partecipazione democratica, in assoluto rispetto e libertà, hanno scelto chi guiderà il corso del nostro stato per i prossimi sei anni. Noi riconosciamo la Maestra @delfinagomeza per il suo trionfo in questa elezione e gli auguriamo il maggior successo per il bene dello Stato del Messico».

Unione europea: secondo vertice della Comunità politica europea in Moldavia

Giovedì 1° giugno 2023 i leader dei paesi dell’Unione europea, insieme ai rappresentanti delle istituzioni comunitarie e a quelli di altri 19 paesi non appartenenti all’UE, si sono riuniti in Moldavia per il secondo vertice della Comunità politica europea (CPE). Tra i partecipanti, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, l’alto rappresentante dell’EU Josep Borrel, il presidente italiano del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni e il presidente dell’Ucraina Volodimir Zelenski.

L’incontro, un forum informale ideato dal presidente francese Emmanuel Macron, ha lo scopo di consentire ai paesi candidati all’UE e al resto dei paesi del continente, fatta eccezione per Russia e Bielorussia, di discutere di questioni comuni quali la sicurezza o le problematiche energetiche. In questo caso specifico, la riunione ha sottolineato sia il sostegno alla Moldavia, paese confinante con l’Ucraina e in cui ci sono tensioni con la regione filorussa della Transnistria, sia la volontà di isolare internazionalmente della Russia.

Le autorità moldave hanno adottato diverse misure di sicurezza, tra cui la chiusura dello spazio aereo, le esercitazioni internazionali di contraerea, la chiusura temporanea delle strade della capitale Chisinau e l’assistenza della polizia estera. Lo spazio aereo moldavo rimarrà chiuso fino alla fine dell’incontro, in contemporanea con la conclusione delle esercitazioni internazionali Air Bastion-2023, attuate per garantire la sicurezza dei leader europei e che coinvolgeranno 200 soldati moldavi, francesi, britannici, rumeni e statunitensi.

Quello in Moldavia è stato il secondo vertice della Comunità politica europea, mentre il primo si è tenuto nel castello di Praga lo scorso ottobre. La Spagna, invece, si è impegnata a ospitare il terzo incontro. Il primo forum era servito a sottolineare l’isolamento internazionale di Mosca e a dimostrare l’unione degli Stati membri dell’Unione europea con altre nazioni che solitamente sono più distanti dall’UE, come il Regno Unito, che ha lasciato il blocco comunitario nel 2020, o la Turchia, che è stata criticata per non aver aderito alle sanzioni contro la Russia.

Durante il primo incontro, il presidente Macron ha affermato: «Abbiamo dimostrato l’unità di 44 paesi che condannano l’invasione russa e sostengono l’Ucraina. Sappiamo che l’Europa è divisa su diverse questioni, ma su questa siamo uniti», come riportato da RTVE. Sulla sua stessa linea di pensiero vi sono l’alto rappresentante dell’UE Borrell e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Alcuni membri della CPE, invece, hanno visto il vertice come l’ennesimo “negozio di chiacchiere”, che sarà difficile da gestire a causa delle sue dimensioni e della sua diversità, nonché delle tradizionali rivalità tra molti dei suoi membri, quali Armenia e Azerbaigian o Turchia e Grecia.

Il Cile verso una nuova Costituzione

L’avvocato Veronica Undurraga ha dichiarato che il progetto preliminare per una nuova Costituzione è pronto. Undurraga è la presidente di un organo nominato dal Congresso cileno, che dal 6 marzo ha iniziato ad elaborare la bozza per una nuova Carta costituzionale.

Durante il processo di redazione il Congresso ha avuto un obiettivo comune: «redigere il miglior testo possibile pensando al futuro del Cile. Una Costituzione che non è la Costituzione sognata da nessuno di noi, ma una Costituzione sotto la quale tutti sentiamo di poter convivere e che sentiamo come nostra».

Si tratta di un tentativo di sostituire l’attuale Carta fondamentale, che ha origine nel 1980 durante la dittatura militare di Augusto Pinochet. Ha subito profonde modifiche negli anni e dal 2005 porta la firma dell’allora presidente socialista Ricardo Lagos (2000-2006).

Il progetto preliminare, che presenta 14 capitoli, 118 pagine, sarà consegnato al Consiglio costituzionale la prossima settimana, come riporta El País. Il processo di redazione è durato quasi tre mesi e si tratta di un progetto che, pur presentando alcuni cambiamenti sostanziali, segue la tradizionale costituzione cilena.

La principale modifica è che il sistema cileno sarà democratico e sociale, una lotta portata avanti dal centrosinistra e alla quale la destra si è unita. Questo è il risultato di un lavoro che, come ha dichiarato il vicepresidente della commissione di esperti Sebastián Soto, è stato condiviso da tutti, cercando di trovare strade comuni per proporre al Consiglio una Costituzione che unisca, e non divida.

Il testo costituzionale proposto contiene alcune novità nella figura del presidente della Repubblica, per cui «nell’esercizio delle sue funzioni ha una durata di quattro anni e non può essere rieletto per il periodo immediatamente successivo. Tuttavia, una persona può esercitare la carica di presidente della Repubblica solo fino a due volte».

Inoltre, c’è un nuovo meccanismo di partecipazione al processo di formazione delle leggi.

L’intervento più significativo riguarda il sistema dei partiti politici: è stata fissata una soglia del 5% dei voti validamente espressi per accedere alle elezioni della Camera dei deputati. Si tratta di un cambiamento voluto a causa della frammentazione della politica cilena, tanto che in Parlamento vi sono 21 forze.

Per la prima volta nella storia la proposta riconosce i popoli indigeni come parte della popolazione cilena, assicura la partecipazione politica alle donne e prevede la protezione dell’ambiente, la sostenibilità e lo sviluppo.

Il Consiglio costituzionale, a partire dal 7 giugno, avrà sei mesi per lavorare il testo, e il 17 dicembre si deciderà se il Cile potrà o meno sostituire la Costituzione nata durante la dittatura.

Turchia: Erdoğan vince le elezioni

Dopo due settimane di elezioni, Recep Tayyip Erdoğan, leader del partito conservatore Akp, si conferma nuovamente vincitore con il 52,14% di voti contro il 47,86% di Kemal Kılıçdaroğlu, che ha guidato una coalizione di sei partiti di opposizione. Nel discorso successivo alla rielezione, Erdoğan ha ribadito: «Per i prossimi cinque anni ci è stata affidata la responsabilità di guidare il Paese. Non sono l’unico vincitore, il vincitore è la Turchia e la nostra democrazia.»

Per la prima volta dalla sua ascesa al potere iniziata più di 15 anni fa, Erdoğan ha dovuto affrontare un secondo turno di votazioni, trovandosi di fronte una forte opposizione che ha ottenuto i risultati migliori dopo decenni di sconfitte assicurate. Kılıçdaroğlu, leader del Partito kemalista fondato dal padre della Turchia moderna, Kemal Atatürk, ha invitato il presidente rieletto a usare il potere che detiene con moderazione.

Durante la campagna elettorale, Erdoğan ha affermato la propria posizione su diversi punti cruciali che riguardano il paese. Ha riconosciuto che le sue sfide principali saranno affrontare sia la crisi economica sia le conseguenze del terremoto che a febbraio ha coinvolto undici province del sud della Turchia. Il presidente ha infatti promesso di risollevare un’economia che attualmente ha un tasso d’inflazione superiore al 50% e di costruire e consegnare le case delle vittime del terremoto entro due anni.

Un’altra questione al centro della campagna elettorale turca è stata la gestione dell’immigrazione. Nel paese ci sono più di 5 milioni di rifugiati, di cui 3,5 milioni provenienti dalla Siria. L’opposizione si è sempre espressa contro l’arrivo di nuovi rifugiati perché i siriani rappresentano l’islamismo e simboleggiano regressione. Per tale motivo, i siriani residenti in Turchia hanno appoggiato Erdoğan, ma poiché gran parte degli elettori di quest’ultimo si lamenta dell’immigrazione, non si esclude che nei prossimi mesi il presidente cambierà la propria politica migratoria, riporta RTVE.

Secondo gli esperti, nei prossimi mesi Erdoğan dovrà anche fare una scelta decisiva riguardo la propria politica di bilanciamento tra Russia e Stati Uniti. Infatti, nonostante la Turchia sia membro della NATO, non ha appoggiato le sanzioni europee e statunitensi contro Mosca e mantiene il veto sull’adesione della Svezia all’Alleanza. Inoltre, ha assunto un ruolo proprio all’interno della NATO proponendosi come mediatore dell’accordo sul grano tra Ucraina e Russia e la sua politica estera si è avvicinata all’Egitto e a Israele. Secondo Carlos Ortega Sánchez, specialista e ricercatore presso El Orden Mundial, l’approccio politico pragmatico di Erdoğan consiste nell’adattarsi alle circostanze, di conseguenza farà le scelte che più lo avvantaggeranno.

Telefonata Biden-Erdogan: congratulazioni, F-16 e candidatura della Svezia alla NATO

Lo scorso lunedì 29 magio, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si è complimentato con Recep Tayyip Erdogan per la sua rielezione, avvenuta in seguito alla fase di ballottaggio contro il riformista Kemal Kilicdaroglu. I due leader hanno anche discusso di questioni come l’acquisto da parte della Turchia di aerei da combattimento F-16 e l’adesione della Svezia alla NATO.

Durante la conversazione, Erdogan ha ribadito il desiderio di Ankara di acquistare aerei da combattimento F-16 dagli Stati Uniti, i quali chiedono alla Turchia di abbandonare l’obiezione all’entrata della Svezia nell’alleanza militare transatlantica.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, prima di lasciare la Casa Bianca, Biden ha detto ai giornalisti: «mi sono congratulato con Erdogan. Vuole ancora acquistare gli F-16. Gli ho detto che volevamo un accordo con la Svezia, quindi facciamolo. In questo modo, saremo di nuovo in contatto l’uno con l’altro».

Il presidente degli Stati Uniti ha poi affermato di aver sollevato la questione dell’adesione della Svezia alla NATO e di aver proposto all’omologo turco un ulteriore colloquio per la prossima settimana.

La Svezia e la Finlandia hanno presentato domanda di partecipazione alla NATO lo scorso anno, abbandonando le consuete politiche di non allineamento militare, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. La Finlandia ha ottenuto l’approvazione, che deve provenire da tutti i membri dell’alleanza, lo scorso mese. La posizione della Svezia, invece, è stata ostacolata dalle obiezioni di Turchia e Ungheria.

Secondo la giustificazione espressa dalla Turchia, Stoccolma ospita attualmente i membri di gruppi armati considerati “terroristici”.

Nel frattempo, la Turchia ha cercato di acquistare dagli Stati Uniti gli aerei F-16 per un valore di 20 miliardi di dollari e quasi 80 kit di modernizzazione. La vendita, tuttavia, è stata bloccata a causa delle obiezioni del Congresso statunitense relative al rifiuto di Ankara di dare il via libera all’allargamento della NATO, alla situazione interna circa il rispetto dei diritti umani e alla politica in Siria. Nonostante tali contestazioni, l’amministrazione Biden ha ripetutamente affermato di sostenere la vendita.

In seguito alla ratifica da parte della Turchia dell’adesione della Finlandia alla NATO, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un pacchetto di dimensioni ridotte, che include aggiornamenti del software avionico per l’attuale flotta turca di F-16. Sul tema, il presidente Biden ha più volte negato affermazioni che mettessero in relazione la vendita di armi, con l’allargamento della NATO.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, vedere la Svezia entrare a far parte della NATO entro il prossimo luglio, mese in cui l’alleanza transatlantica dovrebbe organizzare un vertice dei leader in Lituania, è tra le massime priorità per Washington.

Colombia: la senatrice María Fernanda Cabal si candida alle presidenziali del 2026

È la donna che ha mandato all’inferno García Márquez, l’illustre scrittore colombiano, che crede che il cambiamento climatico sia una farsa, che ritiene che le scienze umanistiche creino idee poco sensate, almeno stando quanto riporta El País. La senatrice è convinta che sia giunto il suo momento e che, a Dio piacendo, possa essere la prossima presidente della Colombia.

Rilasciando una lunga intervista all’edizione latinoamericana del quotidiano spagnolo, la Cabal si immagina un futuro vicino con José Antonio Kast alla presidenza del Cile, Javier Milei a quella dell’Argentina e lei a quella della Colombia. «E Trump negli Stati Uniti», aggiunge. Vede tutti leader più noti della destra più radicale e populista governare in America nei prossimi anni.

In Colombia, la destra gli ha lasciato uno spazio enorme che cerca di riempire facendosi sempre più presente. È la voce più ascoltata dell’opposizione al governo di sinistra di Petro.

I partiti conservatori sono stati sconfitti nelle elezioni del 2022, dove non hanno raggiunto nemmeno il secondo turno, e ora non hanno un leader chiaro. Infatti, è questa situazione di debolezza che le permette di approfittarsene, e quindi di emergere. «Non dirò che non si genera gelosia nei propri partiti, perché è naturale. Io cito molto Churchill quando mi chiedono dei nemici di altri partiti, quelli sono avversari, i miei nemici sono nel mio partito».

Non è ancora chiaro il suo potere elettorale, e quindi quanti sostenitori potrebbe avere alle elezioni, però sono sempre più visibili i sostenitori dell’ultradestra che cresce in altri paesi latinoamericani, tra cui il fenomeno Bukele in El Salvador, per cui Cabal fu la prima a mostrare la sua ammirazione per il salvadoreño in Colombia. Le piace la sua mano dura, il suo autoritarismo, che vede necessario in una situazione di violenza come quella che ha attraversato El Salvador, anche se crede «che debba arrivare un momento in cui ci deve essere equilibrio, perché altrimenti ci sarà una dittatura pura e dura».

Cabal pensa che la Colombia abbia un bisogno di autorità che propone di recuperare «combattendo» con le forze armate.

Dall’intervista emerge quanto le piace provocare e osservare ciò che le sue parole provocano negli altri. La formula non è nuova. L’ha usata Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile. Si candida per entrare a far parte di questo club.

Spagna: a rischio il parco nazionale di Doñana, patrimonio mondiale dell’UNESCO

Il parco nazionale di Doñana, situato nel golfo di Cadice, tra Huelva e Siviglia, è uno degli ecosistemi più importanti dell’Andalusia per estensione e biodiversità. Grazie all’alto livello di umidità, qui è possibile la convivenza di diversi habitat naturali. Inoltre, la riserva rappresenta un punto centrale per le rotte migratorie di migliaia di uccelli, la cui sopravvivenza dipende proprio dalla buona condizione delle zone umide. Il territorio protetto ospita oltre 40 chilometri di spiagge, lagune e paludi ed è la casa di molte specie di animali in via di estinzione, quali la lince iberica, l’aquila imperiale, l’alzavola marmorizzata o l’anatra dalla testa bianca. Per tutti i motivi appena elencati, nel 1994 il parco è entrato a far parte del patrimonio mondiale dell’UNESCO ed è riconosciuto come Riserva della biosfera dal 1980.

Ad aprile 2023, il Parlamento dell’Andalusia ha approvato un progetto di legge che prevede l’aumento dell’irrigazione nell’area circostante la riserva naturale. L’iniziativa ha ottenuto l’approvazione grazie ai voti a favore del PP e di Vox, nonostante il monito dell’Unione europea di multare la Spagna, l’opposizione del governo e il rifiuto della comunità scientifica a causa dello stato critico del parco nazionale. Durante l’acceso dibattito parlamentare, Manuel Andrés González, portavoce e presidente del PP di Huelva, ha sostenuto il progetto in difesa del futuro di centinaia di famiglie andaluse, mentre Rafael Segovia, portavoce di Vox, ha sostenuto che a Huelva c’è acqua a sufficienza per consentire l’aumento dell’irrigazione, come riporta El País.

Dall’altro lato, l’UNESCO ha espresso preoccupazione per la proposta di legge e ha avvertito che la sua approvazione mette a serio rischio la biodiversità del parco, minacciando quindi le ragioni che lo hanno reso patrimonio dell’umanità. In aggiunta, il Comitato del Patrimonio Mondiale ha regolarmente messo in guardia dallo sfruttamento eccessivo della falda acquifera e dai potenziali impatti sull’ecosistema, sostenendo che la mancanza di precipitazioni degli ultimi anni e il conseguente «disseccamento delle zone idriche influisce direttamente sulle popolazioni degli uccelli acquatici.» In merito a ciò, in una dichiarazione rilasciata lo scorso mercoledì 24 maggio, l’agenzia delle Nazioni Unite ha affermato che il Comitato prenderà le misure necessarie nella prossima riunione di settembre, indicando come “ultima spiaggia” la possibilità di considerare il sito come patrimonio mondiale in pericolo laddove ce ne sarà bisogno.

La prossima riunione del Comitato si terrà in Arabia Saudita tra il 10 e il 25 settembre e proseguirà l’analisi dello stato di conservazione dell’area protetta, prendendo in considerazione sia il rapporto presentato dalla Spagna sia l’analisi di UNESCO e IUCN.

Il lancio della campagna elettorale di Ron DeSantis: un fallimento per lui e per Elon Musk

Il governatore della Florida, Ron DeSantis, ha tentato di presentare la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2024 attraverso un video su Twitter con Elon Musk. Ma quello che doveva essere il suo grande momento è stato ritenuto un disastro da tutta la stampa internazionale. A causa di problemi tecnici, con centinaia di migliaia di persone connesse, la trasmissione si interrompeva continuamente.

Durante l’esperimento fallito di DeSantis, Joe Biden lo tagga con un tweet: «Questo link funziona», allegando il link che riportava alla sua campagna, come riporta El País. L’ex presidente Donald Trump si è anche aggiunto alle prese in giro dalla sua rete, Truth Social, dove ha caricato un video di un razzo SpaceX, un’altra società di Elon Musk, che cade ed esplode con la scritta «Ron 2024». Poi ha scritto un ulteriore tweet: «Wow! Il lancio di DeSanctus su TWITTER è un DISASTRO! Tutta la tua campagna sarà un disastro». Lo stesso DeSantis si è rassegnato a scherzare: «Sembra che abbiamo spaccato internet».

Dopo poco più di 21 minuti dal suo inizio, la trasmissione è stata interrotta, quindi, coloro che sono rimasti in attesa non hanno potuto ascoltare il candidato. David Sacks, che fungeva da moderatore, ha aperto un’altra trasmissione che è stata resa accessibile tramite un altro link.

Era passata circa mezz’ora rispetto all’orario annunciato quando DeSantis ha iniziato: «Mi presento come presidente degli Stati Uniti per guidare la grande rinascita americana». Al termine del programma, un’ora dopo, la trasmissione non riuscita aveva ancora milioni di visualizzazioni in più di quella che ha funzionato.

Musk ha detto che invita tutti i candidati presidenziali a partecipare a un programma simile a quello organizzato a DeSantis, ma visto il disastroso risultato della prima non è chiaro quanti accetteranno l’invito. I problemi del social network sono stati una costante durante la caotica leadership dell’azienda che ha acquistato lo scorso ottobre.

Spagna: razzismo sul campo da calcio e non solo

La scorsa domenica 21 maggio, dopo la partita tra il Valencia e il Real Madrid, la polizia nazionale spagnola ha arrestato tre individui di età compresa tra i 18 e i 21 anni per gli insulti razzisti rivolti a Vinícius Júnior, calciatore del Real Madrid. Episodi simili nei confronti del giocatore brasiliano si erano già verificati nel corso delle precedenti partite della Liga e più volte sono stati denunciati in quanto crimini di odio e discriminazione.

In particolar modo, lo scorso gennaio è stato trovato un manichino che indossava la maglia di Vinícius appeso a un ponte, su cui compariva la scritta “Madrid odia il Real”. L’atto vandalico, verificatosi a seguito della vittoria del Real Madrid contro l’Atlético Madrid, è stato prontamente denunciato e la società calcistica ha aperto un’inchiesta per l’identificazione dei colpevoli.

Il calciatore ha espresso la propria opinione sfogandosi attraverso un post pubblicato sui social media: «Mi dispiace per gli spagnoli che non sono d’accordo ma oggi, in Brasile, la Spagna è considerata un paese razzista.» Poi, ha aggiunto: «La Liga ormai appartiene ai razzisti.» In risposta, la replica di Javier Tebas, presidente della Liga: «Prima di criticare e insultare è necessario che ti informi a dovere, Vinícius. Non lasciarti manipolare e assicurati di comprendere appieno le competenze di ciascuno e il lavoro che abbiamo svolto insieme.»

Le ripercussioni di questo episodio invitano a sollevare il dibattito sul razzismo in Spagna al di là del campo da calcio. Secondo El País, nel 2017, il Centro di Ricerca Sociologica (CIS) ha svolto un sondaggio in cui chiedeva agli spagnoli se si considerassero razzisti o meno. I risultati ottenuti erano stati positivi, poiché la maggioranza aveva risposto negativamente, ma il valore era relativo. Secondo gli esperti, infatti, le domande erano state poste in modo troppo diretto e l’intervistato aveva risposto scegliendo l’opzione che pensava fosse più giusta, ossia in modo poco realistico.

Secondo Mercedes Fernández, direttrice dell’Istituto di Migrazioni dell’Università di Comillas e coautrice dello studio “Evolución del racismo, la xenofobia y otras formas de intolerancia”, in base all’analisi dei diversi sondaggi raccolti nel corso degli anni, la Spagna non mostra un sentimento di superiorità basato sul colore della pelle, ma vede gli immigrati come concorrenti.

In altre parole, un individuo può essere apparentemente a favore della diversità e del multiculturalismo e negare di essere razzista, ma mostra riluttanza nei confronti della cultura altrui e rifiuta la partecipazione o l’uso dei servizi pubblici delle persone non bianche. «Nell’immaginario collettivo, gli stereotipi sull’uso dei servizi pubblici o sull’accesso alle sovvenzioni pesano più della superiorità motivata dal colore delle pelle», afferma Fernández.

Lo yuan: la moneta che la Cina promuove in America Latina

0

Lo yuan, la moneta che la Cina promuove come alternativa al dollaro, inizia a guadagnare spazio in America Latina. 

Alcuni segnali di rafforzamento della valuta cinese sono infatti emersi dal sud della regione nelle ultime settimane. 

Il mese scorso, il governo argentino ha annunciato che i suoi acquisti in Cina inizieranno ad essere pagati in yuan anziché in dollari, per preservare le deboli riserve di valuta estera del Paese.

In Brasile, dove lo yuan ha superato l’euro come seconda principale valuta di riserve estere, il governo ha anche annunciato un accordo per commerciare con la Cina le valute di entrambi i paesi per evitare di ricorrere al dollaro. 

La Cina ha raggiunto accordi di utilizzo dello yuan in altre regioni dell’America Latina, infatti a febbraio ne ha annunciato uno in Brasile, il suo più grande partner commerciale in America Latina, con uno scambio bilaterale che nel 2022 ha raggiunto un record di 150 miliardi di dollari USA.

Cambiamenti in tal senso sono stati segnalati anche dal presidente della Bolivia, Luis Arce, come parte di una tendenza regionale a cui il suo paese potrebbe unirsi. 

Secondo quanto riporta la BBC, ci sono diversi meccanismi che la Cina può utilizzare per introdurre la sua moneta in alcuni mercati. Ciò è ormai un fenomeno che non appartiene solo all’Argentina o al Brasile, come afferma Margaret Myers, la direttrice del programma Asia-America Latina del Dialogo Interamericano. Tuttavia, avverte che c’è ancora tempo per vedere fino a che punto arriverà questo lancio della valuta asiatica. 

Unione europea: decise le date delle prossime elezioni

Lo scorso mercoledì, la presidenza svedese ha annunciato le date delle prossime elezioni europee previste tra il 6 e il 9 giugno 2024. Le elezioni, a scadenza quinquennale, decideranno chi occuperà i 705 seggi del Parlamento europeo e avvierà il rinnovo dei vertici delle principali istituzioni europee, tra cui la Commissione, il braccio esecutivo dell’UE. Il Parlamento europeo spera di ripetere il successo delle ultime elezioni tenutesi nel 2019, che avevano registrato un’affluenza generale pari al 50,6%. La Spagna, con il 60,7%, era stata tra i paesi con la più alta affluenza alle urne.

Il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha incoraggiato gli oltre 400 milioni di cittadini aventi diritto al voto di recarsi alle urne il prossimo anno per eleggere i propri rappresentanti a Bruxelles e Strasburgo. In un video messaggio pubblicato su Twitter ha dichiarato: «È giunto il momento di riformare, di cambiare, di continuare ad ascoltare e dare risultati. La democrazia nell’UE è oggi più importante che mai. Il vostro voto è importante, deciderà la direzione che prenderà l’UE e che tipo di Europa vedrete.»

I diversi gruppi politici si stanno mobilitando in vista di questa data cruciale. In particolar modo, il Partito Popolare Europeo (PPE), nel tentativo di mantenere lo status di partito di maggioranza, si è recentemente avvicinato ai partiti di destra radicale di diversi paesi, come riporta El País. Un esempio è l’incontro avvenuto lo scorso gennaio tra Manfred Weber, presidente del PPE e Giorgia Meloni, leader del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei. Attualmente, sia Metsola sia Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, fanno parte del PPE.

Tra i principali punti di discussione delle prossime elezioni ci saranno la guerra in Ucraina, la crisi del costo della vita, l’approvvigionamento energetico, il cambiamento climatico e la migrazione. Durante il dibattito verrà considerato anche il Qatargate, lo scandalo giudiziario che ha coinvolto il Parlamento Europeo e il Qatar. Secondo un’indagine della magistratura di Bruxelles, alcuni membri del PE hanno ricevuto in passato grosse quantità di denaro per influenzare le decisioni dello stesso parlamento in favore del Qatar e, probabilmente, anche del Marocco.

Brasile: l’ex presidente Collor condannato per corruzione e riciclaggio di denaro

L’ex presidente brasiliano Fernando Collor de Mello, che ha governato il paese dal 1990 al 1992, è sempre più vicino al carcere.

La maggior parte dei giudici del Tribunale Federale Supremo hanno già votato a favore della sua condanna. Collor è accusato di corruzione e riciclaggio di denaro legato all’azienda petrolifera pubblica Petrobas.

Il giudice relatore del caso, Edson Fachin, ha proposto una pena corrispondente a 33 anni di carcere, anche se la pena finale sarà determinata da tutta la Corte.

L’ex presidente si dichiara innocente, però il caso, che risale al 2015, lo vede coinvolto in una situazione giudiziaria che la stampe definisce “complessa”.

Secondo quanto riporta El País, nel 2015, la procura ha denunciato Collor per aver ricevuto tangenti per 30 milioni di reais (5,6 milioni di euro) tra il 2010 e il 2014. In cambio di questo denaro, Collor ha reso possibili, con nomine politiche, vantaggiosi contratti tra la società DVBR (Derivati del Brasile) e BR Distributor, una sussidiaria della petroliera Petrobras. Durante le indagini, la polizia ha sequestrato nella sua villa una Porsche, una Ferrari e una Lamborghini.

Il giudice Fachin ha definito “corrotto” l’agire di Collor, sottolineando che l’ex presidente ha approfittato della sua posizione per intrattenere rapporti illeciti.

Sprovvisto per la prima volta dopo molto tempo della protezione di cui godono i parlamentari, l’ex presidente ora è più vicino che mai a una condanna da scontare in carcere.

Argentina: Cristina Kirchner rinuncia alla candidatura

Martedì 16 maggio la ex presidente argentina Cristina Kirchner non ha partecipato al congresso nazionale del partito peronista, però è tornata al centro delle discussioni.

«L’ho già detto il 6 dicembre 2022. Non sarò la mascotte del potere per nessuna candidatura», ha scritto l’ex presidente (2007-2015) in una lettera pubblicata sui suoi social network.

Nonostante i militanti le chiedono da mesi di tornare a guidare il paese, lei ha giustificato la sua decisione accusando la giustizia di essere politicizzata, in particolare i magistrati che lo scorso dicembre la hanno condannata a sei anni di reclusione e radiata a vita da cariche pubbliche per corruzione.

La sentenza del giudice federale, che ha letto la sua condanna per presunte irregolarità nell’aggiudicazione di 51 lavori stradali nella provincia di Santa Cruz, non è ancora definitiva perché le rimangono le istanze di appello. Tuttavia, dal giorno della sua condanna, la vicepresidente sostiene la teoria per la quale i suoi rivali politivi e i giudici federali vogliano impedirle di candidarsi per eliminare il peronismo dalle elezioni politiche.

Come riporta El País, secondo l’ultimo sondaggio del Centro strategico latinoamericano di geopolitica (CELAG), la destra radicale è in testa nelle intenzioni di voto al primo turno con il 29,3%, mentre il 77% della popolazione valuta negativamente il governo peronista. L’attuale presidente, Alberto Fernández, ha rinunciato a ricandidarsi per dare ai propri militanti la possibilità di scegliere un candidato nelle primarie aperte, ma la coalizione di governo non ha ancora preso decisioni a riguardo.

Inoltre, il presidente e la vicepresidente hanno smesso di parlarsi quasi un anno fa e la gestione del lavoro di governo è passata, nei fatti, in mano al ministro dell’economia Sergio Massa, considerato il terzo pilastro della coalizione di governo.

Nel frattempo, il peronismo si aggrappa ad un’ultima speranza del suo leader. Il prossimo 25 maggio, il giorno dell’indipendenza dell’Argentina, Cristina Kirchner sarà di nuovo a capo di un evento pubblico.

La Turchia va al ballottaggio con Erdogan in testa

Nelle elezioni del 14 maggio né Erdogan né Kilicdaroglu hanno superato la soglia del 50% necessaria per evitare un secondo turno, che si terrà il prossimo 28 maggio. Il voto presidenziale deciderà non solo chi guiderà la Turchia, ma anche un possibile ritorno a un percorso più laico, come sarà gestita la grave crisi del costo della vita e le relazioni chiave con la Russia, il Medio Oriente e l’Occidente.

Erdogan ha ottenuto risultati migliori di quanto previsto dai sondaggi pre-elettorali ed è apparso in uno stato d’animo fiducioso e combattivo mentre si rivolgeva ai suoi sostenitori. «Siamo già in vantaggio sul nostro rivale più vicino di 2,6 milioni di voti. Ci aspettiamo che questa cifra aumenti con i risultati ufficiali», ha dichiarato Erdogan, secondo quanto riportato dalla Reuters.

Attualmente è stato scrutinato il 97% delle urne. I risultati vedono Erdogan in testa con il 49,39% dei voti, seguito da Kilicdaroglu con il 44,92%. Per festeggiare la posizione di vantaggio dell’attuale presidente, migliaia di elettori si sono riuniti nella sede del partito AKP ad Ankara, cantando, ballando e sventolando bandiere.

I risultati riflettono una profonda polarizzazione in un Paese che si trova a un bivio politico. Prima delle elezioni, i sondaggi indicavano una gara molto combattuta, ma davano Kilicdaroglu, a capo di un’alleanza di sei partiti, in leggero vantaggio.

Il Paese di 85 milioni di abitanti si trova ora ad affrontare due settimane di incertezza che potrebbero scuotere i mercati, con gli analisti che prevedono oscillazioni della valuta locale e del mercato azionario.

Un terzo candidato alle presidenziali, Sinan Ogan, si è attestato al 5,3% dei voti. Secondo gli esperti, potrebbe essere un “kingmaker” nel ballottaggio, a seconda di chi appoggerà.

La scelta del prossimo presidente turco è una delle decisioni politiche più importanti nella storia centenaria del Paese e si ripercuoterà ben oltre i confini della Turchia.

Una vittoria di Erdogan, uno dei più importanti alleati del presidente Vladimir Putin, probabilmente rallegrerà il Cremlino, ma innervosirà l’amministrazione Biden e molti leader europei e mediorientali che hanno avuto rapporti difficili con Erdogan.

Il leader più longevo della Turchia ha trasformato il Paese, membro della NATO e secondo più grande d’Europa, in un attore globale, modernizzandolo con numerosi progetti come nuovi ponti e aeroporti, e costruendo un’industria delle armi ricercata da Stati stranieri. Tuttavia, la sua politica economica di bassi tassi di interesse, che ha innescato una crisi del costo della vita e una forte inflazione, lo ha reso preda della rabbia degli elettori.

Kilicdaroglu si è impegnato a tornare a politiche economiche ortodosse, a dare potere alle istituzioni che hanno perso autonomia sotto Erdogan e a ricostruire i fragili legami con l’Occidente. Migliaia di prigionieri politici e attivisti potrebbero essere rilasciati se l’opposizione dovesse prevalere.

Venezuela: il rimpatrio in un paese non migliore, ma diverso

Tra i migliaia di Venezuelani che stanno tornando in patria dopo la crisi degli anni scorsi, c’è un ragazzo che ricorda al País un episodio che nella tragedia venezuelana è conosciuto come Dakazo. Il presidente del Venezuela Nicolás Maduro ha ordinato di abbassare i prezzi in un negozio di elettrodomestici chiamato Daka e la gente si è accalcata per acquistare per un tostapane o un asciugacapelli.

Il ragazzo che si rivolge al quotidiano è tornato in Venezuela nel 2023, dopo che quasi per otto anni ha vissuto in Cile. «Se mi va male ci torno, ma non è il mio piano che mi vada male. So dove sono venuto, non ho alcuni obiettivo strategico finanziario. Torno per motivi emotivi e personali», racconta al telefono.

Il governo venezuelano riportava per la fine del 2022 appena 31.000 rientrati con il cosiddetto Piano Vuelta a la Patria che dalla pandemia ha predisposto voli per il ritorno dei cittadini venezuelani, e con ciò ha alimentato la narrativa sulla ripresa del paese. Circa 6 milioni di persone hanno lasciato il Venezuela tra il 2017 e l’inizio della pandemia.

Una 34enne venezuelana, anche essa ritornata dal Chile, dice: «è emersa l’autogestione e nessuno si aspetta più nulla. Come a casa mia, che non arriva acqua da quattro anni ma ora si chiama l’autocisterna e ogni famiglia risolve allo stesso modo».

Secondo loro, il paese sta attraversando un periodo di cambiamenti. Scelgono di tornare in una Venezuela più diseguale e cara, in cui la dollarizzazione e il lavoro da remoto consentono loro di stabilirsi dignitosamente.

La dollarizzazione del paese è il principale cambiamento che si percepisce. A un ragazzo che è emigrato a Lima, in Perù, nel 2016, non gli era consentito avere dollari senza autorizzazione del Governo, perché questo costituiva reato. Oltre al suo lavoro da tassista, ha in programma di allestire un chiosco per arrotondare il reddito. «Sono entusiasta del ritorno, non ho pensato alla possibilità di tornare in Perù. Sì, qui lavoro moltissimo. Esco alle 3 o 4 del mattino per strada a lavorare sì o sì ogni giorno devo fare dollari», dice durante una pausa nella sua giornata lavorativa.

Come riporta il quotidiano spagnolo, questo flusso coincide con l’inasprimento delle restrizioni in diversi paesi della regione che inizialmente avevano aperto le loro porte, illudendo ad una ripresa economica del Venezuela a partire dalla revoca di alcuni controlli imposti dal governo chavista e l’avanzamento della dollarizzazione, ciò al pari dell’inflazione e della svalutazione della moneta.

«La situazione è diventata molto difficile per i venezuelani negli ultimi mesi che vengono deportati in Cile e Perù e al confine con gli Stati Uniti. Sono in una sorta di mancanza di protezione e sono nel gioco politico di alcune élite che usano il tema migratorio dando segnali di xenofobia per cercare di aumentare la loro popolarità», dice Anitza Freties, che sta per pubblicare i risultati di uno studio che anticipa le sfide di reintegrazione che potrebbero implicare un ritorno su larga scala.

Eurovision: cosa è accaduto durante la finale

L’Eurovision Song Contest 2023 è stato vinto per la seconda volta dalla svedese Loreen, con la canzone “Tattoo”. Dopo il primo posto nel 2012, Loreen è la seconda persona e la prima donna a vincere due volte l’Eurovision. «Sono così grata, non pensavo sarebbe successo», ha dichiarato alla stampa poche ore dopo la fine del contest. Ciò vuol dire che la Svezia ospiterà la competizione il prossimo anno, in occasione anche del 50° anniversario della storica vittoria degli Abba nel 1974 con la canzone “Waterloo”.

Gli altri concorrenti a salire sul podio sono stati la Finlandia, che con il brano “Cha Cha Cha” dei Käärijä si è aggiudicata il secondo posto, e Israele, che si è posizionata terza con la canzone “Unicorn” di Noa Kirel. Quarto posto per l’Italia, con “Due Vite” di Marco Mengoni e quinto per la Norvegia, con “Queen of Kings” di Alessandra. Gli ultimi tre classificati, invece, sono stati Serbia, Germania e Regno Unito.

All’Ucraina, vincitrice dell’edizione precedente, è spettato il sesto posto, con “Heart of Steel” del duo Tvorchi. Numerose sono state le iniziative di solidarietà rivolte al paese che, a causa della guerra in corso con la Russia, quest’anno non ha potuto ospitare il festival canoro. Nonostante la riconquista del territorio a Bakhmut avvenuta nelle ultime settimane, l’Ucraina ha continuato a subire attacchi anche durante il contest.

In particolar modo, mentre si svolgeva la finale, la città natale dei Tvorchi, Ternopil, è stata colpita da missili russi, poco prima che il gruppo salisse sul palco. Dopo l’esibizione, i Tvorchi hanno aggiunto: «Ternopil è il nome della nostra città natale, che è stata bombardata dalla Russia mentre cantavamo sul palco. Questo è un messaggio per tutte le città dell’Ucraina che vengono bombardate ogni giorno. Europa, unisciti contro il male per il bene della pace!»

Secondo la BBC, il capo dell’amministrazione regionale di Ternopil, Volodymyr Trush, ha confermato che due persone sono rimaste ferite, mentre il sindaco della città, Serhiy Nadal, ha dichiarato che alcuni magazzini sono stati danneggiati. Anche il Ministero degli Esteri ucraino ha accusato la Russia di aver attaccato Kiev e Ternopil sia prima che durante l’esibizione dei Tvorchi, mentre dalla Russia non si hanno ancora conferme riguardo l’accaduto.

Ucraina: le forze armate ucraine rioccupano il territorio di Bakhmut

Dopo mesi di progressi russi, l’Ucraina ha dichiarato di aver riconquistato il territorio di Bakhmut. Secondo le parole del viceministro della Difesa Hanna Malyar, le forze ucraine sono avanzate di due chilometri in una settimana. Dall’altro lato, attraverso un messaggio su Telegram, il ministero della Difesa russo ha dichiarato che le notizie riportate non corrispondono alla realtà e che «la situazione generale nella zona di operazioni militari speciali è sotto controllo.»

Dall’inizio della guerra, Bakhmut ha assunto un’importanza simbolica per la Russia, anche se molti esperti ne mettono in dubbio l’effettivo valore tattico. Fino ad ora, il territorio è sempre stato sotto il controllo dell’esercito russo, ma lo stesso gruppo Wagner ha ammesso la difficoltà dell’operazione militare e ha accusato le truppe regolari russe di aver abbandonato le posizioni sul fronte della città.

Dopo mesi di stallo, grazie anche all’incremento di armi da parte dell’Occidente, l’Ucraina è pronta per la controffensiva. Solo nelle ultime settimane, l’esercito ucraino ha effettuato circa quattordici attacchi contro le forze e le attrezzature militari russe e distrutto nove droni nemici. Nonostante ciò, il presidente Volodymyr Zelensky sostiene che non sia ancora il momento giusto per agire. «Con ciò che abbiamo possiamo andare avanti e, credo, avere successo, ma perderemmo molte persone. Penso che sia inaccettabile. Quindi dobbiamo aspettare. Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo», ha dichiarato in un’intervista.

Secondo la BBC, nonostante le parole del presidente, il corrispondente di guerra filo-Cremlino Sasha Kots ha affermato che la controffensiva è già iniziata: «Ci sono caricatori bassi nelle colonne che trasportano modelli di carri armati occidentali. In altre parole, Kiev ha deciso di aggravare la situazione lungo il fronte settentrionale in parallelo con l’inizio delle azioni offensive sul confine di Bakhmut.» Alexander Simonov, un altro corrispondente di guerra russo, ha scritto su Telegram che le forze ucraine hanno guadagnato diversi chilometri nei pressi del villaggio di Bohdanivka, proprio vicino a Bakhmut.

L’analista militare Oleksandr Musivenko sostiene che una controffensiva anticipata potrebbe non sconfiggere la Russia e la probabilità che la guerra continui anche l’anno prossimo è abbastanza alta. Secondo le sue parole alla radio ucraina NV, dipenderà tutto da come si svilupperanno le prossime battaglie.

Come l’Ecuador trasforma l’Amazzonia in una zona cancerogena

Nel 2019, nove ragazze nell’Amazzonia ecuadoriana avevano denunciato la constante combustione di gas naturale in cui vengono utilizzati artefatti metallici. Nell’agosto del 2021, una sentenza gli ha dato ragione e ha costretto le compagnie petrolifere a chiudere le aree popolate più vicine entro marzo 2023, ma ad oggi ciò non è avvenuto.

La combustione di gas emette milioni di tonnellate di CO2 nell’atmosfera ed è uno delle maggiori cause del cambiamento climatico. Il gas naturale brucia a una temperatura di circa 400 gradi Celsius, come parte dell’estrazione del greggio. Le imprese furono inizialmente installate dalla multinazionale Chevron-Texaco negli anni ’60 e da allora si sono moltiplicati, principalmente nella zona di Sucumbíos e Orellana.

Gli effetti sulla salute sono devastanti, soprattutto per le donne. L’Unión de Afectados por Chevron-Texaco(Udatp) e la Clinica Ambientale registrano da anni casi di tumori in entrambe le cittadine. Come riporta El País sono stati registrati, in una zona di appena 170.000 abitanti, 451 casi di cancro, il 71% dei quali nelle donne, generalmente colpite all’utero.

«Abbiamo visto bambini malati e molte donne morire a causa dell’attività petrolifera», lamenta il coordinatore della Udatp Donald Moncayo, padre di una delle giovani attiviste.

Il responsabile della Clinica Ambientale, il dottor Adolfo Maldonado, sostiene che le cifre sono le più alte in proporzione di tutto il continente latinoamericano. Ciononostante, dopo la sentenza del 2021, l’impresa di idrocarburi Petroecuador ha annunciato di aver spento un centinaio di bruciatori, ma i vicini della zona affermano che questi «erano già in disuso».

«Il governo ecuadoriano intende trasformare l’Amazzonia in una zona di sacrificio, dare via libera all’estrattivismo selvaggio, sotto le direttive del Nord del Pianeta», dice in un’intervista rilasciata all’America Futura Antonio Sánchez Gómez, un avvocato spagnolo che sosteneva le nove ragazze. L’avvocato mostra una certa preoccupazione per le donne che vengono colpite dal cancro, come sua zia e sua cugina, che devono spostarsi a Quito per farsi curare, perché per le autorità dell’Ecuador non c’è cancro in Amazzonia, e di conseguenza non ci sono neanche centri oncologici.

La sentenza che obbliga i bruciatori a spegnersi è stata storica per due fattori: prima di tutto, a presentare l’azione di protezione sono state nove minorenni di 15 anni e poi perché lo Stato ecuadoriano ha sostenuto l’accusa.

14 maggio: la Turchia al voto

Le elezioni parlamentari e presidenziali che si terranno in Turchia il 14 maggio rappresentano un punto di svolta storico: scegliere tra due candidati che offrono percorsi molto diversi per il futuro del paese.

Da un lato, l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, a capo del partito conservatore Akp e al potere da ormai 20 anni, promette una Turchia multilaterale, la creazione di sei milioni di posti di lavoro e accusa gli oppositori di essere pro-LGBT, mentre il suo partito di matrice islamica si posizione dalla parte della famiglia tradizionale.  

Dall’altro lato c’è Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Partito kemalista, fondato dal padre della Turchia moderna Kemal Atatürk. Tradizionalmente vicina ai valori occidentali e sostenuta da un’ampia opposizione di altri sei partiti, la linea politica di Kılıçdaroğlu promette di normalizzare i rapporti con la NATO, migliorare le relazioni con l’UE, ristabilire lo stato di diritto e riottenere la stampa libera.

In merito alle relazioni con la NATO, i due candidati mantengono posizioni diametralmente opposte. Durante gli anni di presidenza, Erdoğan ha cercato di stringere legami anche con la Cina e la Russia, acquistando un sistema difensivo aereo russo e inaugurando la prima centrale nucleare, di costruzione russa, prima delle elezioni.

Il suo avversario, invece, è intenzionato a riprendere il processo di adesione all’UE e ripristinare i legami militari della Turchia con gli Stati Uniti, pur mantenendo le relazioni con la Russia.

Secondo alcuni politici turchi, se Erdoğan vincerà nuovamente le elezioni continuerà a spingere la Turchia lontano dall’Occidente, senza lasciare la NATO ma arrivando al punto da renderne irrilevante l’appartenenza, come riportato dalla BBC.

La campagna politica portata avanti dai due partiti coinvolge anche il settore dell’economia. Nonostante l’iniziale crescita economica durante i primi tempi del governo di Erdoğan, attualmente, l’inflazione è pari al 43,68%.

Secondo Selva Demiralp, docente di economia all’Università di Koc, l’aumento dell’inflazione è dovuto al fatto che il governo reggente ha gradualmente eroso l’indipendenza della banca centrale. Di conseguenza, i tassi d’interesse sono stati mantenuti bassi, mentre la lira turca è stata svalutata per migliorare la bilancia commerciale e aumentare le esportazioni.

Se Kılıçdaroğlu vincerà le elezioni, la professoressa ritiene che il ritorno a politiche ortodosse e una banca centrale indipendente faranno scendere l’inflazione al 30% entro la fine del 2023, per poi continuare a scendere. Anche se ciò comporterà una crescita dei tassi d’interessa, la Turchia potrà godere di una forte crescita grazie agli investimenti stranieri.

Papa Francesco e il kirchnerismo: quando il governo voleva condannarlo alla galera

Il governo di Cristina Kirchner ha dato indicazioni a tre giudici affinché potessero condannare il pontefice, per un fatto risalente a quando era ancora l’arcivescovo di Buenos Aires.

Il Pontefice ha raccontato a 32 gesuiti i dettagli di una lunga dichiarazione giudiziaria alla quale fu sottoposto per il sequestro nel 1976 dei sacerdoti Orlando Yorio e Ferenc Jalics, accusati dai militari di aver avuto legami con la guerriglia.

Come riporta El Pais, il dialogo con i gesuiti è avvenuto il 29 aprile scorso ed è stato raccolto dalla rivista di gesuiti italiani La Civiltà Cattolica. Il pontefice confessa «alcuni componenti del governo volevano tagliarmi la testa e hanno tirato fuori non solo la questione di Jalics, ma hanno messo in dubbio tutto il mio modo di agire durante la dittatura».

«Mi hanno dato la possibilità di scegliere il luogo in cui condurre l’interrogatorio. Ho scelto di farlo nel palazzo episcopale. È durato 4 ore e 10 minuti. Uno dei giudici insisteva molto sul mio comportamento. Io rispondevo sempre dicendo la verità. Ma per me l’unica domanda seria e ben fondata era quella dell’avvocato che apparteneva al Partito Comunista. E grazie a questa domanda le cose si sono chiarite. Alla fine, la mia innocenza è stata provata. Ma in quel processo non si è parlato quasi nulla di Jalics, ma di altri casi di persone che avevano chiesto aiuto», ha detto il Papa, citato da La Civiltà Cattolica. «Quando Jalics e Yorio furono catturati dai militari, la situazione che si viveva in Argentina era confusa e non era affatto chiaro cosa si dovesse fare. Ho fatto quello che sentivo di dover fare per difenderli. È stata una situazione molto dolorosa», ha aggiunto.

Quando Bergoglio è stato eletto papa nel 2013 erano molti coloro che in Argentina ritenevano che non avesse fatto abbastanza per i detenuti scomparsi. Alcuni lo accusavano addirittura di complicità.

Il ruolo che l’allora arcivescovo ricopriva negli anni settanta fa parte di un ampio studio condotto dalla Chiesa Cattolica, che ha realizzato grazie ai molteplici archivi presenti nel palazzo episcopale di Buenos Aires e al Vaticano. Il risultato di questo lavoro, dal titolo «La verità li renderà liberi», è stato pubblicato quest’anno in due volumi (un terzo è in redazione). In una intervista con El Pais, il relatore della ricerca Carlos Marìa Galli, ha detto che «la Chiesa avrebbe dovuto fare di più per evitare così tante uccisioni», ma ha negato che ci fosse stata complicità da parte del pontefice. Sulla persona di Bergoglio, ha detto che gli attacchi contro di lui erano un pò armati perchè funzionali al governo di turno, ovvero a quello di Cristina Kirchner. Infatti quando lo considerarono un avversario, cominciarono ad attaccarlo.

Papa Francesco ha continuato il suo racconto ai gesuiti affermando che «i padri Jalics e Yorio sono stati fatti prigionieri, ma erano innocenti. Non trovarono nulla con cui accusarli, ma dovettero scontare nove mesi di carcere, subendo minacce e torture. Poi sono stati liberati, ma queste cose lasciano ferite profonde. Jalics è venuto a trovarmi immediatamente, e abbiamo chiacchierato. Gli ho consigliato di andare da sua madre negli Stati Uniti. La situazione era davvero troppo incerta e confusa. Poi nacque la leggenda che ero stato io a consegnarli in prigione». Per concludere il suo discorso con i gesuiti ungheresi li mandò a leggere «La verità li renderà liberi»: “Lì potrete trovare la verità su questo caso”.

La Siria è stata reintegrata nella Lega Araba

Lo scorso 7 maggio, nella sede della Lega Araba al Cairo, si è tenuta la votazione per revocare la sospensione della Siria, dopo un lungo periodo di isolamento. La decisione è avvenuta prima del vertice della Lega Araba in Arabia Saudita, programmato per il prossimo 19 maggio, nel quadro del processo di normalizzazione regionale dei legami con Damasco.

L’adesione della Siria alla Lega Araba era stata revocata dopo che il presidente Bashar al-Assad aveva ordinato la repressione dei manifestanti nel 2011. Successivamente il Paese è precipitato in una guerra civile, che ha provocato quasi mezzo milione di morti e 23 milioni di sfollati.

Il voto ha avuto luogo a seguito di un incontro dei diplomatici di Egitto, Iraq, Arabia Saudita e Siria in Giordania la scorsa settimana. Durante il vertice, il processo per riportare Damasco all’interno della Lega è stato rinominato “Iniziativa giordana”.

Rispondendo alla domanda riguardo alla possibilità di al-Assad di partecipare al vertice in Arabia Saudita, Aboul Gheit, il segretario generale della Lega Araba, ha detto: «se vuole, perché la Siria, da questa sera, è membro a pieno titolo della Lega Araba, e da domani mattina ha il diritto di occupare qualsiasi posto».

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, il ministro degli Esteri siriano ha affermato che gli Stati arabi dovrebbero perseguire «un approccio efficace basato sul rispetto reciproco». Inoltre, ha anche sottolineato «l’importanza del lavoro congiunto e del dialogo per affrontare le sfide».

Le diverse fazioni siriane hanno espresso reazioni contrastanti alla decisione della Lega Araba. La riammissione è stato uno “shock” per i siriani e «potrebbe uccidere il processo politico», ha detto Bader Jamous, segretario generale della Coalizione siriana dell’opposizione nei colloqui di pace delle Nazioni Unite.

L’opposizione è stata per anni sostenuta da Paesi che ora sostengono la normalizzazione, tra cui l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Scrivendo su Twitter, Jamous ha affermato che gli oppositori di Assad «non sono stati consultati» sulle decisioni della Lega Araba.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, la Syria Campaign, che si batte per le vittime di violazioni dei diritti in Siria, ha affermato che la mossa di domenica «invia un messaggio agghiacciante» e ha messo «un ultimo chiodo nella bara delle speranze di libertà e democrazia della primavera araba».

Altre sono state più positive. Il Consiglio democratico siriano, l’organo politico che governa le regioni semi-autonome del nord-est della Siria, ha dichiarato di aver «accolto con favore» la decisione di revocare la sospensione della Siria.

Paraguay: Santiago Peña vince le elezioni

Domenica 30 aprile il colorado Santiago Peña ha raggiunto quasi il 43% a fronte del 27,4% di Efraín Alegre, che guidava una coalizione di centro-sinistra.

Per celebrare la vittoria il presidente eletto ha ringraziato coloro i quali hanno creduto nel progetto del partito e hanno riposto in lui le loro speranze per un futuro migliore.

Secondo quanto riporta la BBC, Peña ha aggiunto «dopo gli ultimi anni di stagnazione economica, alto deficit fiscale, alto tasso di disoccupazione e aumento della povertà estrema, non è solo lavoro per una persona o un partito. Per questo convoco l’unità e il consenso, per la prosperità senza esclusioni».

Per quanto concerne la sconfitta di Alegre, il candidato di sinistra conferma di aver fatto uno sforzo importante, insieme alla sua coalizione, ma ammette che i risultati hanno dimostrato che ciò non è bastato.

Quindi, il Partito Colorado continuerà a governare il paese, come ormai accade da più di 70 anni quasi ininterrottamente.

Secondo quanto riporta El País, una delle diverse ragioni che hanno portato Peña a vincere le elezioni è stata la decisione del Partito Colorado di dirimere le sue lotte intestine una volta al potere. La lotta tra Cartes e l’attuale presidente, Mario Abdo Benítez, capi di due correnti opposte, sarà risolta con Peña alla presidenza.

In Paraguay le elezioni sono definite in un solo turno, il voto è obbligatorio e la rielezione non è consentita, pertanto l’attuale presidente non ha potuto beneficiare di un nuovo mandato di cinque anni.

Abdo Benítez, con un tweet nel suo profilo, fa le sue congratulazioni al popolo paraguaiano e al neo presidente, aggiungendo: «lavoreremo per avviare una transizione ordinata e trasparente, che rafforzi le nostre istituzioni e la democrazia del paese».

L’incoronazione di re Carlo III

L’incoronazione di re Carlo III avvenuta sabato 6 maggio 2023 ha registrato un’audience televisiva di oltre 20 milioni di spettatori. Si è trattato dell’evento più seguito dell’anno, anche se il pubblico che ha assistito in presenza alla cerimonia reale era inferiore rispetto ai 29 milioni di cittadini che avevano seguito in diretta i funerali della regina Elisabetta II.

La giornata è iniziata con la processione della Diamond Jubilee State Coach, la carrozza reale trainata da sei cavalli, che ha trasportato Carlo e Camilla all’Abbazia di Westminster. La cerimonia d’incoronazione, la prima dopo 70 anni, è durata circa due ore e si è conclusa con il grido solenne “God save the King.”

Durante la celebrazione sono stati utilizzati diversi gioielli della Corona, tra cui il globo crocigero, simbolo della fede del monarca in quanto governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra, le cinque spade di Stato e la corona di sant’Edoardo. Il nuovo re, inoltre, è stato unto con oli sacri dall’arcivescovo di Canterbury. Il momento dell’unzione fa parte di una delle tradizioni tipiche della famiglia reale e avviene a porte chiuse perché è considerato un incontro intimo tra il sovrano e Dio.

La cerimonia, pur conservando i riti tradizionali, è stata considerata una delle più moderne della storia e ha posto l’accento sulla diversità e l’inclusione. Sono stati considerati, infatti, un numero di elementi multireligiosi maggiore rispetto a qualsiasi altra incoronazione precedente, con contributi di rappresentanti ebrei, musulmani, buddisti e sikh. Inoltre, nella sua prima preghiera dopo aver raggiunto l’abbazia, il re ha esordito con: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire.»

Il re e la regina si sono poi diretti verso Buckingham Palace a bordo della Gold State Coach, la stessa carrozza dorata utilizzata per l’incoronazione di Elisabetta II. Una volta giunti a destinazione, hanno salutato la folla dal balcone del palazzo, mentre le Frecce Rosse della Royal Air Force coloravano il cielo di rosso, bianco e blu.

Secondo i dati ufficiali della BBC, in totale hanno partecipato alla cerimonia 2.300 persone, tra cui 90 capi di stato. Tra gli ospiti dell’abbazia, c’erano il presidente francese Emmanuel Macron, la first lady statunitense Jill Biden, la first lady ucraina Olena Zelenska, il primo ministro Rishi Sunak e i leader dei paesi del Commonwealth.

Per la prima volta, inoltre, sono stati invitati anche personaggi più “popolari”, come ulteriore dimostrazione di modernità. Erano presenti l’attrice Emma Thompson e la cantante statunitense Katy Perry, che si è esibita al concerto organizzato la sera stessa dell’incoronazione. Diversi cantanti pop britannici, invece, hanno rifiutato l’invito per non essere associati alla corona dopo gli avvenimenti che hanno coinvolto Harry e Megan.

Lo sfruttamento minorile nella catena di fast food McDonald’s

El Pais riporta il primo paragrafo di un comunicato del Governo: «Lavorare in una cucina fino a tarda notte vicino ad attrezzature pericolose è una realtà per molti adulti del settore della ristorazione, ma trovare bambini di dieci anni in questo ambiente di lavoro è motivo di preoccupazione e di iniziativa da parte del Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti d’America».

I risultati dell’ispezione hanno portato a scoprire che più di 300 minori, tra cui quelli di dieci anni, si trovano a lavorare nei locali del Kentucky e in altri stati americani, «in chiara violazione delle leggi federali sul lavoro», secondo la dichiarazione rilasciata dal Dipartimento del Lavoro.

Sono comuni gli episodi di lavoro minorile, specialmente tra minori migranti, come già denunciato dal quotidiano New York Times a febbraio. Tuttavia, la presenza di due bambini di 10 anni costituisce l’episodio più grave di sfruttamento minorile.

La sanzione prevista per tre franchising di McDonald’s in Kentucky ammonta a 212.000 dollari, per aver violato la legislazione federale. Uno di questi, che aveva in gestione 10 locali, sfruttava 24 minori con meno di 16 anni, facendoli lavorare più ore rispetto a quelle previste dalla legge.

I minori di 10 anni si occupavano di preparare e servire il cibo, pulire i tavoli, gestire lo sportello self-service e il registratore di cassa. Mansioni che effettuavano senza essere pagati e allungando la giornata lavorativa fino alle 2 della notte. Inoltre, a uno dei due bambini permettevano di utilizzare la friggitrice, un compito proibito ai lavoratori minori di 16 anni.

Un altro franchising, dal quale dipendono 27 ristoranti fast food, permetteva a 242 minori tra i 14 e i 15 anni di lavorare più ore rispetto a quelle permesse. La maggior parte lavorava più tardi o più presto rispetto all’orario di lavoro stabilito dalla legge. Per questa trasgressione, è stata pagata una multa di 143.566 dollari. Il terzo franchising, situato in Maryland, Indiana e Kentucky ha impiegato 39 lavoratori minorenni, anche loro in giornate lavorative più lunghe rispetto a quanto consentito. La sanzione del terzo franchising ammonta a 29.267 dollari, alla quale si è aggiunta un’altra di quasi 15.000 dollari, per non aver pagato gli straordinari a 58 dipendenti.

Il comunicato non specifica la nazionalità o le origini dei minori sfruttati, tuttavia, in base alle informazioni della rivista americana, potrebbero trattarsi di migranti soli o anche accompagnati che contribuiscono ad aiutare le loro famiglie.

Il responsabile dell’ufficio che si occupa delle indagini dichiara nel comunicato: «Un minorenne che va incontro a un incidente sul lavoro è inaccettabile. Le leggi sul lavoro minorile esistono per garantire che quando i giovani lavorano, ciò non metta in pericolo la loro salute, il benessere o l’educazione.»

Sudan: secondo il capo dell’intelligence statunitense i combattimenti proseguiranno ancora

Gli Stati Uniti si aspettano che i combattimenti tra i due capi militari in Sudan continuino. Gli attori coinvolti non sembrano avere sufficienti motivazioni per giungere a un accordo di pace.

Lo scorso giovedì 4 maggio, in un incontro al Senato, Avril Haines ha affermato: «Riteniamo che il combattimento in Sudan tra le Forze Armate e le Forze di Supporto Rapido (RSF) si protrarrà ancora. Questo perché entrambe le parti credono di poter vincere militarmente e hanno pochi incentivi per sedersi al tavolo dei negoziati».

«Entrambe le parti stanno cercando fonti di sostegno esterne. Queste, in caso di successo, probabilmente intensificheranno il conflitto e creeranno maggiori ricadute nella regione», ha affermato Haines.

Il massimo funzionario dell’intelligence statunitense ha evidenziato come i combattimenti abbiano esacerbato le già terribili condizioni di vita della popolazione. Questa situazione porta da una parte alla necessità di fornire ingenti aiuti umanitari e dall’altra allo spettro di un cospicuo flusso di rifugiati.  

I combattimenti sono continuati a Khartoum per il ventesimo giorno consecutivo, dopo il fallimento dell’ultimo cessate il fuoco. Entrambe le parti sembrano lottare per il controllo del territorio della capitale prima di ogni possibile negoziato.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, giovedì alcuni dei combattimenti si sono concentrati intorno al palazzo presidenziale. Pesanti bombardamenti si sono verificati anche nelle vicine città di Omdurman e Bahri.

Nel frattempo, le Nazioni Unite hanno sollecitato le fazioni in guerra al fine di garantire il passaggio sicuro degli aiuti umanitari. Durante le settimane precedenti, infatti, sei camion sono stati saccheggiati. Il coordinatore dei soccorsi di emergenza delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, spera che si possano svolgere incontri faccia a faccia con entrambe le parti entro i prossimi due o tre giorni. L’obiettivo è ottenere garanzie per il convoglio sicuro degli aiuti.

L’Onu ha avvertito che i combattimenti tra l’esercito e le RSF, scoppiati lo scorso 15 aprile, rischiano di provocare una crisi umanitaria che potrebbe estendersi anche ad altri Paesi. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha affermato che si sta preparando a un flusso di 860.000 persone dal paese nordafricano. Sono stati stanziati altri 445 milioni di dollari al fine di offrire loro il sostegno necessario.

Lo scorso martedì il Sudan ha dichiarato che 550 persone sono morte e 4.926 sono rimaste ferite nel conflitto. Secondo le Nazioni Unite, circa 100.000 persone sono fuggite dal Sudan con poco cibo o acqua verso i paesi vicini.

Portogallo: sparatoria a Setúbal

La scorsa domenica, quattro persone tra i 50 e i 60 anni sono state uccise a Setúbal, una città a 50 chilometri a sud di Lisbona, a causa di una sparatoria avvenuta nel quartiere di Bela Vista. Una delle vittime è l’autore del delitto, il quale si è tolto la vita prima dell’arrivo della Policía de Seguridad Pública (PSP). «Tutto indica che si tratta di una situazione isolata, con un problema irrisolto tra le due parti, e che non ha nulla a che fare con i problemi del quartiere», ha dichiarato alla stampa il commissario di polizia Andreia Gonçalves.

Il quartiere Bela Vista è una zona con alti livelli di povertà, disoccupazione e scarsa sicurezza pubblica, in cui gli abitanti vivono principalmente di agricoltura e allevamento. Qui, la maggior parte delle persone è proprietaria di baracche e svolge attività agricole illegali. La polizia giudiziaria, che si è occupata delle indagini, non ha ancora fornito spiegazioni ufficiali per chiarire i motivi dell’incidente, ma alcuni media portoghesi suggeriscono che le cause siano dovute a disaccordi legati all’allevamento di piccioni.

Secondo il quotidiano portoghese Público l’origine della disputa risiederebbe in una controversia di lunga data tra vicini, che riguarda sia l’allevamento di piccioni viaggiatori sia discussioni legate al denaro e alla distribuzione di terreni incolti nei pressi dell’area urbanizzata nota come Bairro Azul. I litigi sarebbero iniziati a causa dei rimproveri delle vittime all’aggressore dopo che i cani di quest’ultimo avevano mangiato alcuni dei loro piccioni. Questo sarebbe stato l’evento scatenante che ha portato l’individuo ad aprire il fuoco con un fucile da caccia. L’arma è stata trovata vicino ai corpi delle vittime.

Secondo il quotidiano El País, questo caso arriva un mese dopo un altro avvenimento verificatosi sempre a Lisbona, presso il centro comunitario Aga Khan. Abdul Bashir, un rifugiato di 29 anni, ha ucciso due donne dell’istituzione comunitaria con un coltello. L’indagine della polizia ha da subito escluso qualsiasi legame con il terrorismo e ha sottolineato i problemi psicologici dell’aggressore derivanti dall’allontanamento dal suo paese d’origine e dalla perdita della moglie, morta in un campo profughi in Grecia.

Francia: continuano le manifestazioni contro la riforma delle pensioni

Dall’inizio di gennaio, migliaia di cittadini francesi hanno protestato in massa contro la riforma promossa dal governo di Emmanuel Macron, che innalza l’età pensionabile da 62 a 64 anni. Approfittando delle tradizionali manifestazioni del primo maggio, i cittadini si sono riuniti ancora una volta per far sentire la propria voce. Secondo il Ministero dell’Interno di Parigi, sono scese in piazza più di 700.000 persone, mentre i sindacati stimano un’affluenza di più di 2 milioni.

Si è trattato del tredicesimo giorno di mobilitazione contro la nuova riforma. In particolare, le manifestazioni e i disordini si sono intensificati quando il governo ha deciso di approvare la riforma senza metterla ai voti, basandosi sull’articolo 49.3 che aggira il voto dell’Assemblea nazionale e per cui non è necessario raggiungere la maggioranza. Da allora, i sindacati hanno continuato a mobilitare la popolazione e la popolarità del governo è diminuita drasticamente.

Le manifestazioni si sono svolte nelle principali città francesi, quali Parigi, Lione, Nantes, Tolosa e Besançon. Inoltre, durante diversi cortei, si sono verificati scontri diretti tra manifestanti e polizia, che ha utilizzato gas lacrimogeni per placare la folla. Secondo il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, circa 406 agenti di polizia e 61 manifestanti sono stati feriti, mentre più di 500 persone sono state arrestate.

Secondo RTVE, a Parigi, dove il corteo è iniziato alle 14 ora locale da Place de la République verso Place de la Nation, i primi incidenti si sono verificati meno di un’ora dopo dall’inizio della manifestazione. Tra i vari danni riportati si contano vetrine di negozi e banche infranti e incendi di arredi urbani. La prefettura locale ha annunciato che alle 15 ora locale erano già stati eseguiti 30 arresti.

In un’intervista al canale francese BFMTV, Darmanin ha criticato duramente il leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon per non aver condannato gli attacchi alle forze dell’ordine. Dall’altro lato, il leader della Confederazione francese democratica del lavoro (CFDT), Laurent Berger, e la segretaria generale della Confederazione generale del lavoro (CGT), Sophie Binet, hanno dichiarato che non smetteranno di chiedere l’annullamento della riforma pensionistica.

In particolare, Berger sostiene che è inutile organizzare altri cortei, poiché questi non porteranno alla rinuncia della nuova riforma. Al tempo stesso, ritiene necessario continuare a mostrare il proprio malcontento. «È necessario chiarire che la legge è stata promulgata. I lavoratori non devono farsi ingannare: non convinceremo il governo a fare marcia indietro con una manifestazione, ma non staremo zitti e mostreremo il nostro malcontento».

Joe Biden apre nuovi centri per l’immigrazione in Colombia e Guatemala

Giovedì 27 aprile il governo del presidente Joe Biden ha annunciato l’apertura di centri per l’immigrazione in Colombia e in Guatemala. Con questa mossa le autorità statunitensi cercano di evitare l’aumento del flusso dei migranti nella frontiera meridionale.

Secondo quanto dichiarato dalla BBC, il segretario della Sicurezza Nazionale Alejandro Mayorkas, ha annunciato che i centri saranno in funzione nelle settimane seguenti, con la speranza di poterne aprire altri in diversi paesi dell’America Latina, come in Ecuador e in Costa Rica. Il segretario ha dichiarato che il numero dei migranti in entrata in questi centri potrebbe aggirarsi tra i 5000 e i 6000 ogni mese.

L’opposizione repubblicana di Donald Trump accusa Mayorkas di essere la causa di un’invasione di migranti dal confine con il Messico. Secondo quanto riporta El Pais, negli Stati Uniti i migranti sono utili per coprire i posti di lavoro vacanti, ma alcuni repubblicani vedono in loro una causa dell’aumento della delinquenza.

L’idea del governo è quella di tagliare fuori i trafficanti, cercando di contattare direttamente i migranti per evitare che possano mettersi in pericolo nel percorso fino agli Stati Uniti.

I centri per l’immigrazione saranno gestiti da organizzazioni internazionali che si occuperanno di verificare i requisiti dei migranti per entrare negli Stati Uniti. Ciò permetterà loro di essere indirizzati verso un campo per rifugiati o di ottenere l’ammissione al paese per fini di lavoro. Si tratta di organismi come l’Agenzia ONU per i Rifugiati o l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

Le autorità statunitensi hanno segnalato che l’apertura di questi centri è una delle molteplici soluzioni che stanno progettando per gestire l’immigrazione e che amplieranno il programma di riunificazione familiare, già in funzione per cubani e haitiani, ai cittadini del Guatemala, della Colombia, dell’Honduras e di El Salvador.

Al pari di queste iniziative, le autorità statunitensi prenderanno provvedimenti per chi non si comporterà in modo opportuno. Per esempio, proibiranno, a chi dovesse superare la frontiera illegalmente, a richiedere asilo o espelleranno dagli USA chi non dovesse dimostrare un motivo valido per rimanere nel paese: regole che non consentiranno ai migranti l’entrata negli Stati Uniti per cinque anni.

Liverpool si prepara ad accogliere l’Eurovision 2023

La 67ª edizione dell’Eurovision Song Contest avrà inizio martedì 9 maggio 2023 presso la Liverpool Arena a Liverpool. La manifestazione si svolgerà per la nona volta in terra britannica dopo che l’Ucraina, vincitrice dell’edizione precedente, è stata dichiarata non in grado di ospitare il concorso a causa dell’invasione russa a tutt’oggi in corso. Per mostrare vicinanza all’Ucraina, la città sta organizzando diversi progetti di solidarietà.

Uno di questi porta l’hashtag #HelpUkraineSong e mira a unire il mondo attraverso la musica. Lo scopo è quello di convincere quante più persone possibili a cantare la canzone With a Little Help From My Friends dei Beatles alle ore 12 di sabato 13 maggio. Chiunque ha la possibilità di filmarsi mentre esegue la canzone e potrà caricarla sui vari social media. L’idea è partita da Valerie Bounds, cofondatrice e direttrice di un’agenzia creativa a Liverpool, che dichiara: «Mi è venuta questa idea mentre guardavo una persona che suonava il pianoforte alla stazione di Euston, durante il periodo natalizio e ho pensato che sarebbe stato meraviglioso realizzare un momento così incredibile in uno spazio pubblico. Sono una grande fan dell’Eurovision e ho lavorato come volontaria per i rifugiati ucraini, di conseguenza tutto questo si è fuso insieme». Secondo il The Guardian, il denaro raccolto da #HelpUkraineSong sarà devoluto a War Child, un ente di beneficenza rivolto ai bambini colpiti dai conflitti.

Un’altra importante iniziativa riguarda l’organizzazione dell’EuroFestival, un festival artistico che precederà l’inizio del contest vero e proprio e che comprende diverse installazioni sparse in tutta la città. Una di queste è il “Protect the Beats”, che vedrà il monumento Nelson circondato da 2.500 sacchi di sabbia, per replicare il modo in cui i monumenti in Ucraina vengono avvolti per proteggerli dai bombardamenti. Intorno al monumento, verrà proiettato un documentario sull’importanza della musica in Ucraina, con canti dei soldati sul fronte e canti nelle stazioni della metropolitana di Kiev. Un altro dei progetti compresi nel festival è il “Soloveiko Songbird”, ossia una serie di grandi sculture di usignoli illuminati sparsi in tutta la città, in rimando al fatto che l’usignolo è l’uccello nazionale dell’Ucraina. Quest’ultima installazione è realizzata in collaborazione con la piattaforma di raccolta fondi United 24 del presidente Zelensky, il Ministero della Cultura ucraino e War Child.

Germania: aumentano le proteste contro il cambiamento climatico

In Germania le proteste contro il cambiamento climatico sono sempre più numerose. Solo nelle ultime settimane si sono verificate alcune delle manifestazioni più intense del gruppo Letze Generation, con centinaia di membri che hanno bloccato decine di strade nell’ora di punta a Berlino. L’obiettivo principale del gruppo attivista è quello di evidenziare l’imminenza di una catastrofe climatica e di fare pressione sul governo affinché intervenga in modo più incisivo, soprattutto riguardo l’uso dei combustibili fossili.

Le richieste principali sono due: la prima è l’istituzione di un consiglio popolare, composto da 150 membri, che crei idee realistiche per affrontare l’emergenza e le presenti in parlamento; la seconda è l’introduzione del limite di velocità a 130 km/h sulle autostrade. Carla Hindrichs, portavoce del gruppo, ha dichiarato: «Non lo facciamo per divertimento, ma perché possiamo vedere degli esempi nella storia che l’azione dirompente può essere il tipo di azione più efficace. Siamo come un allarme antincendio, fastidioso ma necessario».

Dall’altro lato, però, le proteste creano non pochi disagi alla viabilità stradale, soprattutto quando ci sono emergenze in corso. A tal proposito, i rappresentanti della polizia, i membri della magistratura e diversi politici chiedono pene più severe per gli attivisti, tra cui la detenzione preventiva e pene detentive più lunghe. Come riportato dal The Guardian, attualmente la detenzione preventiva massima a Berlino è di48 ore. Reiner Wendt, capo del sindacato di polizia tedesco, ha proposto l’applicazione del “modello bavarese”, che prevede una detenzione preventiva fino a 30 giorni.

Anche diversi membri del governo tedesco criticano sempre più apertamente le azioni del gruppo. Durante un’intervista per una rete nazionale, il ministro dell’economi del partito dei Verdi, Robert Habeck, ha dichiarato che il risultato di queste proteste non è ottenere una maggioranza a favore della protezione del clima, bensì quello di dividere la società e scaturire l’irritabilità delle persone. È proprio per questo motivo che, se inizialmente le sanzioni comprendevano multe o ammonizioni, nelle ultime settimane i tribunali tedeschi hanno iniziato ad alzare la posta in gioco, proponendo pene detentive ad alcuni manifestanti.

Benjamin Jendro, della polizia di Berlino, sostiene invece che siano necessari metodi alternativi per controllare l’aumento delle proteste, ma è contrario alle regole bavaresi proposte da Wendt. Allo stesso modo, anche Bettina Jarasch, capo del partito Verdi di Berlino, sostiene di essere contraria alle proteste di estendere la detenzione preventiva, pur volendo mantenere una certa distanza dal gruppo azionista. Dichiara: «La detenzione preventiva significa mettere in prigione persone per reati che non hanno ancora commesso, questo è molto discutibile e deve essere rigorosamente controllato».

Elezioni in Paraguay: il partito Colorado tra corruzione e popolarità

Il Partito Colorado, che ha governato per 76 anni il Paraguay, sarà messo alla prova domenica prossima. Secondo la BBC, il candidato del partito alla presidenza del Paraguay, Santiago Peña, si troverà in difficoltà con diversi candidati dell’opposizione. Il buon esito delle elezioni, che ha permesso al PC di governare il paese per tanto tempo, è dovuto ai paraguaiani, i quali ne spalleggiano la sua popolarità. A differenza dell’opposizione che, sempre secondo la BBC, accusa il Colorado di aver sottomesso i rivali a un regime militare, con frodi o usando lo Stato per ottenere voti in democrazia.

Il prossimo 30 aprile i paraguaiani voteranno per i seguenti incarichi: il presidente e il vicepresidente della repubblica; 45 senatori titolari e 30 senatori supplenti; 80 deputati titolari e 80 deputati supplenti; 17 governatori; infine, 257 membri titolari e altrettanti supplenti per i consigli dipartimentali.

Secondo quanto riportato dalla CNN, nonostante il gran numero di candidati, i principali sono Santiago Peña e Pedro Alliana, per il Partito Colorado, e Efraín Alegre e Sole Núñez, a capo della Concertación Nacional per il Nuevo Paraguay.

Il candidato del Colorado è un economista ed è stato ministro delle finanze del governo Horacio Cartes. Il suo programma elettorale si basa sullo sviluppo integrale del paese, in particolare sull’occupazione, sulla salute e l’istruzione. Lo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno sanzionato Cartes per presunti atti di corruzione, accuse respinte dall’ex presidente del Paraguay.

La proposta di governo di Efraín Alegre si concentra sulla lotta contro la corruzione per raggiungere il benessere del paese. Come conferma all’emittente statunitense, l’intento dell’opposizione è quello di mostrare un Paraguay fatto di lavoro, di sforzo, un Paraguay solidale che si pone come risposta ai bisogni della gente.

Un fatto particolare della storia del Partito Colorado è il regime militare di Alfredo Stroessner, il generale affiliato al partito che governò il paese tra il 1954 e il 1989. Riuscì a salire al potere grazie alla guerra civile del 1947 e durante il suo regime organizzò, ogni cinque anni, delle elezioni fraudolente, vietando i partiti di opposizione, arrestando e torturando migliaia di persone.

In base a quanto dichiarato dalla BBC, il partito ha continuato a governare il Paraguay per molto tempo da Alfredo Stroessner fino ad oggi, ma ciò che lo ha permesso è stata anche la trasmissione dell’appartenenza al partito dalle vecchie generazioni di colorados alle nuove, un sentimento che come afferma l’emittente britannica, può essere paragonato alla fedeltà che lega una famiglia ad una squadra di calcio.

Ci si chiede quindi quale sarà il destino del partito Colorado nelle prossime elezioni, e se riuscirà a vincerle ancora una volta.

Tunisia: Kais Saied è un leader democratico?

Le rivolte che hanno avuto luogo in nord Africa nel 2011, passate alla storia con il nome di “primavere arabe”, sono iniziate in Tunisia in seguito alla morte del giovane venditore ambulante Muhammad Bouazizi dopo essersi dato fuoco in segno di protesta contro le condizioni economiche in cui verteva il paese.

Nel gennaio 2011, il Presidente della Repubblica Ben Alì rassegna le dimissioni e lascia la Tunisia a causa delle rivolte.

Inizia così quella rivoluzione che nei mesi a seguire si protrarrà per tutto il nord Africa.

Le prime elezioni libere si sono svolte nel paese, il 23 ottobre 2011, dopo 23 anni e hanno visto la formazione di un governo democratico composto dal partito laico di Marzouki e da al-Nahda, il partito islamico moderato.

Alle successive consultazioni popolari, tenutesi nel 2019, Meshishi, già leader della Fratellanza Musulmana, diventa primo ministro e il professore di diritto costituzionale Kais Saied Presidente della Repubblica. 

L’eccezione tunisina, ovvero la teoria secondo la quale possono coesistere democrazia e Islam, viene messa in crisi nel 2021 quando il caos politico, aggravato dalla crisi sociale e sanitaria, porta ad un colpo di mano del Presidente.

Secondo quanto riportato dalla BBC, Saied è stato accusato, dal primo ministro Mechichi e dai principali partiti politici tunisini, di aver inscenato un colpo di stato quando, il 25 luglio 2021, ha sospeso l’Assemblea Nazionale e la Costituzione.

Il Capo di Stato ha applicato l’art.80 della carta fondamentale, che prevede lo stato d’emergenza, senza l’approvazione della Corte Costituzionale sospesa da sei anni a causa dell’inoperatività del sistema legislativo e del marcato clientelismo della politica tunisina.

Il Presidente sostiene di aver agito in nome del popolo e secondo quanto emerso dal sondaggio, riportato dalla BBC, di Michael Robbins, direttore di Arab Barometer, una rete di ricerca con sede presso l’Università di Princeton, gli arabi preferiscono un leader forte alla democrazia.

Saied ha promesso, nel 2021, che la situazione politica sarebbe rimasta tale fino al ritorno della pace sociale in Tunisia e il 17 dicembre 2022 ha permesso nuove elezioni.

La chiamata alle urne ha visto un’affluenza del 9% della popolazione, dato che dovrebbe indicare la delusione nei confronti della politica da parte dei cittadini.

Ad aggravare le condizioni del paese si aggiunge la crisi economica che vede in aumento inflazione e disoccupazione e in calo il valore della moneta tunisina, secondo quanto riportato dalla BBC.

Il Presidente ha addossato la colpa della crisi alla corruzione dei partiti e ha promosso una Costituzione che diminuisce il ruolo di questi ultimi, inoltre, ha incoraggiato i cittadini a candidarsi autonomamente.

Tuttavia Sarah Yerkes, ricercatrice presso il Carnegie’s Endowment for International Peace, ha spiegato ai microfoni della BBC che la democrazia in Tunisia non è a rischio in quanto è ancora concessa la libertà di stampa e di associazione.

Saied ha giustificato le proprie azioni sostenendo che ha avuto bisogno di maggiori poteri per combattere il ciclo di paralisi politica e di decadimento economico in cui stanziava la Tunisia.


L’ex presidente Alejandro Toledo estradato dagli Stati Uniti

Domenica 23 aprile, Alejandro Toledo, ex presidente del Perù, è atterrato a Lima dopo essere stato estradato dagli Stati Uniti, dove ha trascorso sei anni sfuggendo alla giustizia del Paese che ha guidato tra il 2001 e il 2006. L’ex leader si aggiunge ad Alberto Fujimori, che rischia una condanna a 25 anni violazione dei diritti umani, e a Pedro Castillo, che deve scontare due ordini di detenzione preventiva per presunti reati di ribellione e organizzazione criminale. Toledo è accusato di riciclaggio di denaro e collusione, reati per i quali l’accusa chiede una pena di 20 anni e sei mesi.

Secondo quanto riferisce il quotidiano El Comercio, il processo di estradizione di Alejandro Toledo dagli Stati Uniti è costato al Perù almeno due milioni di soles (500.000 dollari).  

L’ex leader del parito Perú Posible si è consegnato alla giustizia statunitense venerdì 21, dopo un lungo processo in cui i suoi legali hanno presentato diversi appelli per impedirne il ritorno nel Paese sudamericano, come riportato da El Pais. La Procura lo accusa di aver ricevuto tangenti del valore di 35 milioni di dollari dall’impresa di costruzioni brasiliana Odebrecht per favorirla nella concessione dell’appalto dell’autostrada Interoceanica. Toledo si trova attualmente in custodia cautelare in attesa del processo.

Sembra che l’Istituto Penitenziario Nazionale (INPE) tratterrà Toledo nel carcere di Barbadillo, nel distretto di Ate (dipartimento di Lima), dove sono attualmente detenuti Fujimori e Castillo.

Al suo arrivo all’aeroporto Jorge Chávez è stato accolto dal capo dell’Interpol, il colonnello Carlos López Aedo, e dal comandante della polizia, il generale Jorge Angulo. Inoltre, un piccolo gruppo di sostenitori dell’ex partito Perú Posible si è presentato fuori dall’aeroporto, insieme ai suoi fratelli, Fernando e Pedro, e ad alcuni ex funzionari in carica durante il suo mandato.

Toledo è stato portato nella sede della Direzione dell’Aviazione della Polizia (DIPA), accanto all’aeroporto, per essere sottoposto al controllo dell’immigrazione. Lì, il Procuratore Patricia Benavides e il capo dell’Ufficio di Cooperazione Giudiziaria Internazionale ed Estradizioni, Alfredo Rebaza, hanno supervisionato il processo. È stata Benavides a leggergli i suoi diritti. Il controllo dell’identità sarà invece effettuato in una sede giudiziaria nel centro di Lima, dopodiché sarà valutato da un medico.

«Alejandro Toledo è una persona i cui diritti non sono stati rispettati», ha dichiarato il suo avvocato Roberto Su, che ha sottolineato il peggioramento delle condizioni di salute del suo cliente. Prima di consegnarsi alla giustizia, Toledo ha dichiarato di essere malato di cancro e che, in quanto paziente oncologico, chiederà di passare dalla detenzione preventiva agli arresti domiciliari.

America Latina e Caraibi: si registra un calo vertiginoso delle vaccinazioni infantili

Negli ultimi dieci anni, l’America Latina e i Caraibi sono passati da avere uno dei tassi di immunizzazione infantile più alti al mondo ad essere agli ultimi posti. Circa 2,4 milioni di bambini nella regione non hanno ricevuto il ciclo completo delle vaccinazioni basilari. Molti di loro non hanno ricevuto alcuna dose. Ciò lascia un bambino su quattro esposto a una serie di infezioni facilmente prevenibili con il vaccino, come l’epatite B, il morbillo e il tetano.

La pandemia è stata il principale ostacolo, ma non l’unico. La povertà, la mancanza di fondi e la crescente instabilità politica e sociale del continente hanno contribuito al declino più brutale degli ultimi trent’anni.

Secondo un rapporto dell’UNICEF del 2023, nella regione, la copertura della terza dose di vaccino contro difterite, tetano e pertosse, la principale vaccinazione per i bambini sotto l’anno di età, è diminuita del 18% dal 2012 al 2021. Il continente è passato dal 93% di bambini vaccinati ad appena il 75%, ponendo l’America Latina e i Caraibi al di sotto della media mondiale (81%) e quasi alla pari con l’Africa orientale e meridionale (74%), come riportato da El Pais.

«La situazione può essere ribaltata solo con maggiori investimenti e consapevolezza. È necessario rilanciare le strutture cliniche mobili, le politiche pubbliche e le misure sanitarie comunitarie. Dobbiamo aumentare i collaboratori per garantire che questi servizi raggiungano chi ne ha bisogno», spiega Ralph Midy, consulente regionale dell’UNICEF per l’immunizzazione in America Latina e nei Caraibi.

Tra i dati più preoccupanti emergono quelli relativi ai bambini che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino. Il fenomeno noto come “bambini zero” ha colpito soprattutto Brasile (700.000), Messico (316.000) e Venezuela (120.000).

Nella regione, sono più di 1,7 milioni i bambini che rientrano in questa categoria, la maggior parte dei quali accomunati dallo stesso fattore: la povertà. Anche se sotto diverse forme – migrazioni, disastri naturali, instabilità politica, violenza – nell’ultimo decennio le vaccinazioni sono diminuite perché la popolazione vulnerabile sta crescendo e le vaccinazioni sono sempre meno nella lista delle priorità delle famiglie.

«La prima cosa a cui pensano le persone che vivono in povertà, di solito non è il vaccino. Pensano a cosa mangiare e alla sicurezza dei loro figli. Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’America Latina non ha programmi attivi per individuare le popolazioni vulnerabili impossibilitate a raggiungere i centri sanitari e per riuscire così a somministrargli i vaccini necessari», spiega Roberto Debbag, presidente della Società latino-americana di malattie infettive pediatriche.

Si stima che vaccinare un bambino con tutte le iniezioni necessarie costi 58 dollari. Al contrario, le conseguenze di una mancata vaccinazione sono incalcolabili. Secondo l’UNICEF, per ogni dollaro investito nella vaccinazione, c’è un ritorno di 26 dollari. «Il rischio di non fare nulla è molto serio: si creerebbe un’enorme destabilizzazione della regione», afferma Ralph Midy.

Ucraina: i soldati affrontano i traumi psicologici causati dalla guerra

Allo stato attuale, l’Ucraina conta quasi un milione di uomini e donne impegnati nella difesa del Paese. Lo Stato maggiore ucraino non fornisce cifre specifiche, ma fonti militari stimano che circa 500.000 individui abbiano avuto esperienze di combattimento in prima linea. Secondo gli esperti e il personale militare intervistati da El País, il conflitto tra Russia e Ucraina lascerà centinaia di migliaia di soldati con cicatrici a vita. A tal proposito, le autorità iniziano a pensare che le conseguenze per il futuro, dopo il ritorno dei militari alla vita civile, rappresentino un problema da non dare per scontato. Robert van Voren, uno dei maggiori esperti di psichiatria negli stati membri dell’ex Unione Sovietica, sostiene che il Paese non sia preparato ad affrontare tale problema.

Sul suolo ucraino è presente un unico centro specializzato nel trattamento psicologico dei veterani di guerra, fondato da Oleksandr Vasilkovskii nel 2022 e gestito dalle Forze armate. Il centro di riabilitazione, situato a Kharkov, a 30 chilometri dal confine con la Russia, è un’iniziativa privata piuttosto che pubblica, perché non riceve finanziamenti statali, ma si affida alle donazioni. Durante i nove mesi di attività, sono stati curati più di 2.700 soldati attraverso un programma di cura settimanale che dovrebbe prepararli a tornare a combattere.

Lo scopo principale della convalescenza è far sì che i soldati riacquistino una stabilità che permetta loro di sentirsi sicuri nel tornare sul fronte, anche se gli studiosi concordano sul fatto che le rotazioni in prima linea siano meno frequenti del necessario, per cui gli individui sono continuamente sotto pressione. Vasilkovskii sostiene che, in un mondo ideale, le rotazioni dovrebbero avvenire ogni due o tre mesi, ma ciò non accade perché la Russia ha molte più risorse rispetto all’Ucraina e i soldati sono costretti a rimanere sul fronte più del dovuto. Il trauma principale tra i combattenti è il senso di colpa per gli amici persi, per essere ancora in vita e per non stare con i compagni. Rispetto a coloro che hanno combattuto nella guerra del Donbass nel 2014, inoltre, gli studiosi hanno rilevato un livello di disperazione e incertezza molto più alto.

Il processo di inserimento nel centro di riabilitazione inizia con l’identificazione dei soldati che soffrono di attacchi di panico o hanno pensieri suicidi. Dopodiché, questi ultimi ricevono trattamenti con diverse terapie, sia individuali che collettive. Sono sottoposti ad attività di fisioterapia per rilassare il corpo e svolgono esercizi in una piscina di 32 gradi che simula lo stato prenatale. Gli esperti si focalizzano sulla stabilizzazione dei pazienti, fornendo loro tecniche di rilassamento e meditazione, cosa ancora difficile da accettare, poiché l’Ucraina è una società molto conservatrice, influenzata dal cristianesimo ortodosso in cui la meditazione è vista come qualcosa di esterno alla religione.

Spagna: esumazione della salma di José Antonio Primo de Rivera

Lunedì 24 aprile, José Antonio Primo de Rivera sarà esumato dalla Valle di Cuelgamuros, precedentemente conosciuta come Valle de los Caídos (Valle dei Caduti), e trasportato nel cimitero madrileno di San Isidro. La data scelta coincide con il 120° anniversario della nascita del fondatore della Falange, il 24 aprile 1903. Come riportato da El País, la salma è stata già precedentemente spostata in diverse occasioni. Il 20 novembre 1939, tre anni dopo l’esecuzione da parte dei repubblicani, Primo de Rivera fu riesumato ad Alicante e portato a El Escorial. Le spoglie furono ricevute dai rappresentanti della Germania nazista e dell’Italia fascista. Nell’occasione, inoltre, furono portate anche le corone di Hitler e Mussolini.

Nel marzo 1959, invece, Francisco Franco propose ai Primo de Rivera di spostare nuovamente i resti del fratello nella Valle de los Caídos. Scrisse: «Ora che è stata completata la grandiosa basilica della Valle dei Caduti, eretta per ospitare gli eroi e i martiri della nostra Crociata, ci viene offerta come il luogo più adatto per la sepoltura dei resti di vostro fratello José Antonio, nel posto preferenziale che gli corrisponde tra i nostri gloriosi caduti». La tomba, sotto una lastra di 3.500 chili, identica a quella che anni dopo avrebbe coperto la bara di Franco, fu collocata accanto all’altare principale.

Nel 2011, una commissione di esperti istituita dal governo di José Luis Rodríguez Zapatero aveva proposto che per “dare dignità” alla basilica cattolica fosse necessario spostare i resti di Franco – cosa che è avvenuta il 24 ottobre 2019 – e ricollocare quelli di Primo de Rivera. Alla fine, gli esperti stabilirono che quest’ultimo, in quanto vittima della guerra civile, poteva rimanere nel mausoleo, senza però occupare un posto di rilievo. Tale decisione, infatti, è conforme all’articolo 54.4 della Ley de Memoria Democrática, secondo cui nella Valle di Cuelgamuros possono riposare solo i resti mortali di persone morte a causa della guerra.

Lo scorso ottobre, però, la famiglia di Primo de Rivera ha chiesto l’esumazione dei resti per adempiere alla volontà espressa da José Antonio nella prima clausola del suo testamento, in cui chiedeva di essere sepolto secondo il rito della religione cattolica, apostolica e romana che professava, sotto la protezione della Santa Croce. Il luogo scelto, il Sacramental di San Isidro, è il cimitero più antico di Madrid e la salma verrà collocata accanto alla tomba di Pilar Primo de Rivera, sorella del leader falangista, e a quelle di altri membri della famiglia.

Cuba: il Parlamento rielegge Miguel Díaz-Canel

La costituzione del nuovo Parlamento cubano non ha suscitato alcun dubbio. Come tutti si aspettavano, il presidente del Paese, Miguel Díaz-Canel, anche primo segretario del Partito Comunista di Cuba, è stato rieletto mercoledì 19 aprile per un secondo mandato. Anche il primo ministro, Manuel Marrero, e i vertici dell’attuale governo e del Consiglio di Stato confermeranno i loro incarichi.

Raúl Castro, che compirà 92 anni a giugno, ha partecipato alla sessione costitutiva della decima legislatura dell’Assemblea Nazionale ed è stato indicato da quasi tutti gli oratori come il leader indiscusso della Rivoluzione.

Cinque anni fa, quando è stato nominato presidente, Díaz-Canel ha assunto il concetto di “continuità”, in riferimento alla Rivoluzione, come principio guida e motto di governo. Oggi, in un momento di forte crisi per l’Isola, nessuno sembra dubitare sul fatto che questa sia la strada più giusta da percorrere.

Dopo la costituzione dell’Assemblea Nazionale e del Governo, il primo a prendere la parola è stato Marrero, che ha sottolineato la sua ‘insoddisfazione come capo del governo per non aver raggiunto gli obiettivi attesi dal popolo’, e proprio per questo ha affermato che il suo governo sarà ora ‘un governo attivo al fianco del popolo’, che lotterà per eliminare gli ostacoli e le barriere che generano insoddisfazione tra la popolazione.

Parlando delle sfide degli ultimi anni, il primo ministro Marrero ha ricordato l’intensificazione del blocco statunitense e i tentativi degli USA di “sovvertire l’ordine” sull’isola come prima causa delle difficoltà del Paese, seguiti dall’impatto della crisi della pandemia di COVID-19, come riportato da El Pais. Inoltre, ha rimarcato la necessità di produrre di più e di affrontare l’inflazione, che è aumentata in modo esponenziale negli ultimi due anni in coincidenza con la mancata attuazione dell’unificazione monetaria.

Díaz-Canel ha proseguito ringraziando Raúl Castro per l’appoggio e la fiducia accordatagli. Ha subito indicato l’embargo statunitense come causa principale dell’angoscia di Cuba, denunciando che questa politica, intensificata da Trump e ‘mantenuta da Biden’, ha lo scopo di aggravare i problemi interni nel tentativo di sottomettere Cuba, ha riferito inoltre il quotidiano spagnolo.

Durante il suo discorso, il presidente cubano ha difeso il sistema monopartitico dell’isola evidenziando la necessità di raggiungere l’unità e fissando un focus su alcuni punti fondamentali, come priorità per uscire dall’attuale crisi economica. Tra questi, troviamo: la produzione alimentare, l’efficienza dei processi di investimento, lo sviluppo dell’impresa statale socialista, la complementarità dei diversi attori economici e la lotta all’inflazione.

Il presidente ha dichiarato di essere consapevole dell’impatto della crisi e del conseguente aggravamento delle condizioni di vita dei giovani e ha inoltre espresso la sua preoccupazione per la forte migrazione registrata negli ultimi tempi.

«Dobbiamo affrontare questa grande sfida senza scoraggiarci. La rivoluzione è lo strumento e la strada per ottenere la massima giustizia e il maggior benessere possibile», ha affermato Díaz-Canel.

Aumentano i casi di “talpe” russe nei paesi dell’America del Sud

Il Governo russo sembra aver inviato “talpe” in tutto il Sudamerica. Russi che si nascondono tra argentini, brasiliani, peruviani, ecuadoriani, uruguaiani e tante altre nazionalità. Si tratta di agenti appartenenti a “cellule dormienti” che possono rimanere inattivi per anni, persino decenni, in attesa di un’opportunità per servire il Cremlino, secondo quanto riportato da El País.

La missione della “talpa” consiste nel creare una vita insospettabile, che può comprendere il formare una coppia e avere dei figli, studiare, lavorare e risiedere in uno o più Paesi prima di arrivare a una destinazione che potrebbe interessare Mosca. A quel punto, la “talpa” entrerà nella sua fase attiva.

Sono numerose le vicende riguardanti le “talpe” russe identificate in vari luoghi dell’America Latina. L’ultima risale a pochi mesi fa.

Il 5 dicembre 2022, la polizia slovena ha fatto irruzione negli uffici e nella casa di una famiglia a Lubiana, la capitale del Paese. Hanno arrestato una coppia di coniugi, Ludwig Gisch e María Rosa Mayer Muños, che viaggiavano con passaporto argentino, accusati di lavorare per Mosca.

Da allora, sono detenuti in isolamento e la Slovenia vuole processarli per spionaggio e falsificazione di documenti; potrebbero inoltre essere condannati a otto anni di carcere.

La Russia rimane in silenzio in pubblico, ma le tessere del domino sono iniziate man mano a cadere.

Il primo caso in Grecia, dove una donna è scomparsa poco dopo gli arresti di Gisch e Mayer Muños in Slovenia. I greci ritengono che sia fuggita a Mosca.

Poco dopo, il marito di Maria Tsallas, la presunta spia greca, ha dichiarato di essere brasiliano e di chiamarsi Gerhard Daniel Campos Wittich. Ha fatto perdere le sue tracce a gennaio, mentre si trovava in Malesia con lo zaino in spalla. Le autorità del posto sospettano si trovi anche lui a Mosca.

A ottobre 2022, il governo norvegese ha arrestato un altro presunto brasiliano che lavorava come accademico all’Università di Tromsø, José Assis Giammaria, ma la sua vera identità sarebbe quella di Michail Mikušin.

Le autorità olandesi hanno arrestato all’Aia un altro presunto brasiliano, Viktor Muller Ferreira, che stava cercando di infiltrarsi nella Corte penale internazionale (CPI) come stagista. Il suo vero nome sarebbe Sergej Vladimirovič Čerkasov.

Le autorità del Brasile continuano a indagare su come la Russia costruisca identità di copertura nel loro territorio.

In Uruguay, nel settembre 2022, il capo della sicurezza del presidente Luis Lacalle Pou è stato arrestato con l’accusa di far parte di una banda che emetteva certificati di nascita a russi in cui i genitori erano uruguaiani, per facilitare ai cittadini russi l’ottenimento di passaporti e documenti d’identità uruguaiani e, forse, generare nuove talpe.

In Argentina, il fatto che più di 10.500 donne russe si siano recate a Buenos Aires per partorire nell’ultimo anno ha destato sospetti. Siccome ogni nato in Argentina è per legge cittadino argentino e questo, a sua volta, facilita l’ottenimento della cittadinanza da parte della madre, si pensa sia stato un tentativo di insediare ulteriori talpe.

Questi sono solo alcuni dei casi individuati dalle autorità locali di ciascun Paese. Pertanto, l’America Latina continua a rimanere in allerta.

Damasco: incontro tra al-Assad e il ministro degli Esteri saudita

Lo scorso martedì 18 aprile il presidente siriano Bashar al-Assad ha ricevuto a Damasco il ministro degli Esteri saudita, principe Faisal bin Farhan, nel passo più significativo verso la fine del decennale isolamento regionale della Siria. Questo incontro si inserisce in un momento di ampia distensione regionale.

È stata la prima visita a Damasco di un alto diplomatico della potenza araba, da quando i legami tra i due Paesi si sono interrotti in seguito alla repressione di al-Assad contro i manifestanti nel 2011, che è poi degenerata in una guerra civile decennale.

Nel corso dell’incontro sono stati discussi i passi necessari per una soluzione politica del conflitto siriano che ne preservi l’identità araba e la restituisca al “suo ambiente arabo”. Al-Assad ha affermato che le «politiche aperte e realistiche» del Regno saudita hanno giovato all’intera regione.

Le due parti hanno concordato di riprendere i rapporti diplomatici e, secondo alcune fonti riportare dalla Reuters, bin Farhan si sarebbe recato a Damasco per invitare al-Assad al vertice della Lega Araba che Riyadh ospiterà il prossimo mese. Tuttavia, le dichiarazioni ufficiali non ne hanno fatto menzione.

Meno di due settimane fa il ministro degli Esteri siriano Faisal Al Miqdad si è recato a Gedda, porto saudita sul Mar Rosso, secondo quanto riportato dalla Reuters.

Questo viaggio è avvenuto due giorni dopo l’incontro dei diplomatici di nove Paesi arabi nella medesima città saudita, secondo quanto riportato da Al Jazeera. In questa occasione si è discussa la possibilità di  porre fine al lungo periodo di isolamento diplomatico della Siria e di un suo possibile ritorno nella Lega Araba, composta da 22 membri, dopo la sospensione nel 2011.

L’Arabia Saudita ha interrotto i legami con il governo di al-Assad nel 2012 e Riyadh ha a lungo sostenuto l’eliminazione politica di al-Assad, appoggiando i ribelli nelle prime fasi della guerra. Anche molti altri Paesi arabi hanno tagliato i ponti con la Siria.

Di recente, tuttavia, le capitali regionali si sono gradualmente riavvicinate ad al-Assad, che ha recuperato la maggior parte del territorio occupati dai rivali, con il sostegno determinante di Russia e Iran. Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno ristabilito i legami con Damasco alla fine del 2018, hanno guidato il progetto di reintegrazione della Siria nella Lega Araba.

Il disgelo nelle relazioni tra Riyadh e Damasco fa parte di una tendenza più ampia che ha visto l’Arabia Saudita e l’Iran concordare di ripristinare i rapporti diplomatici in un riallineamento regionale volto ad allentare le tensioni.

La mancanza di carburante a Cuba provoca le interminabili “code fantasma”

A Cuba, dopo mesi di blackout dovuti allo stato disastroso del Sistema Elettrico Nazionale (SEN), una nuova crisi di approvvigionamento di carburante ha semi-paralizzato il trasporto pubblico e privato negli ultimi giorni, provocando code chilometriche alle stazioni di servizio.

Centinaia di autisti e tassisti dormono nei loro veicoli nell’attesa di un’autocisterna, ma che nessuno sa quando arriverà. Sono le cosiddette “code fantasma”, in cui la gente si mette in fila a proprio rischio e pericolo intorno alle fatiscenti stazioni di rifornimento di benzina e gasolio, con la speranza di riuscire a fare rifornimento, prima o poi.

«La situazione di oggi è come un circolo vizioso: quando non c’è la benzina, c’è il blackout, e poi mancherà il pollo e poi di nuovo il diesel e così a ripetizione», sostiene un giovane, desideroso di lasciare il Paese.

Difatti, nell’ultimo anno, circa 320.000 cubani – il 3% della popolazione – sono entrati illegalmente negli Stati Uniti attraverso il confine messicano, secondo quanto riportano i dati dei servizi di immigrazione statunitensi, riferisce El Pais.

In una coda fantasma si può ascoltare qualsiasi opinione, anche la più estrema ed esagerata, ma la verità è che la situazione attuale è particolarmente difficile per tutti, in quanto il trasporto pubblico funziona malissimo da anni.  

Nel dicembre 2021, all’Avana, città che conta oltre due milioni di abitanti, c’erano solo 878 bus (meno della metà rispetto ai primi anni ’90), di cui 440 non funzionanti per mancanza di pneumatici, batterie, filtri dell’olio, e guasti vari.

Oggi la situazione risulta ancora più grave, come riconoscono le autorità locali, le quali sostengono che si tratta della peggiore crisi del trasporto pubblico degli ultimi dieci anni.

La carenza di carburante non fa che aggravare la situazione di per sé già complicata. Nella capitale, le fermate degli autobus sono sovraffollate e le persone impiegano ore per spostarsi tra il centro e i quartieri periferici. Anche i taxi, che un tempo costituivano un’alternativa, hanno smesso di funzionare e applicano tariffe sempre più alte a una popolazione già duramente colpita dall’inflazione.

«È una questione strutturale ed è di vitale importanza che il Governo intervenga concretamente per cambiare la struttura dell’economia del Paese», ha affermato l’economista cubano Omar Everleny.

«Nonostante il tempo rimasto sia sempre meno, se si apportano i cambiamenti necessari è ancora possibile porre rimedio alla situazione attuale», ha continuato l’economista.

«Cuba è alla fine di un modello di concezione politica, sociale ed economica che non credo possa essere riformato in queste condizioni», ha dichiarato in un’intervista all’agenzia di stampa Efe la storica Alina Bárbara López.

Tuttavia, negli ultimi giorni, persa nelle interminabili code fantasma, la gente aveva completamente perso di vista la crisi sistemica che affligge il Paese.

Apple: apre il primo Flagship store in India

L’azienda Apple decide di aprire il primo Flagship store a Mumbai investendo così nel mercato Indiano. L’apertura dello store evidenzia la volontà da parte dell’azienda di espandersi verso nuovi mercati, cercando anche di investire in un hub di produzione alternativo alla Cina.

Il nuovo store, di 2.600 metri quadrati, si trova nel centro commerciale Jio World Drive, di proprietà di Reliance Industries e situato nella capitale finanziaria dell’India, Mumbai. Il CEO dell’azienda, Tim Cook, martedì ha posato alcune foto che mostravano quasi 200 fan di Apple in fila fuori al negozio, secondo quanto ha riportato Al Jazeera.

Il gigante della tecnologia, Apple, opera in India da 25 anni, vendendo i suoi prodotti tramite rivenditori autorizzati, tuttavia, la pandemia e alcuni ostacoli normativi hanno ritardato l’apertura del Flagship store.

La maggior parte degli smartphone e dei tablet di Apple sono assemblati nelle fabbriche in Cina. Nonostante ciò, per combattere le interruzioni causate dal COVID-19, l’azienda ha iniziato a spostare parte della produzione nel Sud-est asiatico. Attualmente, l’India produce quasi 13 milioni di iPhone ogni anno, rispetto a meno di cinque milioni di tre anni fa.

Un secondo negozio verrà aperto a Nuova Delhi prossimamente: «questo dimostra quanto l’india sia importante sia per il presente sia per il futuro dell’azienda, considerando le vendite di iPhone in costante aumento» ha dichiarato Jayanth Kolla, analista di Convergence Catalyst, una società di consulenza tecnologica, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Le vendite di iPhone sul mercato indiano hanno raggiunto la classe sociale dell’alta borghesia a causa del prezzo che lo ha reso di conseguenza fuori dalla portata della maggior parte degli indiani, tuttavia, tra il 2020 e il 2022, l’azienda ha guadagnato terreno nel mercato passando dal 2% al 6% di vendite effettuate

Guerra in Yemen: concluso lo scambio di prigionieri

Nell’ambito di uno scambio tra il governo e i ribelli Huthi dello Yemen, lo scorso 16 aprile sono stati liberati decine di prigionieri, tra cui una donna. Questo evento ha alimentato la speranza di porre fine alla lunga guerra in corso.

Cinque voli con a bordo quasi 200 detenuti di entrambe le parti hanno fatto la spola tra la capitale Sana’a, controllata dai ribelli Huthi, e la città settentrionale di Ma’rib, controllata dal governo.

Domenica l’operazione si è «conclusa con successo», ha dichiarato il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Il numero totale di prigionieri liberati ammonta a 869.

Tra questi c’era anche una donna, Samira March, che le forze governative avevano arrestato cinque anni fa con l’accusa di aver organizzato attentati che hanno provocato la morte di decine di persone. «È stata liberata in cambio del rilascio di alcuni giornalisti detenuti dagli Houthi», ha confermato il negoziatore governativo Majed Fadail all’agenzia di stampa AFP, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Venerdì 14 aprile, 318 prigionieri sono stati trasportati su quattro voli tra Sanaa e Aden, controllata dal governo. È stato così possibile il ricongiungimento dei detenuti con le loro famiglie poco prima della festività musulmana di Eid al-Fitr della prossima settimana.

Sabato, 357 detenuti sono stati trasportati tra la città saudita di Abha e Sana’a. Non è noto il numero di prigionieri che ciascuna delle parti ha ancora con sé.

Lo scambio di prigionieri, il più grande da quando più di 1.000 detenuti sono stati liberati nell’ottobre 2020, è una misura di fiducia che coincide con un’intensa spinta diplomatica per porre fine alla guerra in Yemen. Il conflitto ha causato centinaia di migliaia di morti, ha creato insicurezza alimentare e ha ridotto notevolmente l’accesso all’assistenza sanitaria.

Lo scambio arriva un mese dopo che le due maggiori potenze regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran, hanno concordato di ristabilire i rapporti diplomatici, grazie anche alla mediazione della Cina. Da qui sembrerebbe essersi innescata un’ondata di riavvicinamento in tutta la regione.

Secondo alcuni analisti, l’Arabia Saudita vorrebbe ridurre il proprio impegno militare in Yemen, avendo compreso l’impossibilità di sconfiggere definitivamente gli Huthi.

Una delegazione saudita si è recata a Sana’a per stabilire un cessate il fuoco più duraturo. Gli Houthi si oppongono in generale alla mediazione saudita, insistendo sul fatto che il vicino regno ha giocato un ruolo centrale nel conflitto.

Il capo politico degli Houthi, Mahdi al-Mashat, ha dichiarato che il prossimo ciclo di colloqui con l’Arabia Saudita inizierà dopo l’Eid al-Fitr ed è previsto per il prossimo 21 aprile.

Pakistan: il FMI certifica il crollo dell’economia

Il Fondo Monetario iInternazionale (FMI) ha dichiarato che il Pakistan ha una prospettiva di crescita economica molto bassa, l’economia aumenterà solo dello 0.5% quest’anno, in calo rispetto al 6% nel 2022, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

La fragile economia del paese dell’Asia meridionale subirà un’inflazione del 27% e la disoccupazione continuerà ad aumentare.

Il Pakistan sta lottando per  evitare la bancarotta, soprattutto in questo periodo, poiché le inondazioni della scorsa estate hanno ucciso 1.739 persone e causato danni per il valore di 30 miliardi di dollari.

Il primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, per salvaguardare l’economia del paese, ha intrapreso delle trattative con il FMI, stipulando un accordo per ricevere la prima tranche del pacchetto di salvataggio dal valore di 6 miliardi di dollari firmato nel 2019 dal governo precedente.

Il programma, punta ad affrontare gli squilibri interni ed esterni e a garantire la disciplina di bilancio e la sostenibilità del debito, proteggendo allo stesso tempo la spesa sociale: l’obiettivo consiste nel salvaguardare la stabilità monetaria e finanziaria, mantenendo un tasso di cambio determinato dal mercato e ricostruendo le riserve esterne.

Il governo pakistano nelle ultime settimane ha tagliato i sussidi e aumentato le tasse, per rispettare i termini del programma di salvataggio, così da garantire l’emissione della prima parte di 1,2 miliardi di dollari. Le misure di restrizione hanno comportato tuttavia un aumento del cibo, del gas e dell’elettricità.

Bangladesh: donna lapidata e fustigata

Arrestati tre anziani di un villaggio, in Bangladesh, per aver ordinato la fustigazione e la lapidazione di una donna di 30 anni accusata di aver avuto una relazione extraconiugale con un autista di autorickshaw locale.

La donna è stata “bastonata 82 volte” e “lapidata 80 volte”.

L’ispettore della polizia, Zakir Hossain, ha dichiarato di aver arrestato il religioso locale che aveva pronunciato la Fatwa durante un consiglio informale, noto come Shalish, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Il consiglio informale del villaggio aveva ordinato la lapidazione e la fustigazione, basandosi sulla legge della Sharia, così che la donna accusata potesse riscattarsi dal suo peccato.

Il Bangladesh è una nazione a prevalenza musulmana, con 170 milioni di persone e ha un sistema legale laico in cui l’applicazione della legge islamica nei casi penali è illegale.

Nel 2011 una sentenza della Corte Suprema del Bangladesh ha consentito l’emissione della Fatwa, ma non la sua esecuzione. La decisione ha effettivamente consentito di seguire volontariamente la legge islamica, ma ha proibito qualsiasi tipo di punizione.

La decisione del consiglio del villaggio nei riguardi della donna ha scatenato proteste da parte dei gruppi femministi, infatti, Fauzia Moslem, presidente del più grande gruppo femminile del paese, ha dichiarato «si sono comportati come se fossimo nel Medioevo», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Annunciato il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Qatar e Bahrein

Lo scorso mercoledì 12 aprile l’agenzia di stampa del Bahrein (BNA) e il ministero degli Esteri del Qatar hanno reso noto il ripristino dei rapporti diplomatici tra i due Paesi.

I rappresentanti del Bahrein e del Qatar si sono incontrati presso la sede del Segretariato Generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) nella capitale saudita, Riyadh, secondo quanto affermato dai ministeri degli Esteri dei due Paesi in dichiarazioni separate.

Il Segretario generale del Ministero degli Affari Esteri del Qatar, Ahmed bin Hassan al-Hammadi, ha incontrato il Sottosegretario agli Affari Esteri del Bahrein, Sheikh Abdulla bin Ahmed Al Khalifa, per discutere della risoluzione di una questione che risale al 2017, secondo quanto riportato dalla Reuters.

In quell’anno, il Bahrein, insieme ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, ha imposto un embargo diplomatico al Qatar sostenendo che offrisse supporto ai movimenti islamisti considerati una minaccia dai vicini arabi. Inoltre si recriminavano i legami del Paese con l’Iran, potenza musulmana sciita, e con la Turchia. Si tratta di accuse che Doha ha sempre negato.

I quattro Paesi arabi avevano vietato agli aerei e alle navi del Qatar di utilizzare il loro spazio aereo e le loro acque. Avevano, inoltre, interrotto i rapporti commerciali. Nel 2021, tuttavia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno ripreso questi rapporti, anche se gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar non hanno ancora riaperto le rispettive ambasciate. Soltanto il Bahrein non aveva ripristinato le precedenti relazioni.

L’Arabia Saudita, importante potenza regionale, ha guidato gli sforzi per ricostruire i legami con il Qatar e, insieme all’Egitto, è riuscita nell’intento di ristabilire le relazioni diplomatiche.

Il Bahrein, una monarchia musulmana sunnita con una popolazione sciita molto attiva, non vede di buon occhio le relazioni del Qatar con l’Iran. In aggiunta, il Bahrein e il Qatar si confrontano anche in merito ad alcune dispute territoriali.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, lo scorso gennaio, il principe ereditario del Bahrein e l’emiro del Qatar hanno intrattenuto una conversazione telefonica per discutere delle loro divergenze. Una mossa che lasciava presagire un disgelo delle relazioni tra i due Paesi.

Il ripristino dei legami si inserisce in una serie di numerosi sforzi per risolvere le controversie regionali e garantire una maggiore stabilità, come ad esempio quelle tra Iran e Arabia Saudita.

Francia: valanga in Alta Savoia

Lo scorso fine settimana, nel comune di Contamines-Montjoie si è verificata una valanga che ha causato diverse vittime, tra cui due guide alpine locali, e alcuni feriti. L’incidente è avvenuto sulle Alpi francesi, nei pressi del ghiacciaio dell’Armancette. Ad annunciare l’accaduto è stato il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, che attraverso un Tweet ha comunicato il numero di morti, inizialmente quattro, ha ringraziato i servizi di emergenza per il pronto intervento e ha dedicato un pensiero sia alle vittime sia ai loro cari.

Secondo il quotidiano locale Le Dauphiné Libéré, la neve ha iniziato a staccarsi alle 11.27 di domenica 9 aprile, originando una valanga che si è estesa su un’area di 1 chilometro per 500 metri, a un’altitudine di 3.500 metri. Le persone travolte stavano facendo scii di fondo quando si è verificato l’incidente. Le circostanze esatte della tragedia devono ancora essere determinate e spetterà all’inchiesta giudiziaria farlo.

Dopo una lunga giornata di complicate ricerche, anche a causa delle condizioni metereologiche, nella serata di domenica è stata scoperta una quinta vittima, mentre le ricerche proseguite per tutta la mattinata di lunedì hanno portato alla luce la sesta e ultima vittima che risultava ancora dispersa. Altri otto turisti, invece, sono stati trovati vivi e illesi.

Il presidente del Syndicat National des Guides de Haute-Montagne (SNGM) Dorian Labaeye ha dichiarato che non dovrebbero esserci altre vittime e che il gruppo colpito era equipaggiato con un rilevatore di valanghe, pale e sonde, il che ha notevolmente agevolato il lavoro dei soccorritori.

Secondo le parole di Labaeye, l’evento è stato inaspettato, poiché durante il fine settimana di Pasqua gli impianti sciistici sono molto frequentati e per questo le misure di sicurezza vengono implementate per garantire la stabilità di tutte le strutture. Il sindaco della città di Contamines-Montjoie Francois Barbier ha dichiarato alla stampa francese che si tratta della “valanga più mortale di questa stagione”.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso le condoglianze ai familiari delle persone decedute attraverso un Tweet: “Sul ghiacciaio dell’Armancette, nelle Alpi, una valanga ha causato delle vittime. Pensiamo a loro e alle famiglie. I nostri soccorsi sono stati mobilitati per trovare le persone ancora bloccate nella neve. Il nostro pensiero va anche a loro”.

L’economia al centro della campagna elettorale di Erdogan

Lo scorso martedì 11 aprile il presidente turco Racep Tayyip Erdogan ha lanciato la campagna elettorale per la rielezione. Il primo impegno del suo partito è di ridurre l’inflazione e rilanciare la crescita del Paese. La popolazione turca è chiamata alle urne il prossimo 14 maggio.

I sondaggi mostrano un calo di consensi per Erdogan da quando la lira turca ha perso valore e l’inflazione è aumentata notevolmente. Gli oppositori hanno dato la colpa alle politiche economiche dell’attuale presidente.

Nonostante ciò, Erdogan ha ribadito il suo progetto economico secondo cui gli investimenti, la produzione, le esportazioni e un eventuale surplus delle partite correnti faranno crescere il prodotto interno lordo della Turchia.

«Riporteremo l’inflazione a una sola cifra e salveremo definitivamente il nostro Paese dall’attuale situazione economica», ha dichiarato Erdogan, secondo quanto riportato da Reuters.

La forte riduzione dei tassi di interesse voluta dal presidente ha portato l’inflazione sopra l’85% lo scorso ottobre, la quale è poi scesa attorno al 50% a marzo. Il conseguente aumento del costo della vita ha attanagliato le famiglie turche, comprimendo i guadagni e i risparmi.

«Miglioreremo ulteriormente gli investimenti con una struttura basata su un’economia di libero mercato integrata con il mondo», si legge nel manifesto del partito al governo riportato da Al Jazeera. L’obiettivo è una crescita annuale del 5,5% nel periodo 2024-2028 e un PIL di 1.500 miliardi di dollari entro la fine del 2028.

Erdogan ha dichiarato che un team sta lavorando al rafforzamento delle politiche economiche sotto il coordinamento di Mehmet Simsek, ex ministro delle Finanze molto rispettato dagli investitori internazionali.

Alle elezioni presidenziali del prossimo mese, Erdogan dovrà affrontare tre candidati, tra cui il rappresentante della principale alleanza di opposizione, Kemal Kilicdaroglu.

Nell’ultimo sondaggio di Metropoll, il 42,6% degli intervistati ha dichiarato che al primo turno ha intenzione di votare per Kilicdaroglu e il 41,1% per Erdogan. Gli altri candidati riceverebbero complessivamente il 7,2% dei consensi.

Il sostegno a Erdogan è leggermente diminuito dopo i terremoti dello scorso febbraio, dove hanno perso la vita più di 50.000 persone. Molti elettori ritengono che la risposta governativa al disastro sia stata inizialmente troppo lenta.

«La nostra priorità sarà quella di ripristinare le città devastate», ha dichiarato il presidente turco. Ha inoltre aggiunto che il governo intende costruire 650.000 abitazioni per i sopravvissuti, 319.000 delle quali saranno consegnate in un anno.

Per quanto riguarda la politica estera, Erdogan ha dichiarato che l’AKP punterà a costruire un “asse della Turchia”. Ankara ha recentemente tentato di ricucire le relazioni con Israele, Arabia Saudita, Egitto e Siria dopo anni di tensioni.

«Possiamo negoziare con entrambe le parti nella guerra Russia-Ucraina, fare progressi concreti come il corridoio del grano e lo scambio di prigionieri, e possiamo parlare di possibilità di pace», ha dichiarato Erdogan.

Cile: orario di lavoro ridotto a 40 ore settimanali

La proposta di legge che prevede la riduzione della settimana lavorativa in Cile da 45 a 40 ore settimanali necessita solo della firma del Presidente Gabriel Boric perché assuma validità di legge. Martedi 11 aprile, il Parlamento ha approvato la proposta, dopo sei anni di dibattiti che hanno coinvolto l’esecutivo, i sindacati e il settore imprenditoriale. L’applicazione della riforma sarà graduale e la sua piena attuazione potrà richiedere fino a cinque anni, ossia a partire dal 2029.

«Dopo molti anni di sostegno e dialogo, oggi possiamo finalmente festeggiare l’approvazione di questo disegno di legge che riduce la giornata lavorativa, un disegno di legge a favore della famiglia che mira a garantire una vita migliore a tutti», ha dichiarato il Presidente Boric. «È una buona notizia per la politica, che ha dimostrato di essere all’altezza delle esigenze del popolo cileno», ha aggiunto la ministra Camila Vallejo.

Vallejo, militante comunista, ha presentato la proposta di legge quando era deputata nel 2017. Boric, durante la sua campagna elettorale, si era impegnato a portare avanti l’iniziativa. La ministra del Lavoro, Jeannete Jara, ha condotto i negoziati con l’opposizione e con i diversi settori economici interessati, dove sono state apportate svariate modifiche per raggiungere un accordo trasversale.

La riduzione dell’orario di lavoro ordinario passerà da 45 a 44 ore nel primo anno successivo alla pubblicazione della legge, a 42 ore nel terzo anno e a 40 ore nel quinto anno. Si tratta di termini di massima, che il datore di lavoro può anticipare. A giugno dello scorso anno, il Ministero del Lavoro ha creato il “marchio 40 ore”, una certificazione che riconosce le aziende che già applicano l’orario di lavoro ridotto: più di 500, di cui la maggior parte PMI, l’hanno ottenuta, in base a quanto riporta El Pais.

L’America Latina è una delle regioni con gli orari di lavoro più lunghi: Brasile, El Salvador e Guatemala lavorano per legge tra le 42 e le 45 ore settimanali, mentre Argentina, Bolivia, Costa Rica, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù e Uruguay, Messico e Colombia lavorano 48 ore, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Durante la discussione del disegno di legge, il Governo ha accolto diversi punti relativi alla flessibilità del lavoro. La futura legge, ad esempio, consente alle aziende, una volta applicate le 40 ore, di adottare, in accordo con i lavoratori, un piano di quattro giorni lavorativi (10 ore al giorno) con tre giorni di riposo. Un’altra novità è la possibilità di recuperare gli straordinari con un massimo di cinque giorni di ferie, ciò permette ai lavoratori di organizzare meglio la propria vita, dedicando più tempo alla famiglia.  

«È un grande giorno per le persone che viaggiano sugli autobus e lasciando i figli a dormire perché partono molto presto al mattino o tornano molto tardi. Questo è un progetto che contribuirà enormemente alla qualità della vita di ognuno di noi», ha affermato la ministra del lavoro.

India: vice primo ministro ucraino in visita a Nuova Delhi

Prima visita di un ministro ucraino in India, dall’inizio della guerra, dopo che Nuova Delhi continua a mantenere stretti i legami con il Cremlino.

Emine Dzhaparova, vice primo ministro degli Esteri ucraino, dovrà tenere dei colloqui con i funzionari del ministero degli affari esteri indiano e incontrerà anche il ministro di stato per gli affari esteri, Meenakshi Lekhi e il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Vikram Misri.

L’incontro verterà sull’attuale situazione dell’Ucraina e su questioni di importanza globale. Il viceministro ucraino chiederà all’India di collaborare, inviando un “forte messaggio di pace” al presidente Putin che visiterà l’India a luglio per un vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

L’India, rispetto al  conflitto russo-ucraino si proclama non allineata alla guerra, cercando di mantenere buoni rapporti diplomatici sia con l’Occidente sia con la Russia.

La Russia e l’India hanno da sempre goduto di una stretta relazione diplomatica, Mosca è il più grande fornitore di armi dell’India. Dopo lo scoppio della guerra sul territorio ucraino, Nuova Delhi ha aumentato le sue importazioni di petrolio russo a prezzi ridotti, questo ha permesso all’India di importare 1,2 milioni di barili di greggio russo in più rispetto l’anno scorso.

A settembre, il primo ministro indiano Narendra Modi ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin e ha descritto l’amicizia dei loro paesi come “indissolubile”, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Iran: installate telecamere per individuare le donne che non indossano l’hijab

Lo scorso sabato 8 aprile la polizia iraniana ha annunciato che, in un ulteriore tentativo di arginare il crescente numero di donne che sfidano il codice di abbigliamento del Paese, le autorità stanno installando telecamere nei luoghi pubblici e nelle strade per identificare cle donne che sono prive dell’hijab.

In un comunicato si legge che, dopo essere state identificate, le violatrici riceveranno «messaggi di avvertimento sulle conseguenze». L’obiettivo è quello di «prevenire la resistenza contro la legge sull’hijab». Tale resistenza offuscherebbe l’immagine spirituale dell’Iran e diffonderebbe insicurezza, secondo una dichiarazione riportata da Reuters.

Un numero crescente di donne iraniane ha deciso di non indossare più l’hijab dopo la morte di una 22enne curda, avvenuta lo scorso settembre mentre era sotto la custodia della polizia morale. Mahsa Amini era stata arrestata per presunta violazione della legge sull’hijab. Le forze di sicurezza hanno represso violentemente le proteste dopo la sua morte.

Nonostante il rischio di essere arrestate per aver sfidato il codice di abbigliamento obbligatorio, le donne sono ancora ampiamente viste senza l’hijab nei centri commerciali, nei ristoranti, nei negozi e nelle strade di tutto il Paese.

Secondo una dichiarazione della polizia riportata dalla BBC, il sistema utilizza telecamere”intelligenti” per identificare i trasgressori della legge sull’hijab. Questo indumento è considerato «uno dei fondamenti civili della nazione iraniana». Per questo motivo, i proprietari di attività commerciali sono stati esortati a mettere in atto «ispezioni diligenti».

In Iran le aggressioni in pubblico contro le donne senza l’hijab non sono rare.

La settimana scorsa, un video di un uomo che lanciava dello yogurt a due donne con i capelli non coperti è stato diffuso online. Le donne sono state successivamente arrestate in base alla legge sull’hijab. Anche l’aggressore è stato arrestato.

Sul tema vi sono anche opinioni differenti. Il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Mohseni-Eje ha dichiarato: «le questioni culturali devono essere affrontate con mezzi culturali. Se vogliamo risolvere questi problemi arrestando e imprigionando, i costi aumenteranno e non vedremo l’efficacia desiderata».

Nel frattempo, decine di studentesse delle scuole della città nord-occidentale di Ardabil si sono ammalate lo scorso sabato, in una nuova ondata di avvelenamenti sospetti.

«Questa mattina le studentesse hanno sentito un odore sgradevole, hanno avuto una sensazione di bruciore alla gola e si sono sentite deboli, quindi sono state immediatamente trasferite in centri medici», ha dichiarato un funzionario della sicurezza di Ardabil ai giornalisti, secondo l’agenzia di stampa “semi-ufficiale” Fars.

USA: a rischio la sicurezza nazionale dopo la fuga di documenti del Pentagono

Una serie di fascicoli contenenti informazioni sensibili che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale sono stati sottratti al Pentagono, mettendo a rischio anche i rapporti con gli alleati. Il Dipartimento di Difesa è venuto a conoscenza per la prima volta della fuga dei documenti il 6 aprile. È in corso un’inchiesta per determinare l’origine della fuga di notizie, secondo la BBC.

I documenti sono apparsi online su Twitter, 4chan e Telegram, nonché su un server Discord per il videogioco Minecraft. Secondo i funzionari del Pentagono, i documenti pubblicati potrebbero essere stati modificati.

Le informazioni trapelate includono dati sensibili e molto dettagliati sulla guerra in Ucraina. Alcuni documenti contengono invece materiale informativo relativo agli alleati degli Stati Uniti. Vi sono poi documenti che si concentrano su questioni di difesa e sicurezza in Medio Oriente e nella regione indo-pacifica.

Uno in particolare suggerisce che gli Stati Uniti stiano spiando la Corea del Sud. Nel documento è riportata in dettaglio una conversazione alto che risale al 1 marzo tra due alti consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol. La fuga di documenti potrebbe alterare il rapporto tra i due Paesi.

Il governo coreano, tuttavia, si dichiara d’accordo con la prima valutazione degli Stati Uniti secondo cui alcuni dei documenti potrebbero essere stati distorti, come riporta la BBC in un aggiornamento.

Parlando ai giornalisti lunedì 10 aprile, un alto funzionario del Pentagono ha affermato che i documenti rappresentano «un rischio molto serio per la sicurezza nazionale e potrebbero diffondere disinformazione».

Chris Meagher, assistente del Segretario alla Difesa per gli affari pubblici, ha dichiarato: «Stiamo indagando sull’accaduto e sulla gravità del problema». Ha inoltre rassicurato gli alleati «dell’impegno a salvaguardare l’intelligence e i rapporti con i nostri partner in materia di sicurezza».

Washington: Biden e gli errori in Afghanistan

L’amministrazione degli Stati Uniti, guidata da Joe Biden, difende la decisione del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, ammettendo però che tale esperienza ha evidenziato la necessità di utilizzare strategie più idonee per fronteggiare scenari ad alto rischio nel futuro.

Le agenzie governative degli Stati Uniti, coinvolte nel ritiro, hanno incolpato l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump per i problemi che hanno portato alla caotica uscita degli Stati Uniti dal paese, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

L’amministrazione Trump aveva siglato un accordo sul ritiro delle truppe con i talebani, ma non aveva pianificato una strategia per portarlo a termine. L’amministrazione Biden aveva in programma di portare a termine l’accordo, tuttavia, le difficoltà riscontrate dal Presidente su come eseguire un ritiro delle truppe erano fortemente complicate a causa delle condizioni create dal suo predecessore.

Il governo afghano, sostenuto a livello internazionale, è crollato nell’agosto del 2021 quando i talebani hanno ripreso il controllo della capitale, Kabul, durante il ritiro delle forze statunitensi.

Le truppe americane durante il ritiro hanno cercato di attuare delle operazioni per riuscire a salvare gli afghani che stavano scappando.

Durante l’evacuazione, un attentato suicida del ramo afghano dell’ISIS ha ucciso almeno 175 persone, tra cui 13 militari statunitensi.

Tuttavia, nonostante le critiche rivolte sia nei confronti dell’amministrazione Trump, che ha avviato il ritiro delle truppe americane dopo 20 anni in Afghanistan, sia nei confronti dell’amministrazione Biden, per la cattiva gestione del ritiro, quello che emerge è la fine di una delle guerre più lunghe condotte dagli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti insieme agli alleati hanno invaso l’Afghanistan nel 2001 dopo gli attacchi dell’11 settembre di Al-Qaida a New York e Washington.

Washington, dall’esperienza afghana ha compreso la necessità di pianificare in tempo evacuazioni e strategie per fronteggiare scenari come questi, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Azerbaigian: dipendenti iraniani espulsi dall’ambasciata

L’Azerbaigian ha dichiarato di voler espellere quattro diplomatici iraniani per aver condotto azioni non inerenti allo status diplomatico.

La decisione, da parte dell’ambasciata azera, avviene a causa dell’arresto di sei uomini che secondo la polizia erano collegati ai servizi segreti iraniani e stavano organizzando un colpo di stato nella nazione.

L’Azerbaigian è uno stretto alleato della storica rivale dell’Iran, la Turchia e ultimamente ha anche stretto rapporti con un altro rivale di Teheran, Israele.

Il ministero degli Esteri di Baku, Jeyhun Bayramov, ha convocato l’ambasciatore iraniano comunicandogli che i quattro dipendenti dell’ambasciata hanno 48 ore per lasciare il paese poiché sono stati dichiarati persone non gradite per aver svolto attività incompatibili con lo status diplomatico, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Le relazioni tra l’Iran e l’Azerbaigian, non sono mai state lineari, inoltre, a causa di continui avvenimenti, i due rivali non riescono a trovare punti d’incontro. A gennaio, l’Azerbaigian aveva deciso di chiudere la sua ambasciata a Teheran dopo che il suo capo della sicurezza era rimasto ucciso durate un attacco. Tuttavia, l’amministrazione azera poco tempo fa ha aperto un’ambasciata in Israele, azione criticata dall’Iran che considera l’avvicinamento tra Baku e Gerusalemme come “anti-iraniano”.

Anche Baku critica l’Iran per il presunto sostegno all’Armenia nel conflitto decennale sulla regione separatista del Nagorno-Karabakh.

Ripresa dei rapporti diplomatici tra l’Arabia Saudita e l’Iran

I rappresentati dell’Arabia Saudita e dell’Iran si sono incontrati lo scorso giovedì 6 aprile a Pechino per discutere i dettagli chiave della ripresa delle relazioni bilaterali. La visita segue lo storico mediato dalla Cina il mese scorso.

I due Paesi hanno deciso la riapertura delle ambasciate a Teheran e a Riyad, di incoraggiare le visite di delegazioni ufficiali e private, e di facilitare i visti per i cittadini iraniani e sauditi. Hanno inoltre concordato di discutere la ripresa dei voli tra i due Paesi.

Si è trattato del  primo incontro formale tra il ministro degli Esteri saudita, principe Faisal bin Farhan Al Saud, e il suo omologo iraniano, Hossein Amirabdollahian, dopo una frattura di anni tra Teheran e Riyad. La precedente situazione aveva alimentato l’instabilità nella regione.

«I gruppi tecnici continueranno a coordinarsi per esaminare le modalità di espansione della cooperazione», si legge in una dichiarazione congiunta riportata da Al Jazeera.

«Le due parti hanno sottolineato l’importanza di dare seguito all’attuazione dell’Accordo di Pechino e alla sua attivazione in modo da aumentare la fiducia reciproca e i campi di cooperazione. L’obiettivo è di contribuire a creare sicurezza, stabilità e prosperità nella regione», si legge nel comunicato.

Il video pubblicato giovedì dai media di Stato sauditi mostra i due ministri che si stringono la mano mentre posano per le foto, incoraggiati dal ministro degli Esteri cinese Qin Gang, che si trova al centro.

La ripresa delle relazioni tra i due Paesi è stata ampiamente vista come una vittoria diplomatica della Cina in una regione del Golfo che è stata a lungo considerata parte del dominio di influenza degli Stati Uniti.

L’alto diplomatico cinese Wang Yi ha definito l’accordo una «vittoria per il dialogo e per la pace”, secondo quanto riportato dalla CNN. Inoltre, lo ha definito come risultato del «ruolo costruttivo della Cina nel facilitare la corretta risoluzione delle questioni più scottanti in tutto il mondo», in una dichiarazione del Ministero degli Esteri cinese di marzo, quando è stato annunciato l’accordo.

L’Arabia Saudita e l’Iran hanno rotto i legami formali nel 2016, dopo che i manifestanti iraniani attaccarono l’ambasciata saudita in risposta all’esecuzione da parte del regno del leader musulmano sciita Nimr al-Nimr .

Il regno chiese poi ai diplomatici iraniani di lasciare il Paese entro 48 ore, mentre deliberò l’evacuazione del personale dell’ambasciata da Teheran.

I due Paesi hanno anche sostenuto i fronti opposti della guerra civile in Yemen e del conflitto siriano.

Il ripristino dei legami tra Iran e Arabia Saudita giunge in un momento di grandi cambiamenti nelle dinamiche di potere della regione.

Australia: un dingo attacca una bambina sull’isola di K’gari-Fraser

Una bambina di sei anni, identificata solo come una giovane turista, è stata aggredita da un dingo sull’isola australiana di K’gari-Fraser, nel Queensland, lunedì 3 aprile. La minore stava nuotando quando l’animale «l’ha afferrata e bloccata sott’acqua per alcuni secondi», riferiscono i soccorritori.

I familiari della vittima hanno prontamente cercato di liberarla dalla morsa del dingo, il che, però, non ha fermato l’animale dal mordere la bambina, causandole ferite alla testa e alle dita, riporta la BBC.

I soccorsi sono stati chiamati alle 16:40 ora locale e un’eliambulanza LifeFlight ha raggiunto il luogo dell’attacco. I paramedici hanno assistito la bambina sul posto prima che venisse trasportata in ospedale.

Secondo il Queensland Parks e Wildlife Service (QPWS), la bambina stava nuotando in una laguna poco profonda quando il dingo si è avvicinato e l’ha afferrata per la testa.

Ritengono inoltre che l’animale coinvolto sia un maschio non tracciato. «I rangers stanno indagando sull’incidente», ha dichiarato ilQPWS in una nota.

«Il Queensland Parks e Wildlife Service è profondamente dispiaciuto per ciò che è accaduto alla bambina e alla sua famiglia e le augura una pronta guarigione», ha aggiunto.

L’isola di K’gari-Fraser, nel Queensland, è una popolare destinazione turistica dichiarata Patrimonio dell’Umanità, nota per ospitare circa 200 dingo selvatici.

L’anno scorso, un bambino di cinque anni è stato trasportato in ospedale con l’ausilio di un’eliambulanza per morsi alla testa, a un braccio e alle natiche dopo un attacco sulla spiaggia da parte di un dingo.

Nel 2001, invece, un bambino di nove anni ha perso la vita vicino a un campeggio dell’isola, in quello che viene riconosciuto come il primo attacco mortale da parte di un dingo in Australia dalla morte di Azaria Chamberlain, di nove settimane, a Uluru-Ayers Rock, nel Territorio del Nord, nel 1980.

Afghanistan: nelle Nazioni Unite non c’è posto per le donne

Il governo talebano decide di vietare alle donne afghane, dipendenti delle Nazioni Unite, di lavorare sul territorio afghano.

Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha affermato che la decisione del governo talebano va a compromettere la capacità delle organizzazioni umanitarie di lavorare in Afghanistan, dove circa 23 milioni di persone, più della metà della popolazione del paese, hanno bisogno di aiuto, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

In segno di protesta alle ulteriori restrizioni sulle donne, le Nazioni Unite hanno chiesto al proprio personale di non presentarsi negli uffici per 48 ore, ha affermato un alto funzionario delle Nazioni Unite, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

I portavoce dell’amministrazione talebana e del ministero dell’informazione afghano non hanno lasciato nessuna dichiarazione rispetto alla decisione del governo.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, considera inconcepibile qualsiasi divieto alle donne afgane di lavorare per le Nazioni Unite nel loro paese.

Le Nazioni Unite stanno esaminando le conseguenze della nuova disposizione del governo talebano e come questa influenzerà le operazioni che l’organizzazione svolge sul territorio.

I talebani, dopo essere ritornati al potere, hanno dichiarato di voler rispettare i diritti delle donne in conformità con la loro interpretazione della legge islamica, questo però ha comportato il rafforzamento dei controlli sull’accesso delle donne alla vita pubblica. 

Regno Unito: pubblicato l’invito ufficiale per l’incoronazione di re Carlo III

Buckingham Palace ha pubblicato sulle pagine social l’invito ufficiale per l’incoronazione di re Carlo III, che avverrà il prossimo 6 maggio nell’Abbazia di Westminster. Per la cerimonia sono stati scelti otto paggetti d’onore, tra cui George, il figlio di William e Kate, principi di Galles. L’invito sarà consegnato a oltre 2000 ospiti ed è stato esteso anche a Harry e Megan, ma non si hanno ancora notizie ufficiali circa la loro partecipazione.

Sul frontespizio, la dicitura “Incoronazione di Sua Maestà re Carlo III e della regina Camilla” fa intendere che Camilla non sarà incoronata regina consorte, bensì solo regina. Secondo la BBC, infatti, il titolo di regina consorte è stato fino ad ora utilizzato per distinguere Camilla dalla defunta Elisabetta II, ma l’incoronazione rappresenterà il momento appropriato per passare ufficialmente al titolo di regina.

L’invito è stato disegnato dall’artista araldico Andrew Jamieson, il cui lavoro è ispirato ai temi cavallereschi della leggenda arturiana. Jamieson è un confratello dell’Art Worker’s Guild, di cui re Carlo è membro onorario. L’opera originale è stata dipinta a mano con acquerello e gouache e sarà stampata su cartoncino riciclato, a sottolineare la particolare attenzione del re nei confronti del pianeta e della natura.

L’immagine centrale dell’invito è il volto dell’Uomo verde, un’antica figura appartenente al folklore britannico che simboleggia la primavera e la rinascita, nonché la celebrazione del nuovo regno. Il suo volto è costituito da una serie di elementi emblematici del Regno Unito, quali foglie di quercia, edera e biancospino. I fiori raffigurati, raccolti in gruppi di tre, indicano che il re è diventato il terzo monarca del suo nome. Inoltre, sull’opera compaiono anche un leone, un unicorno e un cinghiale, tratti dagli stemmi di re Carlo e del padre della regina Camilla, il maggiore Bruce Shand.

Secondo alcune fonti del The Guardian, la figura predominante dell’Uomo verde sull’invito, potrebbe indicare l’inclinazione a una cerimonia quasi pagana, ma il re si è dimostrato più volte essere vicino alla religione e, durante l’incoronazione, verrà unto con l’olio crismale consacrato recentemente da Sua Beatitudine Theophilos III nella Chiesa del Santo Sepolcro, a Gerusalemme.

Processo Gandhi: nuova udienza il 13 aprile

Il leader dell’opposizione indiana, Rahul Gandhi, ha presentato ricorso davanti al tribunale contro la sua condanna per diffamazione. Il tribunale indiano della città di Surat, nello stato del Gujarat, ha accolto il ricorso del leader spostando l’udienza al 13 aprile.

Rahul Gandhi è un politico indiano, discendente dalla famiglia Nehru-Gandhi, una delle famiglie più potenti dell’India. Nel 2007, Rahul è stato nominato segretario generale dell’All Indian Congress Committee, carica che avrebbe potuto portarlo alla guida del Pese in caso di vittoria da parte del Partito del Congresso alle ultime elezioni.

Il 23 marzo il tribunale di primo grado aveva condannato il leader 52enne, Gandhi, a due anni di carcere con l’accusa di diffamazione a causa di un commento fatto durante un discorso nel 2019 per la campagna elettorale delle elezioni generali.

Nel discorso, il leader del Congresso aveva fatto riferimento a due uomini d’affari latitanti, entrambi soprannominati Modi, come il primo ministro Narendra Modi, e aveva chiesto alla platea: «Come mai tutti i ladri hanno il nome Modi?», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Dopo la condanna del tribunale, nel marzo del 2023, il parlamento indiano ha espulso Gandhi facendo riferimento alla legge sulle elezioni in India, la quale prevede l’espulsione di qualsiasi legislatore che sia condannato per qualsiasi reato con una pena non inferiore a due anni di reclusione.

L’opposizione, di cui Gandhi è il leader, ha dichiarato che: la condanna e la squalifica del leader dal parlamento, rappresentano la forza e le tattiche intraprese dal governo Modi per cercare di contrastare i nemici politici.

Il giorno dopo la condanna di Gandhi, 14 partiti politici hanno presentato congiuntamente una petizione alla Corte Suprema, affermando che i gruppi di opposizione erano stati selettivamente presi di mira dalle agenzie investigative federali

Il promettente farmaco contro l’Alzheimer provoca una riduzione del cervello

Il farmaco più promettente degli ultimi decenni per la cura dell’Alzheimer riduce le dimensioni del cervello dei pazienti, ma non si sa perché e quali effetti a lungo termine possa avere. Si tratta del lecanemab, che permetterebbe di rallentare il declino cognitivo associato all’Alzheimer, nelle prime fasi della malattia. Tuttavia, il farmaco, che si trova ancora in una fase sperimentale, mostra effetti collaterali preoccupanti, come piccole emorragie che potrebbero causare la morte.

Un nuovo studio ha esaminato un altro effetto collaterale di questo e di altri farmaci simili: l’accelerazione del restringimento del cervello nei pazienti che lo assumono. Secondo l’analisi, le persone che ricevono il lecanemab subiscono una riduzione delle dimensioni del cervello del 28% superiore rispetto a quelle che assumono un placebo. Il donanemab, un altro farmaco sperimentale, simile al precedente, ha prodotto lo stesso effetto.

Nel 1901, una donna di 50 anni affetta da paranoia, insonnia, improvvisi sbalzi d’umore e perdita di memoria viene visitata dal neurologo tedesco Alois Alzheimer. Il suo nome era Auguste Deter. Gli appunti del medico relativi ai dialoghi con la donna ritraggono i danni di questa malattia: «Si alza dal letto con un’espressione impotente. Come ti chiami? Auguste. Cognome? Auguste. Come si chiama suo marito? Auguste. […] Sei sposata? Sì, con Auguste». Alzheimer poté fare ben poco per la sua paziente, che morì cinque anni dopo. In seguito all’analisi del cervello della donna, il medico è riuscito a descrivere le lesioni caratteristiche della malattia.

Sebbene la causa della malattia sia sconosciuta, è noto che provoca la morte dei neuroni e che il cervello dei malati si restringe progressivamente. Ecco perché è sorprendente che un farmaco che dovrebbe rallentarla sia causa di un restringimento cerebrale addirittura superiore a quello della malattia stessa.

Il lecanemab è in fase di approvazione negli Stati Uniti e in Europa. I dati disponibili relativi al farmaco si basano su uno studio clinico condotto su oltre 1.700 pazienti con malattia in forma lieve in 14 paesi.

Diversi esperti avvertono che probabilmente sarà necessario monitorare la situazione per tre o quattro anni per capire se i benefici osservati continuano o si stabilizzano. Inoltre, prima dell’approvazione, è importante risolvere tutte le incognite relative al nuovo farmaco.

«La perdita di volume cerebrale con questo tipo di farmaci è nota da tempo, ma in molte occasioni è stata ignorata. È logico pensare che l’atrofia cerebrale osservata sia una conseguenza della perdita di neuroni. Si può sostenere che sia dovuta all’eliminazione della proteina amiloide patologica, ma questo è quanto meno opinabile», spiega David Pérez, primario di neurologia dell’Ospedale 12 de Octubre di Madrid, secondo quanto riportato da El Pais.

«Ora, la cosa più importante è stabilire se dopo cinque o sei anni di trattamento con il lecanemab i suoi effetti positivi aumentino, il che sarebbe già un effetto terapeutico sorprendente, o rimangano stabili, come è successo con i farmaci precedenti. Ad ogni modo, l’approvazione completa di questo farmaco sarebbe prematura», ha aggiunto Pérez.

Esplosione a San Pietroburgo: ucciso Vladlen Tatarsky, blogger favorevole alla guerra tra i più seguiti

Lo scorso 2 aprile Vladlen Tatarsky, blogger pro-guerra da 560.000 followers, è stato ucciso da un’esplosione in un cafè di San Pietroburgo. Più di 30 persone sono rimaste ferite nell’attentato. Come riportato dal Guardian, la bomba era nascosta in una statua che doveva essere un regalo per Tatarsky durante un incontro pubblico.

Tatarsky era uno dei blogger più seguiti che, oltre a essere favorevole alla guerra in Ucraina, ha criticato anche i procedimenti utilizzati dal Governo russo senza però mai menzionare Putin. Solitamente, questi blogger hanno combattuto in precedenza al fronte, perciò molti di loro si sentono in potere di criticare le scelte politiche effettuate dal Governo. Proprio per questo motivo, il Presidente russo ha instituito una task force volta a coordinare il Governo con i blogger emergenti.

Il capo del gruppo Wagner, Evgenij Prigožin, ha sottolineato che non incolpa «il regime di Kiev» per l’atto terroristico ma piuttosto «un gruppo di radicali». Tant’è che la polizia di San Pietroburgo ha arrestato una donna sospettata d’essere l’autrice di questo attentato avendo già partecipato, e per questo detenuta, a varie manifestazioni contro la guerra in Ucraina.

Secondo quanto riferisce la BBC, la 26enne Darya Trepova appare in un video rilasciato dal Ministero dell’Interno russo nel quale ammette di aver portato la statua nel locale. Ciononostante, la sua affermazione sembra essere stata ottenuta sotto costrizione e lei non dice apertamente di essere consapevole della presenza di esplosivo dentro la statua. Gli amici e i familiari della donna non credono che lei abbia potuto fare un gesto simile, nonostante fosse contraria alla guerra. Suo marito ha espresso dubbi sulla veridicità dell’accusa, poiché crede che Darya non avrebbe mai fatto un atto del genere se ne fosse stata consapevole.

Nel caso in cui Tatarsky sia stato veramente il mirino di tale atto, sarebbe così la seconda persona favorevole alla guerra a essere stata uccisa. Nell’agosto del 2022, infatti, Darya Dugina, la figlia di un ultra-nazionalista russo, venne uccisa da una bomba inserita nella propria auto.

Le forze statunitensi hanno ucciso un importante leader dello Stato Islamico in Siria

Lo scorso lunedì 3 marzo le forze armate statunitensi hanno ucciso un leader dello Stato Islamico in Siria, secondo quanto dichiarato dal Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM). Il gruppo, tuttavia, è ancora considerato una seria minaccia.

Il CENTCOM in un comunicato ha identificato l’uomo assassinato in Khalid ‘Aydd Ahmad al-Jabouri. Secondo quanto affermato, l’uomo era responsabile della pianificazione di attacchi dello Stato Islamico in Europa e Turchia. Inoltre avrebbe sviluppato la struttura di leadership del gruppo nel territorio turco.

Secondo alcune fonti siriane, al-Jabouri è stato ucciso in un attacco per mezzo di un drone nel nord-ovest del Paese. Nella stessa regione si sono nascosti altri personaggi di spicco dello Stato Islamico, tra cui l’ex leader Abu Bakr al-Baghdadi, morto durante un raid condotto dagli Stati Uniti nel 2019.

Il CENTCOM ha dichiarato che non vi sono stati civili uccisi o feriti nell’attacco. Inoltre il comandante, il generale Michael Kurilla, ha aggiunto che: «sebbene degradato, il gruppo rimane in grado di condurre operazioni all’interno della regione. Oltre a ciò ha il desiderio di colpire oltre il Medio Oriente». La morte di Jabouri avrebbe «temporaneamente interrotto la capacità del gruppo di pianificare attacchi esterni».

Secondo quanto riportato dalla Reuters, una fonte dell’intelligence regionale ha affermato che al-Jabouri era stato monitorato negli ultimi mesi mentre si spostava tra le città siriane di al-Hasaka, Raqqa, Jarablus e al-Bab. Si trovava nella provincia di Idlib quando è stato ucciso.

«Un informatore ha avvisato le forze statunitensi sul fatto che al-Jabouri si trovasse a Idlib, quindi lo hanno messo sotto sorveglianza per un certo periodo e poi hanno eseguito l’attacco», ha detto la fonte. «È stato ucciso mentre faceva una telefonata», ha aggiunto.

L’uomo è stato attaccato vicino alla sua abitazione alla periferia del villaggio di Keftin, a pochi chilometri da dove Baghdadi è stato ucciso nel 2019. Viveva con la moglie e il figlio di 12 anni. Era originario di Deir al-Zor, nel sud-est della Siria.

L’ISIL non ha commentato l’annuncio degli Stati Uniti, né i suoi sostenitori online ne hanno discusso. Khalid al-Jabouri non era stato identificato pubblicamente nella propaganda del gruppo, secondo quanto riporta la BBC.

Si stima che l’ISIL abbia tra i 5.000 e i 7.000 membri e sostenitori sparsi tra Iraq e Siria, di cui circa la metà sono combattenti. Questi risiedono per lo più nelle zone rurali e continuano a compiere attentati, imboscate e bombardamenti stradali.

Russia: l’India diventa il nuovo partner economico per le vendite di petrolio

Le vendite di petrolio russo all’India aumentano di 22 volte rispetto all’anno scorso.

Dopo il conflitto in Ucraina, gli acquirenti europei hanno preferito rivolgersi ad altri stati per le importazioni di petrolio.

Alexander Novak, vice primo ministro della Federazione Russa, ha dichiarato nei commenti riportati dalle agenzie di stampa russe: «La maggior parte delle nostre risorse energetiche è stata reindirizzata ad altri mercati, ai mercati di paesi amici», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Mentre la Russia sposta le sue esportazioni di petrolio in India e Cina, le nazioni dell’Unione Europea, dopo l’invio delle truppe russe in Ucraina, cercano nuovi metodi per diminuire la loro dipendenza energetica dalle forniture russe.

L’UE, a causa delle azioni della Russia, a dicembre ha imposto un embargo sul petrolio russo trasportato via mare, concordando con le potenze del Gruppo dei Sette un prezzo massimo sul greggio russo.

La Russia rappresenta uno dei principali produttori di petrolio, tuttavia, dopo le sanzioni dell’occidente, ha tagliato la produzione di greggio di 500.000 barili nell’ultimo mese.

Ad oggi, l’attenzione della Russia consiste nell’investire in nuovi mercati, in quegli stati che considera “amici”: la Cina e l’India.

L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha dichiarato questo mese che le entrate dalle esportazioni di petrolio della Russia sono diminuite di quasi la metà a febbraio rispetto allo scorso anno, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Canada: identificati i corpi dei migranti trovati nel fiume San Lorenzo

Le autorità canadesi e i familiari delle vittime hanno identificato gli otto corpi trovati la scorsa settimana nel fiume San Lorenzo, nel territorio di Mohawk, al confine tra Canada e Stati Uniti tra giovedì 30 e venerdì 31 marzo.

Tra di loro una coppia originaria della Romania e i loro figli. La seconda famiglia è stata invece identificata dai parenti venuti dall’India. La persona che guidava la barca, Casey Oakes, uomo di trent’anni di Akwesasne, Stati Uniti, rimane invece disperso.

La polizia ha dichiarato che la barca dell’uomo è stata ritrovata nelle vicinanze dei corpi recuperati. Non è stato però ipotizzato nessun collegamento tra le morti dei migranti e l’uomo, riporta la BBC.

La coppia romena è stata identificata come Florin Iordache e Cristina (detta Monalisa) Zenaida Iordache, entrambi di 28 anni. I loro figli, invece, erano un bambino di 1 anno e uno di 2.

Florin Iordache è stato trovato con due passaporti canadesi in tasca che appartenevano ai suoi figli, entrambi nati in Canada.

Gli altri quattro corpi rinvenuti appartengono a una famiglia indiana originaria del Gujarat. Sono stati identificati come Praveeni Chaudhary, 50 anni, sua moglie Diksha, 45, il loro figlio Meet, 20, e la loro figlia Vidhi, 24. Un parente della famiglia ha dichiarato che la cognata e i due figli erano partiti per il Canada due mesi fa con visti turistici.

Justin Trudeau, il primo ministro canadese, ha dichiarato alla stampa che «la tragedia è incommensurabile» ed ha aggiunto, inoltre, che il Canada necessita di un sistema di immigrazione «rigoroso» che accolga i più vulnerabili.

Gli agenti alla frontiera statunitense hanno notato un aumento di persone che tentano di entrare negli Stati Uniti attraversando il Canada: sono 367 le persone che hanno tentato la traversata e sono state arrestate dall’inizio del 2023.

La proposta di legge per la tutela della lingua italiana contro l’anglomania

Lo scorso 23 dicembre 2022 Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia, ha presentato una proposta di legge, che deve essere ancora discussa in Parlamento, per la tutela della lingua italiana nei confronti di una certa “anglomania” diffusa in Italia.

La proposta di legge denominata “Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana” ha come obiettivo la salvaguardia della lingua nazionale attraverso multe dai 5.000 fino a 100.000 euro per i trasgressori. Come riportato dalla CNN, quindi, la lingua italiana sarà obbligatoria per la promozione e l’uso dei servizi pubblici poiché, come è possibile leggere nella proposta di legge, «questi forestierismi ossessivi rischiano, […], nel lungo termine, di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa, e, in particolare, l’uso e l’abuso di termini stranieri rischiano di penalizzare l’accessibilità alla democrazia partecipata».

Non sarà più possibile utilizzare acronimi e sigle inglesi, a parte i casi in cui manchi un corrispettivo in lingua italiana, per «le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle aziende che operano nel territorio nazionale». Inoltre, è richiesto che chiunque ricopra cariche negli enti pubblici e privati abbia padronanza scritta e orale della lingua nazionale. Come sottolineato dalla testata statunitense, «anche negli uffici che si trovano a contatto con stranieri, che non parlano italiano, la lingua italiana dovrà essere utilizzata come lingua primaria».

In aggiunta, il Ministero della Cultura dovrà instituire una Commissione il cui compito, tra quelli proposti, è quello di promuovere «l’uso corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità». Infine, la giornalista statunitense Barbie Latza Nadeau conclude l’articolo della CNN con una battuta scherzosa, ossia «dire “brushetta” anziché “bruschetta” potrebbe essere un reato punibile» per la pronuncia, a volte scorretta, dei turisti anglofoni che visitano il Bel Paese.

L’OPEC+ ha annunciato tagli alla produzione di petrolio

0

Lo scorso 2 aprile l’Arabia Saudita e altri membri dell’OPEC+ hanno annunciato ulteriori tagli alla produzione di petrolio per circa 1,16 milioni di barili al giorno (bpd). Si tratta di una mossa a sorpresa che, secondo gli analisti, causerà un immediato rialzo dei prezzi. Gli Stati Uniti ritenevano la decisione “sconsigliabile”.

La scelta porta il volume totale dei tagli dell’OPEC+, che raggruppa l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, la Russia e altri Paesi, a 3,66 milioni di bpd, secondo quanto riportato da Reuters, pari al 3,7% della domanda globale.

Nella giornata di lunedì 3 aprile era prevista in modalità virtuale la Riunione Ministeriale dell’OPEC+, con la partecipazione anche dell’Arabia Saudita e della Russia.

Il responsabile della società di investimenti Pickering Energy Partners ha dichiarato che le ultime riduzioni potrebbero far salire i prezzi del petrolio di 10 dollari al barile. Mentre il broker petrolifero PVM ha detto di aspettarsi un balzo immediato all’avvio delle contrattazioni dopo il fine settimana.

«Mi aspetto che il mercato apra con diversi dollari in più, forse fino a 3 dollari», ha dichiarato Tamas Varga di PVM.

Lo scorso ottobre, l’OPEC+ aveva concordato tagli alla produzione di 2 milioni di bpd a partire da novembre. La decisione aveva suscitato la reazione di Washington, poiché la restrizione dell’offerta avrebbe fatto aumentare di molto i prezzi del petrolio.

«Non pensiamo che i tagli siano consigliabili in questo momento, data l’incertezza del mercato. Lo abbiamo detto chiaramente», ha dichiarato un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale.

I tagli volontari inizieranno a maggio e dureranno fino alla fine dell’anno.

L’Iraq ridurrà la sua produzione di 211.000 bpd, secondo una dichiarazione ufficiale. Gli Emirati Arabi Uniti hanno affermato che taglieranno la produzione di 144.000 bpd, il Kuwait ha annunciato un taglio di 128.000 bpd, mentre l’Oman di 40.000 bpd e l’Algeria di 48.000 bpd. Anche il Kazakistan taglierà la produzione di 78.000 bpd.

Il vice primo ministro russo ha dichiarato che Mosca estenderà il taglio volontario di 500.000 bpd fino alla fine del 2023.

Dopo le riduzioni unilaterali della Russia, i funzionari statunitensi avevano affermato che l’alleanza con gli altri membri dell’OPEC+ si stava indebolendo, ma la mossa di domenica dimostra che la cooperazione è ancora forte.

econdo quanto riportato da Al Jazeera, un funzionario del ministero dell’Energia saudita ha dichiarato che «si tratta di una misura precauzionale volta a sostenere la stabilità del mercato petrolifero».

Lo scorso marzo i prezzi del petrolio sono scesi verso i 70 dollari al barile, il livello più basso degli ultimi 15 mesi. È stata una reazione alla crisi bancaria dovuta al fallimento di due istituti di credito statunitensi e al salvataggio di Credit Suisse da parte di UBS, una della più grandi banche svizzere.

La Turchia approva l’adesione della Finlandia alla NATO. La Svezia rimane in attesa

Lo scorso giovedì 30 marzo il Parlamento turco ha votato all’unanimità a favore dell’adesione della Finlandia alla NATO, rimuovendo l’ultimo ostacolo nel processo di adesione del paese scandinavo. La Turchia è stato l’ultimo dei 30 Paesi membri dell’alleanza a ratificare l’adesione, dopo che il parlamento ungherese aveva approvato una legge simile all’inizio della settimana.

Il Presidente Tayyip Erdogan aveva dichiarato che la Finlandia si era assicurata l’approvazione della Turchia dopo aver compiuto passi concreti riguardo alla repressione di gruppi considerati terroristici da Ankara.

L’adesione della Finlandia rappresenterebbe il primo allargamento da quando la Macedonia del Nord ha aderito all’alleanza nel 2020.

In una dichiarazione dopo il voto, il presidente finlandese Sauli Niinistö ha detto che il suo Paese è «pronto a entrare nella NATO».

«Tutti i membri della NATO hanno ratificato l’adesione della Finlandia. Voglio ringraziarli per la fiducia e il sostegno», ha dichiarato Niinistö secondo quanto riportato dalla CNN. «La Finlandia sarà un alleato forte e capace, impegnato nella sicurezza dell’Alleanza». Ha infine aggiunto: «Siamo ansiosi di accogliere la Svezia tra noi il prima possibile».

Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato di aver accolto con favore la ratifica della Finlandia da parte della Turchia e di averla incoraggiata a ratificare rapidamente anche l’adesione della Svezia. «I due Paesi sono partner forti e capaci, condividono i valori della NATO e rafforzeranno l’alleanza, contribuendo alla sicurezza europea”, ha dichiarato un portavoce del Dipartimento.

La Finlandia e la Svezia hanno richiesto di entrare nella NATO lo scorso anno in risposta all’invasione russa dell’Ucraina. Il processo è stato bloccato dalla Turchia e dall’Ungheria. I parlamenti di tutti i membri della NATO devono ora ratificare le nuove adesioni.

La Turchia non ha ancora approvato la candidatura di adesione della Svezia. Secondo Ankara la Svezia non avrebbe fatto abbastanza nella repressione di gruppi considerati terroristici. I tre Paesi hanno firmato un patto sulla questione nel 2022.

Secondo quanto riportato da Reuters, i colloqui tra Svezia e Turchia hanno fatto pochi progressi, soprattutto a seguito di diverse controversie. Le tensioni tra i due Paesi riguardano principalmente le proteste in piazza di gruppi filo-curdi a Stoccolma.

La NATO ha una politica delle porte aperte, quindi qualsiasi Paese può essere invitato ad aderire se manifesta interesse, purché sia in grado di rispettare i principi del trattato istitutivo del blocco e sia disposto a farlo. Tuttavia, in base alle regole di adesione, ogni Stato membro può porre il veto all’ingresso di un nuovo Paese.

La Turchia è un potente membro della NATO, con il secondo esercito più grande del blocco dopo gli Stati Uniti. La sua posizione sul fianco sud-orientale dell’alleanza la rende un membro strategicamente importante. Il fatto che sia entrata a far parte dell’Alleanza nel 1952, appena tre anni dopo la sua fondazione, ne accresce il peso.

Cile: schierate le Forze Armate per ridurre l’immigrazione clandestina

L’arrivo di migranti clandestini nel nord del Cile è diminuito del 54,5% nei primi tre mesi dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2022. Il forte calo è dovuto in gran parte allo schieramento delle Forze Armate ordinato dal Governo di Gabriel Boric in tre regioni della cosiddetta ‘Macrozona Nord’ del Paese, al confine con Bolivia e Perù.

La misura, approvata dal Parlamento, è entrata in vigore un mese fa per far fronte alla questione dell’immigrazione clandestina e alla crisi di sicurezza nell’area che rappresenta la principale porta d’ingresso nel Paese sudamericano per gli stranieri sprovvisti di documenti.

Secondo quanto riportato da El Pais, i venezuelani, che nel primo trimestre dell’anno scorso costituivano l’80% degli arrivi, ora ne rappresentano solo il 36%; il resto sono cittadini boliviani. «Questi sono dati oggettivi e possono dimostrare i risultati ottenuti dalle Forze Armate sul confine settentrionale», ha riferito questa settimana il sottosegretario agli Interni Manuel Monsalve mentre si trovava a Iquique, capitale della regione di Tarapacá, dove si concentrano i tre quarti degli arrivi di migranti clandestini.

Il numero medio settimanale di ingressi rilevati nei primi mesi del 2022 ammonta a 967 persone. «Qual è la realtà di quest’anno? Al 19 marzo, si registra una media di 440 persone, il 55% in meno di ingressi alla frontiera settentrionale del Paese», ha continuato Monsalve.

Inoltre, secondo i dati riportati dall’istituzione militare dei Carabineros de Chile e dalle Forze Armate, anche le cifre relative ai rimpatri degli stranieri clandestini è cambiato: un anno fa, solo il 10% era stato rimpatriato nel Paese d’origine, mentre ora la percentuale è del 59%.

Durante la ventottesima edizione del vertice iberoamericano a Santo Domingo, tenutasi la scorsa settimana, il Presidente Boric ha esortato gli altri leader presenti ‘a collaborare tra Paesi di origine, di transito e di destinazione’.

In occasione di una recente visita del presidente a Colchane, una piccola città di confine con la Bolivia che è arrivata ad avere più stranieri senza documenti che abitanti, il presidente ha dichiarato di aver incaricato il nuovo ministro degli Esteri, Alberto van Klaveren, di rafforzare i colloqui con i paesi vicini, in particolare con la Bolivia, con cui le relazioni diplomatiche risultano interrotte dal 1978.

La misura eccezionale di schieramento dei militari nella Macrozona Nord è valida per 90 giorni, con possibilità di proroga. Gli agenti possono svolgere tre funzioni: controllo dell’identità, controllo del bagaglio nel caso in cui vi sia un elemento che indichi la commissione di un reato e arresto nel caso in cui entrino senza documenti.

Nelle aree in cui sono stati dislocati i militari si concentra un aumento a livello nazionale dei crimini associati al traffico di esseri umani, armi e droga. Nel caso di Tarapacá, è anche il luogo con il più alto tasso di omicidi associati alla criminalità organizzata in Cile.

L’ex leader Bolsonaro torna a Brasilia: «non ricopro alcuna carica, ma non sono in pensione»

Jair Bolsonaro è rientrato in patria mercoledì 29 marzo da Orlando (Florida), dove alloggiava dalla fine di dicembre. L’ex presidente torna con l’intenzione di guidare la destra brasiliana.

Alcune centinaia di sostenitori lo hanno atteso all’aeroporto per dargli il benvenuto. Bolsonaro e il suo partito volevano un’accoglienza massiccia all’aeroporto, ma la polizia e le autorità hanno deciso che per motivi di sicurezza era meglio evitare la folla.

Tuttavia, il suo spazio di manovra dipenderà dall’evoluzione delle molteplici indagini ancora aperte che lo riguardano, tra le quali: la diffusione di falsità riguardo la gestione irresponsabile della pandemia, sul presunto genocidio di indigeni e altre ancora. Per questo motivo, si ritiene più probabile che la magistratura brasiliana lo squalifichi dalle elezioni per otto anni piuttosto che incarcerarlo.

Bolsonaro è atterrato a Brasilia di prima mattina, con un volo di linea, ed è subito stato convocato dalla polizia per deporre in merito al gioiello di diamanti (dal valore di oltre tre milioni di euro) donatogli dalla famiglia reale saudita, che ha portato a casa in modo irregolare, un altro dei casi in cui è indagato.

«Non ricopro alcuna carica, ma non sono in pensione», ha dichiarato l’ex presidente qualche ora dopo il suo arrivo. «Impediremo a queste persone che per ora sono al potere, e per un breve periodo, di poter fare quello che vogliono con il nostro Paese», ha continuato nella sede del suo partito a Brasilia, secondo quanto riportato da El Pais.

In questi tre mesi, Bolsonaro, ha condotto la vita di un cittadino comune con visite a paninoteche, negozi e sporadici eventi pubblici, tra i quali, uno con Donald Trump e altri rivolti ai suoi compatrioti.

Bolsonaro, che non ha mai riconosciuto la sua sconfitta alle elezioni, è partito per gli Stati Uniti il 30 dicembre 2022, in un viaggio di cui nessuno era al corrente, per evitare di partecipare alla solenne cerimonia di consegna del potere al suo successore.

Una settimana dopo la nomina a presidente del leader della sinistra brasiliana, una folla di sostenitori bolsonaristi ha sferrato il più violento attacco alla democrazia brasiliana degli ultimi decenni, prendendo d’assalto le sedi del Congresso, della Presidenza e della Corte Suprema. Il violento episodio è stato ricondotto all’ultraconservatore, il quale è accusato di aver incoraggiato e fomentato l’assalto. Al riguardo, l’ex presidente continua a rimarcare che l’invasione delle istituzioni ‘è stata spontanea’.

In linea con il suo stile, l’ex presidente, ha rilasciato dichiarazioni poco chiare sul suo futuro. «Non guiderò nessuna opposizione», ha dichiarato alla CNN Brasile al suo ritorno. Tuttavia, ha anche proclamato la sua intenzione di ‘andare in giro per il Brasile, a fare politica’, portando alta la bandiera della destra conservatrice.

Giornalista statunitense arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio

Il giornalista Evan Gershkovich, che lavora per il Wall Street Journal, è stato arrestato in Russia il 30 marzo con l’accusa di spionaggio. Rimarrà in stato di arresto per almeno due mesi, fino al 29 maggio.

Il Cremlino affermato che l’uomo è stato colto «in flagrante», ma il Wall Street Journal ha negato con forza le accuse. Anche la Casa Bianca ha condannato aspramente la decisione russa, riporta la BBC.

Evan Gershkovich, giornalista di 31 anni, è un noto corrispondente estero a Mosca. Steve Rosenberg, redattore di BBC Russia, lo descrive come «un eccellente reporter e un giornalista di sani principi».

Il Wsj ha affermato che il suo giornalista ha interrotto i contatti con i suoi redattori mentre lavorava a Ekaterinburg, a est di Mosca, mercoledì pomeriggio. L’autista di Gershkovich lo aveva lasciato in un ristorante e due ore dopo il suo telefono risultava spento. 

Per i servizi segreti russi (FSB) Evan Gershkovich è stato arrestato con l’accusa di aver «agito su istruzioni degli Stati Uniti», raccogliendo informazioni coperte da segreto di Stato sulle attività di un’imprese di difesa russa e per questo rischia 20 anni di carcere.

Gli agenti dell’FSB hanno portato il giornalista al tribunale distrettuale di Lefortovo a Mosca, dove è stato formalmente arrestato.

Il viceministro degli Esteri russo Sergej Ryabkov ha dichiarato alle agenzie di stampa locali che è troppo presto per discutere di scambi di prigionieri: «Gli scambi avvenuti in precedenza sono avvenuti tra persone che stavano già scontando una condanna».

Non è la prima volta che un cittadino americano è detenuto in Russia per spionaggio. Prima dello scoppio della guerra, la cestista Brittney Griner era stata bloccata e poi incarcerata a Mosca per aver trasportato olio di cannabis. La donna è stata liberata solo dopo 10 mesi grazie a uno scambio di detenuti.

I giovani francesi si uniscono alle proteste

Lo scorso 28 Marzo 90.000 studenti sono scesi nelle varie piazze francesi per manifestare contro l’atteggiamento del governo, considerato “autoritario”. A partire dalla riforma delle pensioni, che innalza l’età pensionabile da 62 a 64 anni entro il 2030, i giovani hanno voluto manifestare anche contro la scelta del Governo di utilizzare l’articolo 49.3 della Costituzione che permette al Primo Ministro di evitare il voto dell’Assemblea Nazionale facendo passare direttamente la legge in assenza di sfiducia esplicita.

Come riportato dal Guardian, in decine di Università sono state innalzate barricate dagli universitari, anche gli studenti delle scuole superiori di Parigi hanno bloccato l’accesso ai licei accatastando bidoni davanti alle entrate. La rabbia degli studenti si è accumulata con il passare del tempo_ prima con le restrizioni dovute dal Covid, durante le quali hanno cercato di risparmiare per un futuro che vedono lontano, per poi vedersi aumentare gli anni di lavoro e quelli dei loro genitori. In tutto ciò fra i giovani cresce anche l’ansia per la crisi climatica contro cui, a loro dire, il Governo non sta prendendo provvedimenti.

La risposta della polizia alle manifestazioni è stata dura, infatti, come segnala Le Monde, la preoccupazione dei giovani è data anche dalle repressioni della polizia. Alle manifestazioni erano presenti anche giovani che non avevano mai protestato prima, come Julie (nome di fantasia del quotidiano francese) che ha potuto partecipare alla manifestazione perché le lezioni del suo istituto sono state cancellate, aggiungendo che se le proteste proseguiranno ci sarà anche lei ammettendo, però, di avere «paura delle violenze della polizia».

Ci sono anche intere famiglie in piazza come Manon, Élise e la madre che hanno partecipato a più manifestazioni, perché «inizialmente venivamo per la riforma delle pensioni, ma adesso siamo arrabbiate per tutto. (…) La Francia ora è in crisi come non mai. L’ambiente è in crisi. Ma Macron non fa nulla». Le proteste probabilmente continueranno, secondo la confederazione dei sindacati, almeno fino al 14 aprile ossia il giorno in cui il consiglio costituzionale dovrà decidere se il contenuto e le modalità di approvazione della riforma pensionistica rispettino la Costituzione.

Zaporižžja: stato di massima allerta nella più grande centrale nucleare d’Europa

Il 29 marzo Rafael Grossi, direttore generale della Agenzia internazionale per l’energia atomica, si è recato nella centrale nucleare di Zaporižžja per controllare lo stato di quest’ultima e cercare di trovare un quadro comune di protezione. Questo richiede un accordo tra Russia ed Ucraina, altrimenti potrebbero verificarsi conseguenze disastrose per tutti, tanto che Grossi ha dichiarato che una situazione del genere non ha avuto precedenti nella storia, esprimendo quindi la sua preoccupazione.

A Zaporižžja è presente la più grande centrale nucleare d’Europa, segnala il Guardian, e i suoi sei reattori sono stati spenti; due di essi, però, continuano a fornire una quantità limitata di energia per la sussistenza civile. Ciononostante, i lavoratori della centrale sottolineano come questa sia una situazione drammatica poiché vi è un continuo stato di tensione. Nella zona, infatti, sono schierati gli eserciti russi ed ucraini: i primi hanno cercato di attaccare la centrale, mentre la milizia ucraina sta già preparando una contro offensiva per i prossimi mesi. Come riportato dal New York Times, i leader militari ucraini non hanno specificato dove si terranno i prossimi attacchi, ma presumibilmente nella regione del Donbass con il sostegno militare statunitense e degli altri alleati.

Grossi ha sottolineato la necessità di controllare la centrale nucleare, poiché altrimenti ci sarebbe un alto rischio di un incidente nucleare che non salverà nessuno, ucraini o russi. Per questo motivo, il direttore sta cercando di non attribuire responsabilità a nessuna delle due parti per evitare una possibile escalation. Ha dichiarato infatti: «(…) È una negoziazione complicata. Per questo motivo stiamo cercando di evitare di attribuire colpe a qualcuno, perché sarebbe una storia senza fine. Ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo, un solido impegno politico, al contrario di ciò che sta succedendo». Il direttore, inoltre, ha aggiunto che sia scontato come l’attività militare stia crescendo sempre di più nel territorio circostante, ma «questa è una centrale nucleare. Non è una base militare. Non dovrà mai essere una base militare».

Spagna: incendi anomali a causa del cambiamento climatico

Pochi giorni fa un incendio anomalo è divampato nelle città di Castellón e Teruel, bruciando circa 4.300 ettari di terreno e costringendo oltre mille residenti allo sfollamento. Questo è solo uno dei molteplici episodi che, in piena primavera, sta causano diversi disagi sul suolo spagnolo. Gli studiosi confermano, ancora una volta, che una delle cause principali è da attribuire al cambiamento climatico.

Fernando Valladares, ricercatore presso il Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC) e direttore del gruppo Ecología y Cambio Global del Museo Nazionale di Scienze Naturali, ha affermato che il riscaldamento globale “non causa gli incendi, ma è uno dei quattro o cinque fattori chiave” che li provocano. Tra questi, rientrano le temperature più elevate, la velocità del vento, la mancanza di precipitazioni nelle zone aride e l’accumulo di combustibile secco.

A tal proposito, i ricercatori hanno constatato che alla base dell’incendio verificatosi a Castellón e Teruel c’è, tra gli altri fattori, un aumento della siccità e un deficit idrico particolarmente intenso, risultato di un 2022 molto secco e caldo. Valladares ha spiegato, infatti, che nonostante la foresta risulti attualmente molto verde, il sottosuolo presenta solo un sottile strato umido, che porta alla crescita di una vegetazione più secca e quindi più propensa a prendere fuoco, a causa anche delle temperature relativamente più estive.

Víctor Resco de Dios, professore di Ingegneria Forestale all’Università di Lleida, ha dichiarato a RTVE.es che la stagione degli incendi si sta allungando in media di uno o due giorni ogni anno e che entro la fine del secolo sarà più lunga di tre mesi. Se attualmente il periodo interessato è quello compreso tra giugno e settembre, in futuro si estenderà da marzo a novembre. Inoltre, Resco de Dios aggiunge: “Dobbiamo aspettarci che queste anomalie, gli incendi fuori stagione, diventino sempre più frequenti con l’aggravarsi dei cambiamenti climatici”.

Per contrastare questo fenomeno che oggi risulta ancora anomalo ma che fra qualche anno non sarà più così strano, Valladares concorda sulla necessità di una gestione forestale che prevede lo smaltimento dei rifiuti agricoli non tramite combustione, bensì sminuzzandoli e restituendoli al terreno o spostandoli altrove. Questo perché se bruciati, i rifiuti potrebbero generare emissioni nocive per la salute della popolazione e delle aree circostanti, mentre se depositati nuovamente sul suolo di provenienza, permetterebbero alle foreste di rigenerarsi e mantenere la diversità delle specie.

Louise Michel: la nave umanitaria finanziata da Banksy in stato di fermo a Lampedusa

Domenica 26 marzo la nave della ONG finanziata dall’artista britannico Banksy, e dedicata all’insegnante e rivoluzionaria francese Louise Michel, è stata sequestrata a Lampedusa per i troppi salvataggi effettuati nel Mediterraneo. Come dichiarato dal Guardian, la nave sarà in stato di fermo per 20 giorni poiché il Governo italiano ha emanato nuove leggi sulle ONG, tra cui una che vieta la possibilità di salvataggi multipli. La nave, infatti, ha effettuato un primo soccorso e le autorità italiane hanno incaricato la Louise Michel di dirigersi verso il porto di Trapani. Tuttavia, a causa degli elevati numeri di chiamate da altre persone in difficoltà, l’equipaggio ha deciso di ripartire infrangendo le nuove disposizioni ministeriali. Direttamente dall’account Twitter della ONG si può leggere: «una delle navi si era rovesciata e 34 persone sono state salvate durante la notte. Una madre con il suo bambino privo di sensi sono stati evacuati insieme a una persona in pericolo di vita. Una Guardia costiera italiana era presente nel momento in cui le persone erano in acqua chiedendo aiuto, ma ha ignorato le continue chiamate di soccorso per 37 minuti, dopodiché ha deciso di intervenire».

Tutto ciò è accaduto dopo la tragedia avvenuta a febbraio a Cutro (KR) dove è avvenuto un naufragio di un’imbarcazione contente circa 200 persone, di cui 90 sono decedute. «Queste morti non sono né un incidente né una tragedia. Sono volute», così ha dichiarato su Twitter l’equipaggio della ONG Louise Michel. L’obiettivo di quest’ultima, come affermato dalla capitana Pia Klemp, è quello di superare la Guardia costiera libica prima che prenda i migranti ed i rifugiati per portarli nei campi di detenzione. Nel sito della ONG viene reso esplicito il fatto che sia inverosimile che in uno degli specchi d’acqua più trafficati d’Europa ci sia bisogno di navi umanitarie private. Gli stati europei, accusano ancora, hanno smesso di prendere in considerazione le varie richieste di aiuto di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo per salvarsi, con la conseguenza di rendere queste acque la frontiera più letale al mondo.

Israele: Netanyahu sospende la riforma della giustizia

Benjamin Netanyahu ha annunciato, nella serata dello scorso lunedì, il congelamento temporaneo della proposta che modificherebbe la composizione del Comitato per le nomine giudiziarie. Inoltre ha dichiarato la volontà di instaurare un «dialogo concreto» sulle riforme giudiziarie del governo.

La dichiarazione è arrivata dopo ore di negoziati, mentre il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir minacciava di lasciare il governo se la legislazione non fosse stata portata a termine nei tempi previsti. Netanyahu ha ottenuto l’approvazione di Ben-Gvir dopo aver promesso che il gabinetto, nella prossima riunione, avrebbe approvato il trasferimento della Guardia nazionale al ministero di Ben-Gvir.

«La riforma passerà», ha scritto su Twitter il ministro della Sicurezza nazionale lo scorso 28 marzo. «La Guardia nazionale sarà istituita. Il budget che ho richiesto per il Ministero sarà approvato nella sua interezza». Nei giorni precedenti Ben-Gvir avrebbe minacciato di lasciare il governo se Netanyahu avesse deciso di congelare la legislazione fino a dopo la pausa della Knesset tra il 2 e il 30 aprile.

Netanyahu ha affermato che il suo governo porterà avanti una riforma che «restituirà l’equilibrio che è stato perso tra i rami [del governo], salvaguardando e persino rafforzando i diritti individuali».

Ha poi aggiunto che il Paese si trova su un «sentiero pericoloso» e che non permetterà l’esplodere di una guerra civile.

«Fermare la legislazione è la cosa giusta», ha dichiarato il presidente Isaac Herzog dopo l’annuncio del Primo Ministro. «Questo è il momento di iniziare una conversazione onesta, seria e responsabile che calmerà rapidamente [le tensioni]».

«Per il bene della nostra unità e per il futuro dei nostri figli, dobbiamo iniziare a parlare qui e ora», ha scritto Herzog, secondo quanto riportato dal The Jerusalem Post.

Netanyahu è giunto a questa decisione dopo numerose tensioni, infatti lunedì pomeriggio il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha chiamato i suoi sostenitori all’azione. «Amici, in nessun caso dobbiamo fermare la riforma giudiziaria [che] rafforzerà la democrazia israeliana. Siamo la maggioranza, non dobbiamo cedere alla violenza, all’anarchia e agli scioperi selvaggi. Facciamo sentire la nostra voce». Concludendo: «Incontriamoci stasera alle 18, a Gerusalemme, davanti alla Knesset. Io sarò lì. Non possiamo permettere che rubino la nostra voce e la nostra nazione».

Il Partito Sionista Religioso, di cui Smotrich è membro, ha affermato: «Dopo un lungo dibattito, la nostra posizione è che non dobbiamo fermare la legislazione in alcun modo. Siamo stati disposti a parlare, a trovare un compromesso e un accordo per tutto il tempo, ma non sotto la minaccia di una rivoluzione nella democrazia israeliana».

María Kodama: muore la traduttrice e scrittrice argentina

María Kodama, vedova ed erede di Jorge Luis Borges, è morta domenica 26 marzo 2023 all’età di 86 anni. «Ora entrerai nel ‘grande mare’ con il tuo amato Borges. Che tu possa riposare in pace, María», ha pubblicato su Twitter il suo avvocato, Fernando Soto, confermando così il decesso della donna.

Traduttrice e docente di letteratura, Kodama soffriva di cancro al seno e viveva alla periferia di Buenos Aires. Si sposa con lo scrittore simbolo della letteratura argentina nell’aprile del 1986, due mesi prima della sua morte, e fin da quel momento, si è occupata della sua eredità artistica, che ha custodito con cura per anni.

Figlia di un chimico giapponese e di una donna argentina, María Kodama nasce il 10 marzo 1937 e studia letteratura all’Università di Buenos Aires. Si specializza in letteratura anglosassone e islandese, che traduce poi in spagnolo. All’età di 16 anni, la traduttrice ascolta Borges a una conferenza e poco dopo i due si incrociano per strada. All’epoca, lui era 38 anni più grande della giovane scrittrice, ma dopo avergli espresso il suo amore per la letteratura, non si sono più separati.

L’ammirazione per lo scrittore argentino, che segna la sua vita, è presente fin da bambina: all’età di cinque anni, la sua insegnante privata di inglese le fa memorizzare Two English Poems, le uniche poesie che Borges scrive in inglese.

«Mia madre mi diceva che Borges poteva essere mio nonno e aveva ragione», ha dichiarato Kodama in un’intervista del maggio 2021 all’agenzia di stampa Télam. «A causa della differenza di età, ero in anticipo sui tempi. Quando ero un’adolescente, i miei amici parlavano di famiglia e di figli, e io non volevo formare una famiglia, perché i miei genitori erano separati e io ero affidata a mia nonna. Fin dall’età di cinque anni, la mia testa già pensava che non volessi sposarmi per essere una prigioniera e ancor meno per avere dei figli: volevo essere libera», ha aggiunto la traduttrice, come riportato da El Pais.

A partire dal 1975, Borges e Kodama cominciano a girare il mondo, facendo il loro primo viaggio negli Stati Uniti. Scoprono nuovi posti insieme fino alla fine del 1985, quando allo scrittore viene diagnosticato un cancro al fegato e si trasferiscono a Ginevra.

Nel 1988, Kodama istituisce la Fondazione Internazionale Jorge Luis Borges, che ha presieduto fino alla sua morte. In qualità di custode dell’opera di Borges, è stata celebrata da pochi per il modo instancabile in cui ha esposto la sua letteratura per decenni in tutto il mondo, e criticata da molti per le sue innumerevoli controversie legali.

Il suo ultimo libro, pubblicato due mesi fa, è un ritratto del caudillo di Buenos Aires Juan Manuel de Rosas, che avrebbe strutturato l’Argentina attorno alla sua figura nella prima metà del XIX secolo. La pubblicazione di quest’opera include i dialoghi che Kodama avrebbe avuto con Borges su Rosas, e rappresenta forse l’ultima finestra su un rapporto tanto chiacchierato quanto privato.

USA: in arrivo nuove perturbazioni dopo il tornado

Il governatore del Mississippi, Tate Reeves, ha annunciato che sono in arrivo nello stato violente perturbazioni a seguito del passaggio del tornado che venerdì 24 marzo ha ucciso 26 persone, di cui una nello stato dell’Alabama.

Parlando a una conferenza stampa convocata nella città di Rolling Fork, il governatore Reeves ha dichiarato: «Come accaduto durante la tempesta di venerdì sera, i rischi metereologici sembrano peggiorare invece di migliorare. Chiunque si trovi a sud dell’autostrada I-55 in Mississippi oggi corre dei rischi. Tuttavia, siamo preparati a far fronte anche a questa situazione»

Il governatore ha inoltre aggiunto che è «straziante» vedere la devastazione causate dal tornado, ma si è detto «dannatamente orgoglioso di essere un cittadino del Mississippi» dopo aver visto come la gente del posto ha reagito al disastro.

«Nella tragedia e durante i periodi di crisi, i cittadini del Mississippi si rialzano per rimettersi in gioco e aiutare le persone a loro vicine» ha aggiunto.

La città Rolling Fork è una delle più colpite dal tornado, i resti del suo passaggio sono sparsi ovunque sugli ettari di terreno agricolo che circondano la città. Il sindaco Eldridge Walker, parlando alla conferenza stampa di domenica, ha detto che la città tornerà «più grande e migliore che mai».

Secondo la BBC, era da oltre un decennio che lo stato non veniva colpito da un tornado così violento, lasciando sul suo cammino alberi sradicati, auto ribaltate e reti elettriche abbattute.

Volontari da Arkansas, Louisiana e Tennessee hanno raggiunto i luoghi colpiti dal tornado per aiutare la popolazione locale.

All’esterno dei pochi edifici ancora in piedi, sono state allestite postazioni dove le persone possono rifocillarsi con acqua e cibo. Anche il presidente Joe Biden ha dispiegato risorse federali per aiutare con i soccorsi, ha inoltre dichiarato lo stato di emergenza.

Israele: continuano le proteste contro la riforma giudiziaria

Histadrut, la principale organizzazione sindacale di Israele, ha annunciato lunedì 27 marzo la coordinazione di uno sciopero di vasta portata per impedire l’attuazione della riforma giudiziaria del governo. All’iniziativa si uniranno i fornitori di servizi sanitari del Paese, secondo quando affermato dall’Ordine dei Medici.

L’annuncio è arrivato dopo che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha licenziato il Ministro della Difesa Yoav Gallant. Questi aveva lanciato un appello televisivo affinché il governo fermasse la revisione del sistema giudiziario. Inoltre, secondo quanto riportato da Reuters, Gallant aveva avvertito che la profonda spaccatura apertasi nella società israeliana stava influenzando le forze armate e minacciando la sicurezza nazionale.

La decisione di Netanyahu ha generato scontento tra la popolazione israeliana, che è scesa in piazza a protestare.

La revisione del sistema giudiziario darebbe all’esecutivo un maggiore controllo sulla nomina dei giudici della Corte Suprema e consentirebbe al governo di annullare le sentenze dei tribunali sulla base di una semplice maggioranza parlamentare.

Il governo afferma che la revisione è necessaria per tenere a freno i giudici attivisti e per stabilire un giusto equilibrio tra il governo eletto e la magistratura. Gli oppositori la considerano invece un indebolimento dei controlli e degli equilibri legali, ma anche una minaccia per la democrazia israeliana.

Durante una conferenza stampa il segretario generale dell’Histadrut, Arnon Bar-David, ha annunciato lo sciopero, dichiarando: «chiedo al Primo Ministro di fermare la riforma prima che sia troppo tardi».

«Abbiamo costruito il Paese insieme, abbiamo combattuto la pandemia, abbiamo lottato insieme a voi per salvare lo Stato di Israele, ma per cosa? Abbiamo la missione di fermare questa legge. Vinceremo e la fermeremo. Riporteremo lo Stato di Israele alla sanità mentale», ha detto Bar-David secondo quanto riportato dal The Jerusalem Post.

L’Histadrut ha voluto prendere le distanze dai vari partiti, definendo la protesta una questione apolitica.

Riferendosi al licenziamento di Gallant, Bar-David ha invitato Netanyahu a rinnegare la sua decisione. «Il licenziamento del Ministro della Difesa di ieri sera mi ha fatto accendere una luce rossa», ha detto. «Cosa siamo, una repubblica delle banane? Ieri sera sono state superate tutte le linee rosse e chiedo al Primo Ministro di riconsiderare il licenziamento del Ministro della Difesa».

Nel frattempo, l’Ordine dei Medici ha annunciato di voler bloccare anche il sistema sanitario e ha indetto «uno sciopero totale del sistema sanitario fino all’annuncio di un percorso negoziale chiaro e serio, sulla strada delle larghe intese. Non ci accontenteremo di fermare la legislazione senza contenuti più sostanziali che garantiscano la tutela dei diritti dei pazienti».

Lo sciopero coinvolgerà tutti gli ospedali pubblici e tutte le cliniche comunitarie. L’Ordine dei Medici gestirà una Commissione per le Eccezioni e consentirà trattamenti e servizi salvavita.

Stati Uniti e Messico: continua la causa per il traffico d’armi illecito

La battaglia legale lanciata dal Messico nel 2021 per assicurare alla giustizia 11 giganti dell’industria delle armi statunitense ha compiuto un nuovo passo. I procuratori di 18 territori statunitensi, insieme a diverse autorità di sicurezza, organizzazioni e governi di altri Paesi, si sono uniti questa settimana all’appello del governo di Andrés Manuel López Obrador, dopo che un giudice del Massachusetts aveva respinto una prima causa civile lo scorso settembre.

Il Paese latino-americano denuncia ‘pratiche commerciali negligenti e illegali da parte dei produttori, che facilitano il traffico illegale di armi in Messico’.

Secondo quanto riportato da El Pais, «gli imputati e i trafficanti messicani intrattengono un rapporto di “scambio letale”: gli imputati, i produttori, forniscono armi d’assalto e fucili di precisione che le organizzazioni criminali usano per vendere la droga e terrorizzare intere città del Messico; i trafficanti, in cambio, importano la droga e seminano il caos negli Stati Uniti», si legge nell’Amicus brief, un documento depositato presso la Corte d’Appello per il Primo Circuito a sostegno delle rivendicazioni del governo messicano.

La memoria è firmata, tra gli altri, da autorità di California, Texas, New York, Illinois e Pennsylvania. «I nostri agenti hanno visto in prima persona l’effetto catastrofico che la condotta degli imputati ha avuto sulle nostre comunità, con un’escalation di violenza e guerre interne combattute con queste armi», si aggiunge.

Il sostegno delle autorità arriva mesi dopo la prima battuta d’arresto del caso messicano, che non era stato ammesso al processo lo scorso anno.

Il giudice federale che si era occupato del caso, Dennis Saylor, aveva dichiarato, nella sua sentenza, che la corte aveva ‘empatia per i messicani’, ma che stava tenendo conto del Protection of Lawful Commerce in Arms Act (PLCAA), una legge approvata nel 2005 che protegge l’industria delle armi dall’uso improprio di quest’ultime. Pochi giorni dopo la decisione del giudice, il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard, annunciava una nuova causa, questa volta in un tribunale dell’Arizona.

Con le dichiarazioni degli Amicus Curiae -le autorità che hanno volontariamente sostenuto la nuova causa e che sono al di fuori del contenzioso-, i procuratori dei 18 territori statunitensi ritengono che, l’argomentazione del PLCAA sostenuta dalla corte, protegga l’industria produttrice solo in caso di reati da parte di terzi e non per la propria cattiva condotta o le proprie pratiche.

«La Corte distrettuale non ha considerato gli enormi oneri economici (e non economici) che l’applicazione del PLCAA prevede […], inondando intenzionalmente il Messico di armi da fuoco, gli imputati (gli 11 produttori) causano un danno profondo agli Stati Uniti: le armi prodotte vengono acquistate negli Stati Uniti, spesso con i proventi di vendite illegali di droga», si legge nella memoria dei procuratori, riferisce inoltre il quotidiano spagnolo.

La violenza che ha travolto il Messico negli ultimi due decenni non ha di certo risparmiato il resto del Continente, che difende l’importanza  di dover portare in giudizio questo tipo di casi riguardanti il traffico d’armi.

Mentre gli Stati Uniti si lamentano del flusso di droga proveniente dal confine meridionale, il Messico insiste nel porre fine alle armi che arrivano illegalmente dal suo vicino settentrionale.

Pakistan: elezioni in Punjab rimandate

La commissione elettorale pakistana ha deciso di rinviare le elezioni in Punjab, provincia più popolosa, dopo che il governo del primo ministro Shehbaz Sharif si è rifiutato di erogare i fondi necessari per lo svolgimento delle elezioni.

Le elezioni si sarebbero dovute tenere il 30 aprile inizialmente, tuttavia, mercoledì 22, la Commissione elettorale del Pakistan (ECP) ha deciso di rinviarle all’8 ottobre. La decisone dell’ECP si basa sulla situazione instabile della sicurezza del paese e sulla carenza di fondi per le elezioni.

L’ex primo ministro e attuale leader dell’opposizione Imran Khan ha condannato la mossa della ECP, definendola una violazione della costituzione del Pakistan, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Imran Khan è il fondatore del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI), uno dei maggiori partiti politici del paese, inoltre, è diventato il primo ministro del paese ad essere deposto attraverso una mozione di sfiducia in parlamento. La sua carica è durata dal 2018 al 2022.

Il PTI all’inizio del mese è stato protagonista di ripetuti scontri contro le forze di sicurezza, scontri simili sono avvenuti anche a Islamabad. I contrasti sono scoppiati dopo che i sostenitori di Khan hanno impedito alla polizia e alle forze paramilitari di arrestarlo con l’accusa di aver venduto illegalmente regali di stato durante il suo mandato di premier.  

A gennaio, il partito Pakistan Tahreek-e-Insaf (PTI) di Khan ha ottenuto lo scioglimento delle assemblee nelle province di Punjab e Khyber Pakhtunkhwa, con l’intento di svolgere nuove elezioni entro 90 giorni, come indicato dalla Costituzione. Tuttavia, la decisione del ECP impedisce lo svolgimento di tale obiettivo da parte del partito.

 Asad Rahim Khan, avvocato e editorialista pakistano, ha definito la decisione dell’ECP di ritardare le elezioni in Punjab una «presa in giro della legge», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Confine Pakistan-Afghanistan: terremoto magnitudo 6.5

Un terremoto di magnitudo 6,5 martedì sera ha scosso gran parte del territorio del Pakistan e dell’Afghanistan causando 19 morti e 200 feriti.

 La scossa ha danneggiato edifici e creato delle crepe all’interno delle strade costringendo i cittadini a fuggire per cercare riparo.

Dieci dei decessi sono stati segnalati in Afghanistan, tra cui un bambino nella provincia di Laghman, vicino al confine con il Pakistan, ha riferito l’agenzia di stampa AFP Khatera, secondo quanto riportato dalla BBC News.

 Gli altri nove decessi, invece, hanno avuto luogo nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, nel nord-ovest del Pakistan.

La scossa di terremoto è avvenuta mentre molte famiglie erano fuori casa a festeggiare il capodanno persiano o Nowruz, celebrato da oltre 3 mila anni, che ricorre in concomitanza con l’equinozio che segna l’inizio della primavera.

La maggior parte dei danni si è verificata nel distretto di Swat in Pakistan, dove morti e feriti sono stati portati negli ospedali e la strada principale è stata bloccata a causa delle frane che impedivano il passaggio.

Molti cittadini, temendo possibili scosse di assestamento, hanno cercato riparo ritrovandosi in mezzo alla strada con temperature quasi gelide da affrontare per superare la notte.

A Islamabad, capitale pakistana, un vasto blocco residenziale a più piani è stato evacuato dopo la comparsa di enormi crepe nell’edificio. Le linee telefoniche sono state colpite in entrambi i paesi.

Il Centro sismologico europeo-mediterraneo sostiene che la scossa sismica ha compreso un’area di 1.000 km che abbraccia India, Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Kirghizistan, Afghanistan e Turkmenistan, secondo quanto riportato dalla BBC News.

I terremoti in quest’area sono molto comuni a causa della loro vicinanza geografica con le placche tettoniche eurasiatiche e indiane, sottoposte a continui assestamenti.

Siria: gli Stati Uniti lanciano una rappresaglia in risposta all’attacco contro una base americana

Lo scorso giovedì un drone ha colpito una postazione militare statunitense in Siria, uccidendo un contractor americano. Inoltre un secondo contractor e alcuni membri delle truppe americane sono rimasti feriti. Il Pentagono ha deciso di rispondere con attacchi aerei di rappresaglia, secondo quanto riportato dal The Washington Post.

Alcuni soldati americani sono stati assistiti sul posto, mentre altri e un contractor sono stati evacuati in strutture mediche in Iraq per ulteriori cure. Tutti sono in condizioni stabili, ha dichiarato un funzionario statunitense, parlando in condizioni di anonimato, perché la questione è considerata altamente sensibile.

Il Pentagono, facendo riferimento a una valutazione dell’intelligence statunitense, ha dichiarato che il drone è di origine iraniana. Il velivolo ha colpito un impianto di manutenzione all’interno di una base militare nei pressi di Al-Hasakah, una città nel nord-est della Siria, secondo quanto riportato in un comunicato stampa distribuito giovedì sera.

Il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che le forze statunitensi hanno effettuato attacchi aerei contro strutture affiliate al Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGG) dell’Iran nella Siria orientale.

Austin ha dichiarato di aver autorizzato gli attacchi di rappresaglia su indicazione del Presidente degli Stati Uniti. «Come ha chiarito il Presidente Biden, adotteremo tutte le misure necessarie per difendere il nostro popolo e risponderemo sempre in un momento e in un luogo di nostra scelta. Nessun gruppo colpirà le nostre truppe impunemente», ha affermato Austin secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Gli attacchi aerei di rappresaglia sono stati effettuati da jet da combattimento F-15. Il comunicato del Pentagono ha descritto il contrattacco come «volto a proteggere e difendere il personale statunitense». L’azione, definita “proporzionata”, ha avuto l’obiettivo di «limitare il rischio di escalation e minimizzare le vittime».

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR), sei combattenti sostenuti dall’Iran sono stati uccisi negli attacchi nella città orientale di Deir el-Zor. Le identità dei morti e dei feriti non sono state rese note.

Il generale Michael Kurilla, in qualità di capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, supervisiona tutte le attività militari americane nella regione. Kurilla ha dichiarato alla Commissione per i servizi armati della Camera che l’Iran ha lanciato 78 attacchi contro le posizioni statunitensi in Siria dal gennaio 2021.

«Il progresso delle capacità militari iraniane negli ultimi 40 anni non ha eguali nella regione; infatti, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica di oggi è irriconoscibile rispetto a soli cinque anni fa», ha dichiarato il generale ai legislatori.

Un passo indietro per i diritti delle famiglie arcobaleno

Lo scorso 18 marzo si è tenuta una manifestazione a Milano dopo che la Prefettura meneghina ha emanato una circolare, su sollecitazione di una direttiva del Ministero dell’Interno, per cessare il riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali.

Lo Stato italiano, come riporta il Guardian, ha legalizzato le unioni civili dello stesso sesso nel 2016, ciononostante i conservatori pongono resistenza verso i riconoscimenti dei diritti della comunità LGBT. In un tweet Matteo Salvini, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha scritto: «(…) Bruxelles non può imporci il concetto di famiglia: un bimbo ha bisogno di una mamma e di un papà. I bambini non si comprano, non si affittano, non si scelgono su internet (…)». In Italia, infatti, non vi sono leggi specifiche per quanto riguarda l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso. Date le lacune normative, i sindaci possono scegliere in modo indipendente sulla giurisdizione dei figli delle famiglie arcobaleno e questo è stato il caso di Milano, come deciso dal sindaco Giuseppe Sala. Quest’ultimo ha dichiarato: «È chiaramente un passo indietro da un punto di vista politico e sociale e mi metto nei panni dei genitori che pensavano di poter avere questa possibilità a Milano».

Con questa marcia indietro, sottolinea la BBC, i genitori possono avere seri problemi burocratici, ad esempio il rischio di perdere i propri figli (rimanendo quindi orfani) se il genitore riconosciuto legalmente muore. Angelo Schillaci, Professore di Diritto pubblico comparato nella Facoltà di Giurisprudenza di “Sapienza” Università di Roma, ha sottolineato come i bambini avrebbero limitazioni ai servizi essenziali come assistenza sanitaria. Schillaci ha aggiunto: «Al momento solo un genitore è riconosciuto dalla legge, l’altro è un fantasma. Nella vita reale, i genitori ed i figli giocano insieme, cucinano insieme, fanno sport e vanno in vacanza insieme. Ma nella carta, sono separati, lo Stato non li vede. È una situazione paradossale.»

La popolazione del Canada cresce di oltre 1 milione di persone

La popolazione del Canada è stata stimata a 39.566.248 il 1° gennaio 2023, dopo una crescita demografica record di 1.050.110 persone dal 1° gennaio 2022 al 1° gennaio 2023. È la prima volta dal 1957 che il Canada cresce di oltre 1 milione di persone, con un tasso di crescita annuale della popolazione di +2,7%, secondo Statistics Canada.

Secondo la BBC, alla base della crescita record c’è la migrazione internazionale (+96%) fortemente voluta dal governo per sostenere l’invecchiamento della popolazione,

Da quando è salito al governo nel 2015, il primo ministro Justin Trudeau ha attuato politiche capaci di attirare più immigrati nel Paese. Nel 2022, il governo ha annunciato un piano per accogliere mezzo milione di immigrati all’anno entro il 2025.

Il Canada ha anche accolto persone colpite da conflitti o crisi umanitarie, come rifugiati ucraini e afghani, o le vittime del terremoto del 2023 in Turchia e Siria. In merito, mercoledì 22 marzo, è stata annunciata un’estensione, fino a luglio 2023, di un programma che offre il reinsediamento temporaneo di famiglie ucraine.

Il precedente tasso di crescita record della popolazione nel 1957 era correlato all’alto numero di nascite durante il baby boom del dopoguerra e al grande flusso immigratorio di rifugiati in seguito alla rivoluzione ungherese del 1956.

Con questo significativo aumento della popolazione, il Canada è al primo posto tra i 38 Paesi membri dell’OECD, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2022. Inoltre, come accade ormai da anni, è il Paese che cresce di più e più velocemente tra i membri del G7.

Se restasse costante, un tale tasso di crescita della popolazione porterebbe al raddoppio della popolazione canadese in circa 26 anni.

La Commissione europea propone la sostituzione dei foglietti illustrativi dei medicinali con codici QR digitali

Entro il prossimo anno, è previsto il completamento della riforma legislativa farmaceutica avviata dalla Commissione europea nel 2020. Una delle proposte riguarda la scomparsa degli storici bugiardini e la loro sostituzione con sistemi di codici QR digitali o simili.

Secondo quanto riporta El País, l’esigenza della digitalizzazione delle informazioni sui medicinali è aumentata soprattutto a seguito della pandemia, durante la quale diverse aziende farmaceutiche, tra cui la Normon, hanno riscontrato un importante ritardo nella fornitura di carta e cartone e un conseguente rallentamento nella distribuzione dei farmaci.

Tra i benefici principali del passo verso la digitalizzazione, rientrerebbero sicuramente l’immediato aggiornamento delle informazioni disponibili, un significativo risparmio di carta, la semplificazione dei processi delle catene di approvvigionamento e un notevole calo nella carenza di medicinali.

Al tempo stesso, però, l’eliminazione dei foglietti illustrativi presenta problemi rilevanti, il più importante dei quali coinvolge le persone anziane, vulnerabili e meno alfabetizzate digitalmente, che rischierebbero di non riuscire ad accedere facilmente alle informazioni essenziali per la propria salute.

Per tale motivo, la Commissione europea ha affermato che spetterà ai paesi membri decidere come e quando compiere questo passo, in base ai diversi livelli di sviluppo digitale di ogni stato. In tal modo, ognuno potrà decidere se eliminare completamente o parzialmente i foglietti illustrativi dal mercato.

Ad oggi, la Spagna è uno dei paesi che guarda positivamente alla nuova riforma e già da un anno ha lanciato con successo un progetto pilota per la scomparsa dei foglietti illustrativi a uso ospedaliero, mentre non è prevista nessuna estensione della stessa misura ai medicinali venduti in farmacia.

Anche Farmaindustria, l’Associazione delle imprese farmaceutiche, sottolinea la necessità del progetto pilota lanciato in Spagna, sostenendo che ogni anno milioni di bugiardini cartacei rimangono inutilizzati e rappresentano solo un problema alla già attuale crisi energetica e ambientale.

Dall’altro lato, i portavoce del Consejo General de Colegios Farmacéuticos ritengono che la digitalizzazione possa essere possibile solo come misura complementare al foglietto cartaceo, il quale dovrebbe sempre accompagnare il farmaco per facilitare i più anziani.

Una delle formule proposte per garantire l’accesso alle informazioni a tutti i pazienti sarebbe quella di chiedere alla farmacia la stampa del foglietto illustrativo, ma questa opzione non sembra essere accolta favorevolmente da buona parte del settore farmaceutico.

La Organización de Consumidores y Usuarios (OCU) è, infatti, una delle organizzazioni che più si oppone alla possibilità che i bugiardini scompaiano dai medicinali venduti in farmacia, perché sostiene che “all’interno del sistema sanitario, i cittadini dovrebbero trovare l’aiuto di cui hanno bisogno, non problemi di accesso alle informazioni”.

Emergenza acqua in Europa: un focus sull’Italia

Il World Weather Attribution ha dichiarato che la siccità nell’emisfero boreale riscontrata nel 2022 è data dal cambiamento climatico causato dagli esseri umani, aggiungendo che il rischio di maggiori periodi di siccità sarà più alto a causa del riscaldamento. In Europa i Paesi che hanno risentito di più di tali avvenimenti atmosferici sono stati Francia, Spagna, Germania e Italia, i cui governi hanno avvertito che la carenza d’acqua dovuta al caldo anomalo e la mancanza di piogge porterà a un drastico impoverimento dei bacini dei fiumi e dei laghi.

In Francia, come riporta il Guardian, il Ministro della transizione ecologica Christophe Béchu ha dichiarato che il Paese dovrà affrontare una diminuzione del 40% di acqua nei prossimi anni, nonostante le restrizioni applicate in alcuni territori. Queste restrizioni comprendono la proibizione di riempire le piscine oppure lavare le macchine, così come gli agricoltori devono diminuire della metà il loro consumo d’acqua.

In Spagna, Rubén del Campo, il portavoce del servizio meteorologico nazionale Aemet, ha fatto notare come le precipitazioni nel Sud del Paese siano più brevi ma più intense e non aiutino l’agricoltura che, invece, ha bisogno di piogge meno forti. Per quanto riguarda l’agricoltura, in Catalogna sono state varate delle leggi che impongono una riduzione del 40% dell’uso d’acqua, oltre a una diminuzione del 15% di fonti idriche per le industrie ed infine un taglio della fornitura media giornaliera per abitante da 250 litri a 230.

In Germania le navi sono state costrette a dimezzare il proprio carico a causa delle acque poco profonde del Reno, così come la mancanza di precipitazioni invernali ha portato a piste da scii senza neve nelle regioni Alpine, oltre a ciò l’assenza di neve compromette l’immissione d’acqua nei fiumi dell’Europa centrale nei mesi estivi.

Infine, il Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano, come sottolinea il Guardian, ha rilevato nel 2022 una diminuzione del 40% di piogge nel Settentrione e l’assenza di precipitazioni dall’inizio del 2023 è stato significativo. Questo inverno il lago di Garda, ad esempio, ha raggiunto il livello minimo d’acqua negli ultimi 35 anni, così come a Venezia i canali sono stati prosciugati dalla siccità lasciando le gondole incagliate. In particolare, durante il mese di febbraio, il livello d’acqua del Po è stato inferiore alla norma del 61%, portando il fiume a tre livelli sotto lo standard e le rive si sono trasformate in spiagge (solitamente un fenomeno estivo). L’emergenza d’acqua provoca problemi in più aree: l’incapacità di produrre energia idroelettrica, la riduzione di acqua potabile con possibili razionamenti ed infine le acque del mare invadono le falde acquifere causando problemi per l’irrigazione.

Una possibile soluzione arriva da Alessandro Bratti, presidente dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, che dichiara di avere progetti e risorse per le infrastrutture idrologiche, come la creazione di diecimila laghi artificiali oppure l’introduzione di sistemi per la riduzione dello spreco d’acqua nell’agricoltura. Tuttavia, per avere risultati, questi progetti devono essere accelerati.

Colombia: sparatoria a Barranquilla, 5 morti e 14 feriti

Ancora una volta una strage ha sconvolto Barranquilla. Cinque persone sono state uccise e 14 sono rimaste ferite durante una sparatoria nel bel mezzo di una festa nel distretto di Villanueva, nel quartiere La Loma, centro storico del capoluogo del dipartimento dell’Atlántico.

Il violento incidente è avvenuto intorno alle 23 di domenica 19 marzo, secondo quanto riportato dai media locali. Si tratta del secondo massacro registrato in città quest’anno. La prima volta, il 29 gennaio, quattro persone sono state uccise all’interno di un negozio.

La Polizia metropolitana di Barranquilla ha offerto una ricompensa di 50 milioni di pesos per qualsiasi informazione utile a trovare e catturare i responsabili del massacro. Il generale Jorge Urquijo, comandante della polizia metropolitana, ha dichiarato che un gruppo specializzato della Procura Generale e della Polizia Nazionale si è recato sul posto per contribuire alle indagini.

Diversi partecipanti alla festa hanno riferito sui social media che uomini vestiti di nero sono arrivati su quattro moto e hanno iniziato a sparare a raffica sui presenti. Su Twitter, si possono vedere dei video che mostrano i corpi insanguinati di alcune delle vittime.

La prima ipotesi, secondo Radio Caracol, una delle radio locali, è che l’attacco sia stato una «ritorsione da parte di alcune organizzazioni criminali a seguito delle operazioni condotte dalle autorità, come il recente sequestro di 400 chili di cocaina e più di 40 armi da fuoco nel quartiere di Chiquinquirá», secondo quanto riferisce El País.

«Questo evento era qualcosa di atteso, così come gli altri massacri avvenuti sotto forma di omicidi commissionati, per la natura stessa del territorio, ovvero perché il distretto di Villanueva si è rivelato un punto strategico per il controllo del narcotraffico e di grandi quantità di droga, grazie alla sua vicinanza alla zona portuale», hanno dichiarato alcuni analisti della sicurezza intervistati dal quotidiano locale El Heraldo.

«La parola massacro è oramai entrata a far parte del lessico di tutti i giorni a Barranquilla e nella sua area metropolitana. Il ritornello con cui siamo cresciuti, che diceva, ‘qui non succede niente, la violenza la vediamo da lontano’, ora non è altro che un mito», ha twittato sul suo account social la giornalista di Barranquilla Tatiana Velázquez.

Anche l’analista della sicurezza Luis Fernando Trejos Rosero ha fatto riferimento alla gravità del crimine. «È sorprendente che a Barranquilla e nella sua area metropolitana i massacri non siano ancora un argomento di discussione politica, sociale o mediatica. Sembra che questo tipo di eventi si sia naturalizzato nel territorio», ha scritto su Twitter.

«È imperativo avviare processi di gestione locale della sicurezza, includendo le comunità, i sindacati e il mondo accademico nel processo decisionale», ha aggiunto Trejos. Per ora, né il sindaco di Barranquilla, Jaime Pumarejo, né la governatrice del dipartimento dell’Atlántico, Elsa Noguera, hanno condannato il massacro.

L’Arabia Saudita rilascia un cittadino statunitense arrestato per alcuni tweet critici

Lo scorso 21 marzo le autorità saudite hanno rilasciato Saad Ibrahim Almadi, cittadino statunitense incarcerato a causa di tweet critici nei confronti del governo di Riyadh e del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud.

Saad Almadi, in possesso anche della cittadinanza saudita, viveva in Florida quando è stato arrestato dai funzionari dell’aeroporto di Riyadh nel novembre 2021. In seguito è stato condannato a 16 anni di carcere per reati tra cui “sostegno a persone con ideologia terroristica”, ha dichiarato il figlio, Ibrahim Almadi. Il mese scorso una corte d’appello aveva poi aumentato la pena a 19 anni.

Le accuse contro Saad, tutte ritirate come parte del suo rilascio, riguardavano alcuni tweet pubblicati mentre era negli Stati Uniti, che erano caratterizzati da un tono critico nei confronti del governo dell’Arabia Saudita e del principe ereditario.

«Tutte le accuse sono state ritirate, ma ora dobbiamo combattere il divieto di viaggio», ha dichiarato Ibrahim. Ha raccontato di aver parlato brevemente al telefono con suo padre dopo il rilascio. Saad avrebbe perso 80 chili dopo 16 mesi di carcere, dove non avrebbe ricevuto le cure mediche di cui necessitava.

Questo caso, insieme a quelli di altri cittadini statunitensi che rimangono in Arabia Saudita con divieto di viaggio, ha aggravato le relazioni tra i due tradizionali alleati.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato di aver sollevato la questione di Saad Almadi durante gli incontri con il re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Salman, in occasione della sua visita in Arabia Saudita a luglio. Inoltre, negli ultimi tempi entrambe le parti hanno lavorato per migliorare i rapporti.

Abdullah Alaoudh, direttore della Freedom Initiative, ha dichiarato che il rilascio di Almadi dimostra che la pressione degli Stati Uniti è stata efficace.

«Ci sono troppe persone detenute in Arabia Saudita che non hanno i vantaggi della cittadinanza statunitense per attirare l’attenzione sul loro caso», ha dichiarato Alaoudh, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

«Il rilascio di Almadi dimostra che le pressioni strategiche funzionano e le autorità statunitensi dovrebbero continuare a impegnarsi per il rilascio dei prigionieri e la revoca dei divieti di viaggio», ha poi aggiunto.

I funzionari sauditi non hanno commentato pubblicamente il rilascio di Almadi. Ugualmente il Dipartimento di Stato non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento nelle ore successive alla scarcerazione, secondo quando riportato dal The Washington Post.

Arizona: bambino muore in una sparatoria, due i feriti

Un bambino di cinque anni ha perso la vita e altri due minorenni sono rimasti feriti dopo una sparatoria a Tempe, in Arizona, la sera di venerdì 17 marzo, riporta la CNN.

Gli agenti di polizia sono stati chiamati per una sparatoria avvenuta intorno alle 23:45, ha dichiarato Byron Thomas, portavoce del Dipartimento di Polizia di Tempe.

Secondo le autorità locali, un veicolo con alla guida un adulto e con sei passeggeri minorenni si dirigeva in direzione est vicino la 52esima Strada e Broadway Road quando un’auto sospetta si è avvicinato alla vettura.

«Il veicolo sospetto a iniziato a sparare, colpendo i minori» ha aggiunto Thomas. L’auto sospetta è fuggita prima che arrivasse la polizia.

Nella sparatoria sono rimasti coinvolti diversi minorenni di età compresa tra i 5 e 17 anni, tre dei quali trasportati in ospedale. Due di loro sono in condizioni critiche, il bambino di 5 anni invece non ce l’ha fatta. L’adulto alla guida del veicolo vittima dell’attentato è rimasto illeso.

«La morte del bambino è una vera tragedia, porgiamo le condoglianze alla famiglia» ha dichiarato Thomas.

Secondo le autorità si tratterebbe di una sparatoria isolata, tuttavia non è ancora chiaro quante persone c’erano all’interno del veicolo sospetto o il movente del gesto criminale.

«È terribile. È difficile da capire, non riesco a comprendere come questo possa essere successo» ha detto Ryan Hansen, turista alloggiato in un hotel sulla 52esima Strada. La finestra della sua camera si affaccia sull’incrocio luogo della sparatoria, ma l’uomo ha dichiarato di non aver sentito nessuno sparo, secondo quanto riportato da FOX10.

Anche Olivia Allison, cliente dello stesso hotel, ha dichiarato di non aver sentito nulla e aver scoperto della sparatoria solo il giorno seguente.

«Gesti simili accadono sempre più frequentemente, la vita umana non ha più valore» ha dichiarato la donna.

Il Dipartimento di Polizia ha invitato la comunità a fornire informazioni sulla sparatoria e sui sospetti.

Firmato accordo tra Iraq e Iran per rafforzare la sicurezza del confine

Lo scorso 19 marzo l’Iraq e l’Iran hanno firmato un accordo sulla sicurezza delle frontiere. Secondo quanto affermato dai funzionari iracheni, l’intesa mira principalmente a rafforzare la frontiera con la regione curda dell’Iraq. L’Iran, infatti, ritiene che i gruppi armati curdi mettano a repentaglio la sicurezza del Paese.

L’accordo di sicurezza prevede il coordinamento per «proteggere i confini comuni tra i due Paesi e consolidare la cooperazione in diversi settori della sicurezza», si legge in un comunicato dell’ufficio del primo ministro iracheno.

Il segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano Ali Shamkhani ha firmato l’accordo con il consigliere per la sicurezza nazionale iracheno Qasim al-Araji, alla presenza del primo ministro dell’Iraq, Mohammed al-Sudani.

Shamkhani ha affermato che l’accordo «può porre fine alle azioni violente di questi gruppi in modo definitivo», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

«In base all’accordo di sicurezza, l’Iraq si impegna a impedire ai gruppi armati di utilizzare il suo territorio nella regione curda irachena per lanciare attacchi attraverso il confine con il vicino Iran», ha dichiarato un funzionario della sicurezza irachena, secondo quanto riportato da Reuters.

Uno dei più cruenti episodi di scontro risale allo scorso anno, quando le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno lanciato attacchi utilizzando missili e droni contro i gruppi curdi iraniani con sede nel nord dell’Iraq. L’accusa era di fomentare le proteste scatenate dalla morte di Masha Amini, donna curda iraniana, mentre era tenuta in custodia dalla polizia.

Dopo l’accaduto, l’Iraq ha annunciato l’impegno ad aumentare i controlli al confine tra l’Iraq curdo e l’Iran, mossa accolta con favore da Teheran.

Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian, parlando a Teheran, ha dichiarato che «il viaggio di Shamkhani in Iraq è stato pianificato da quattro mesi ed è incentrato su questioni relative ai gruppi armati nel nord dell’Iraq». «La Repubblica islamica dell’Iran non accetterà in alcun modo minacce provenienti dai territori iracheni», ha aggiunto.

L’Iran ha anche accusato i militanti curdi di collaborare con Israele e ha spesso espresso preoccupazione per la presunta presenza dell’agenzia di spionaggio israeliana Mossad nella regione autonoma curda irachena.

Lo scorso anno, il Ministero dell’Intelligence iraniano ha dichiarato che una squadra di sabotatori, arrestata dalle sue forze di sicurezza, era composta da militanti curdi che lavoravano per Israele. Secondo le autorità dell’Iran il gruppo avrebbe progettato l’ attacco di un centro “sensibile” dell’industria della difesa nella città di Esfahan.

Patto Aukus: la Cina contro la nuova alleanza

Stati Uniti, Regno Unito e Australia siglano il patto Aukus, acronimo delle tre nazioni firmatarie, già preannunciato nel 2021 con l’obiettivo di mantenere liberi gli oceani e di contrastare l’espansione militare cinese nella regione indo-pacifica.

Aukus è un patto di sicurezza trilaterale e prevede la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare all’Australia, segnando per la prima volta una collaborazione tra le tre flotte, che lavoreranno insieme sia nell’Atlantico che nel Pacifico.

La partnership riguarda la sicurezza, la difesa, la condivisione di informazioni e di tecnologie, con l’obiettivo primario di mantenere la pace nell’area indo-pacifica. 

Questo accordo ha suscitato in primis la reazione della Francia, che si è sentita esclusa e accusa l’Australia, poiché l’Aukus sostituisce il contratto firmato nel 2016 da Canberra con Parigi per la fornitura di sommergibili non nucleari.

Per quanto riguarda la Gran Bretagna, la ritroviamo come firmataria di tale accordo proprio per il perseguimento di una politica globale anche dopo la Brexit, così da essere presente nella scena internazionale.

Pechino, invece, disapprova l’annuncio ufficiale del patto Aukus, affermando che: gli stati aderenti stanno percorrendo una strada pericolosa rischiando di dar vita a una nuova corsa agli armamenti e alla proliferazione nucleare, secondo quanto riportato dalla BBC News.

Gli Stati Uniti con le alleanze sancite, previste dalle loro strategie, stanno sempre di più cercando di “limitare” la Cina e la sua espansione nell’area indo-pacifica.

In risposta al comportamento dell’Occidente, il presidente Xi Jinping ha recentemente annunciato che la Cina accelererà l’espansione della sua spesa per la difesa e ha indicato che la principale preoccupazione nei prossimi anni sarà la sicurezza nazionale, secondo quanto riportato da BBC News.

Afghanistan: l’ISIS rivendica l’attentato nella città di Mazar-i-Sharif

Un attentato dinamitardo avvenuto nella città settentrionale afgana di Mazar-i-Sharif, capitale della provincia di Balkh, ha provocato la morte di una guardia di sicurezza mentre un gruppo di giornalisti e alcuni bambini sono rimasti feriti.

L’ISIS ha rivendicato l’esplosione, infatti, in una dichiarazione il gruppo ha affermato: «siamo riusciti a posizionare un pacco bomba e a provocarne l’esplosione», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

La polizia ha affermato che: l’attentato è avvenuto durante una manifestazione tenutasi all’interno di un centro sciita per premiare diversi giornalisti che lavorano in agenzie coinvolte nella guerra e nella lotta contro l’ISIS, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Due giorni prima dell’attacco avvenuto a Mazar-i-Sharif, il governatore della stessa provincia è stato vittima di un attentato suicida sempre rivendicato dall’ISIS.

Mohammad Dawood Muzammil, governatore della provincia di Balkh, è sempre stato noto per la sua resistenza all’ISIS, soprattutto nella zona e la sua morte segna uno degli attacchi di più alto livello da quando i talebani sono ritornati al potere nel 2021.

Muzammil il giorno prima della sua uccisione aveva incontrato i due vice primi ministri e altri funzionari in visita a Balkh per rivedere e discutere di un importante progetto di irrigazione nel nord dell’Afghanistan.

Questi due episodi si aggiungono a una serie di altri attacchi rivendicati dal gruppo terroristico. I continui attacchi da parte dell’ISIS nei confronti di civili afghani, stranieri e personalità politiche, rappresentano la più grande sfida in tema di sicurezza per il governo talebano.

A gennaio 2023, un attentatore suicida ha ucciso almeno 10 persone facendosi esplodere nei pressi del Ministero degli esteri a Kabul, in un attacco rivendicato dal gruppo terroristico.

Il gruppo terroristico ha rivendicato anche un altro attacco all’ambasciata pakistana a Kabul a dicembre, che Islamabad ha denunciato come un “tentativo di assassinio” contro il suo ambasciatore.

Bukele riprende la guerra contro le bande criminali: altri 2.000 detenuti spostati nel mega-carcere

Il presidente della Repubblica di El Salvador, Nayib Bukele, che ha fatto dei social media la sua principale piattaforma politica, mercoledì 15 marzo ha lanciato un altro tweet: due brevi frasi, tra cui un messaggio ai suoi oppositori, e un video molto suggestivo.

L’annuncio riporta il trasferimento di altri 2.000 detenuti nel mega-carcere di massima sicurezza, inaugurato poco più di un mese fa, ancora una volta tramite una dichiarazione pubblicata dal presidente sulla piattaforma social.

La prossima settimana segnerà un anno da quando Bukele ha decretato un duro governo d’eccezione, ormai all’undicesima proroga, che limita i diritti e le libertà costituzionali in tutto il Paese.

Secondo quanto riferisce El Pais, sia la comunità internazionale sia le organizzazioni salvadoregne per i diritti umani hanno accusato il governo di ricorrere alla tortura, agli arresti arbitrari e alle sparizioni forzate nel suo attacco contro le cosiddette Mara (bande criminali nate negli USA e poi arrivate anche in alcune zone dell’America Centrale, tra cui El Salvador).

Il Governo, tuttavia, nelle sue risposte, si limita a fornire poche informazioni, vantando, inoltre, una riduzione memorabile della violenza. Difatti, al di là dei messaggi del presidente sui social media, non vengono rilasciate molte altre dichiarazioni.

Il video di mercoledì 15, della durata di meno di un minuto e mezzo, sembra il trailer di una serie Netflix. Sulle note di una musica da film d’azione, si ripetono scene di prigionieri ammanettati mani e piedi, vestiti con boxer bianchi, che lasciano in mostra i loro tatuaggi, uno dei segni distintivi della banda. Escono a testa china verso un autobus che li porta alla nuova prigione, dove sono accalcati come animali sul pavimento, in file interminabili di corpi schiacciati l’uno contro l’altro.

«Oggi, con una nuova operazione, abbiamo trasferito il secondo gruppo, che comprende 2.000 membri appartenenti a diverse bande, nel Centro di Confinamento per il Terrorismo (CECOT). Dopo questa operazione, sono 4.000 i membri delle gang che risiedono nella prigione più criticata al mondo», riporta il messaggio che accompagna il video pubblicato.

Meno di un mese fa, il presidente Bukele ha pubblicato un altro video simile con il primo trasferimento di prigionieri nell’enorme complesso carcerario situato alla periferia di San Salvador e descritto dal presidente come «la più grande prigione di tutta l’America». «Questa sarà la loro nuova casa, dove vivranno per decenni, mescolati tra loro, senza arrecare più danni alla popolazione», ha inoltre aggiunto in quella stessa occasione.

Le organizzazioni per i diritti umani del Paese hanno denunciato che solo un terzo dei detenuti ha legami comprovati con le bande. Gli altri, sostengono, sono il prodotto di una campagna di epurazione sociale, per guadagnare punti in vista delle elezioni del prossimo anno.

La strategia elettorale sembra funzionare per il presidente salvadoregno, che sta registrando i più alti indici di popolarità dal ritorno alla democrazia all’inizio degli anni ’90, dopo la sanguinosa guerra civile.

OpenAI lancia GPT-4

OpenAI, la startup finanziata da Microsoft, ha rilasciato il 14 marzo GPT-4, l’ultimo aggiornamento della sua popolare chatbot. La nuova versione, più potente e meno soggetta a problemi, è in grado di rispondere alle domande degli utenti con immagini, descrizioni più accurate ed è in grado di analizzare e produrre blocchi di testo più lunghi.

Come ChatGPT, GPT-4 sfrutta l’intelligenza artificiale generativa, ovvero utilizza algoritmi e testi predittivi per creare nuovi contenuti e in base a un prompt, cioè quello che i l’utente inserisce e richiede all’AI.

GPT-4 è per ora disponibile solo per gli abbonati a ChatGPT Plus, la versione premium della chatbot.

Le persone che, da quando è stata lanciata, nel 2002, hanno usato ChatGPT superano il milione. Secondo la BBC, le richieste più popolari degli utenti includono la scrittura di poesie e di testi di canzoni, ma anche la creazione di codici informatici.

La chatbot, sfruttando l’intelligenza artificiale, è in grado di rispondere alle domande utilizzando un linguaggio semplice e colloquiale, molto simile a quello umano. È inoltre capace di imitare diversi stili di scrittura come quelli di autori e cantautori noti, grazie a un database in constante aggiornamento.

Nonostante gli aspetti rivoluzionari, ChatGPT ha suscitato forti preoccupazioni. Ad esempio, si teme che in futuro alcune figure lavorative potrebbero essere sostituite dall’intelligenza artificiale oppure che le risposte della chatbot potrebbero non essere sempre accurate. In merito OpenAI ha rassicurato gli utenti dichiarando di aver lanciato un prodotto sicuro e che GPT-4 dipende ancora di più dai feedback umani. Tuttavia, ha avvertito che anche il nuovo aggiornamento potrebbe comunque essere soggetto alla condivisione di informazioni sbagliate.

OpenAI ha inoltre annunciato collaborazioni future con Duolingo, nota app per l’apprendimento delle lingue, e Be my Eyes, applicazione per non vedenti.

USA: approvato un grande progetto di trivellazione in Alaska

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il 13 marzo, ha approvato Willow, un importante progetto di trivellazione petrolifera in Alaska. La scelta del governo ha riscontrato però moltissime critiche. Forte l’opposizione da parte degli ambientalisti, riporta la BBC.

La compagnia dietro il progetto Willow, il colosso energetico ConocoPhilips, ha dichiarato di voler investire nella zona e che, di conseguenza, creerà migliaia di posti di lavoro. Nonostante l’allettante proposta da 8 miliardi di dollari da parte dell’azienda, l’opposizione da parte degli attivisti è stata forte, in particolare su TikTok. Gli oppositori sostengono che il progetto dovrebbe essere fermato per evitare danni irreversibili alla flora e fauna locale.

Il progetto avrà luogo nel North Slope, una regione nell’Alaska settentrionale di 93 milioni di ettari, dove è presente un grande giacimento petrolifero capace di produrre fino a 180.000 barili di petrolio al giorno. Secondo le stime dell’Ufficio per la gestione del territorio degli Stati Uniti, ciò significa che si genererà un’impronta carbonica 278 milioni di tonnellate di CO₂ nei prossimi 30 anni, ovvero l’equivalente del consumo annuale di 2 milioni di auto negli Stati Uniti.

Tra la compagnia e gli attivisti è stato raggiunto un compromesso: saranno consentiti solo tre siti di scavo invece dei cinque inizialmente proposti.

Tuttavia, i tre rappresentati dell’Alaska nel Congresso, compreso un democratico, hanno insistito affinché il progetto venisse approvato, definendolo un investimento necessario per l’economia dello Stato.

Secondo gli ambientalisti, il progetto Willow va contro le posizioni sostenute dal Presidente Biden sull’ambiente finora. Una petizione su Change.org che chiede di fermare immediatamente Willow ha raggiunto più di tre milioni di firme e sono milioni le lettere di protesta inviate alla Casa Bianca.

«Non è la cosa giusta da fare. Sarà un disastro per gli animali, il territorio, le comunità e il clima» ha dichiarato Sierra Club, la più grande e antica organizzazione ambientalista americana.

Germania: otto morti durante una sparatoria in una Sala del Regno ad Amburgo

La sera dello scorso 9 marzo, intorno alle 21.00 ora locale, otto persone sono state uccise durante una sparatoria in una Sala del Regno di testimoni di Geova nel quartiere di Altersdorf, ad Amburgo. In seguito a diverse indagini, la polizia locale ha dichiarato che, tra le vittime, era presente anche il presunto responsabile, un ex-membro della comunità amburghese. L’uomo sarebbe stato interrotto durante il suo folle atto dalle sirene della polizia e si sarebbe poi tolto la vita puntandosi la pistola alla nuca, come riporta CNN. Il movente è attualmente ignoto, per ora si parla di “amoktat”, termine che in tedesco indica il gesto di un folle che spara nella mischia.

Secondo quanto dichiarato dal capo della sicurezza di Stato Thomas Radszuweit, il presunto killer aveva lasciato la comunità religiosa in modo brusco 18 mesi fa. In seguito, aveva aperto un sito web personale in cui offriva servizi di consulenza aziendale, presentando, però, referenze dubbie e chiedendo tariffe giornaliere spropositate. Sotto la dicitura “Valori fondamentali” aveva scritto: “Integrità, fiducia e massime prestazioni sono i valori che rappresento, che sostengo e applico”. Ralf Meyer, capo della polizia di Amburgo, ha inoltre dichiarato che, pur non presentando nessun precedente penale, a gennaio le autorità avevano ricevuto una segnalazione anonima sull’uomo con l’accusa di comportamenti inquietanti, senza, però, nessuna diagnosi medica.

Non è la prima volta che si verifica una amoktat in Germania. Nel gennaio del 2022, una persona è stata uccisa da un uomo che ha aperto il fuoco contro gli studenti in un’aula dell’università di Heidelberg, nel sud-ovest della Germania. Nel 2020, invece, una sparatoria di massa in due shisha bar ad Hanau, ha ucciso diverse persone. In ogni caso, secondo il quotidiano locale Hamburger Abendblatt, si tratta del fatto di sangue più grave degli ultimi decenni. Un precedente simile risale a quasi 30 anni fa, quando, il 10 novembre 1996, un uomo fece irruzione in una casa di appuntamenti in Budapester Strasse, uccidendo due persone e ferendone sei.

Collisione tra drone americano e jet russo

Nella mattina del 14 marzo vi è stata una collisione tra un jet russo e un drone americano in acque internazionali ad ovest della Crimea. Il comandante dell’aeronautica militare americano per l’Europa e l’Africa Gen. James Hecker, secondo quanto riferisce il Guardian, ha dichiarato che il drone stava effettuando un monitoraggio di routine nello spazio aereo internazionale, quando è stato colpito da un jet russo con il risultato di una totale perdita del drone. Hecker ha aggiunto che il comportamento dei russi è stato pericoloso e poco professionale, poiché il jet russo ha volato nelle vicinanze del drone per circa trenta minuti prima della collisione. Inoltre, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale americano John Kirby ha sottolineato come il drone fosse sopra acque internazionali e la collisione non impedirà le forze americane dal pattugliare il Mar Nero, evidenziando che quest’ultimo «non appartiene a nessuno» .

L’ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov ha dichiarato, come riportato dalla CNN, che la Russia non vuole un confronto con gli Stati Uniti e che preferisce non creare situazioni in cui vi possono essere involontari scontri o incidenti. Ha aggiunto, inoltre, che il suddetto spazio aereo era già stato identificato e dichiarato dalla Russia come zona per l’operazione militare speciale, per cui «noi vi avevamo avvertito di non entrare (…)», chiedendo come avrebbe reagito il governo americano se un drone russo si fosse avvicinato a New York o a San Francisco. Da parte del Ministero della Difesa russo è arrivata la dichiarazione secondo cui non vi è stato alcun contatto con il drone e che il jet russo non ha usato armi ed è tornato in salvo nella propria base.

Non è ancora chiaro, secondo la BBC, se la collisione sia data da un errore da parte del pilota russo oppure se è stato un vero e proprio attacco nei confronti del drone americano. Nel caso sia stato un attacco deliberato ciò potrebbe provocare una grave escalation. Sembrerebbe, perciò, che la Russia stia testando la capacità di risposta degli Stati Uniti che dovranno scegliere come comportarsi. Un comandante militare americano ha dichiarato che questo è stato un atto pericoloso e  «potrebbe portare a errori di valutazione e un’escalation non intenzionata».

Il presidente siriano Bashar Al-Assad a Mosca per incontrare Putin

Martedì 14 marzo, Bashar Al-Assad è arrivato a Mosca per la sua prima visita ufficiale al di fuori del Medio Oriente dopo il terremoto del mese scorso. La visita coincide con il 12° anniversario della rivolta in Siria, iniziata con dimostrazioni pacifiche nel marzo 2011.

Assad è stato ricevuto dal rappresentante speciale di Putin per il Medio Oriente, Mikhail Bogdanov, all’aeroporto internazionale Mosca-Vnukovo, secondo quanto riportato dal Washington Post. Durante il soggiorno è previsto un colloquio tra il presidente russo e il suo omologo siriano, che è accompagnato da un’ampia delegazione ministeriale.

Secondo un comunicato del Cremlino riportato da Reuters, i due leader discuteranno della cooperazione in ambito politico, commerciale e umanitario. Un altro argomento dell’incontro saranno le «prospettive per una soluzione globale della situazione in Siria e nelle sue vicinanze».

La Russia è uno dei principali sostenitori di Assad e ha un’importante presenza in Siria, dove la rivolta iniziata 12 anni, trasformatasi in guerra civile, ha provocato la morte di quasi mezzo milione di persone. A causa dell’instabilità, una parte cospicua della popolazione è stata costretta a fuggire dal Paese.

Mosca ha lanciato una campagna militare in Siria nel 2015 che ha contribuito a ribaltare le sorti della guerra civile a favore di Assad con massicci bombardamenti aerei sulle aree controllate dall’opposizione e dall’ISIS. Questo intervento ha permesso al presidente siriano di riconquistare gran parte del territorio perso.

Da allora la Russia ha ampliato le sue strutture militari nel Paese, con una base aerea permanente a Hmeymim, nella provincia siriana di Latakia. Mentre la base navale nella città mediterranea di Tartous è l’unico porto permanente in acque calde della marina russa al di fuori dei territori dell’ex Unione Sovietica.

Inoltre, prima del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato la morte di 50.000 persone in Turchia e Siria, la Russia aveva mediato nei colloqui tra i due Paesi colpiti dal sisma.

La Turchia e la Siria sono state su fronti opposti nella guerra civile siriana per oltre un decennio. La Turchia continua a sostenere i gruppi armati di opposizione che controllano una porzione di territorio nel nord-ovest della Siria. Lo scorso dicembre, Mosca ha ospitato a sorpresa un colloquio tra i ministri della difesa dei due Paesi.

In occasione di questa visita, i viceministri degli esteri siriano, turco e russo, nonché un consigliere della parte iraniana, si incontreranno mercoledì e giovedì a Mosca per discutere degli “sforzi antiterrorismo” in Siria.

Santiago del Cile: registrati due morti durante un tentativo di rapina

Lo scorso mercoledì 8 marzo, una sparatoria avvenuta all’aeroporto internazionale di Santiago del Cile ha provocato la morte di due persone durante un tentativo di rapina fallito. La sparatoria è avvenuta durante lo scontro tra la banda di criminali, composta da dieci rapinatori a bordo di tre furgoni, e le guardie di sicurezza.

La banda ha cercato di rubare 32 milioni di dollari che si trovavano in un camion della società Brinks in uno dei terminal di scarico. Il denaro era contenuto in 25 borse e arrivava da un volo commerciale proveniente da Miami, USA.

Il viceprefetto Agustin Urbina, della Brigata Investigativa Antirapina, ha riferito che i rapinatori hanno usato pistole e fucili da caccia. Finita la sparatoria, i criminali sono fuggiti e pochi minuti dopo sono state trovate due auto bruciate a un chilometro dall’aeroporto Arturo Merino Benítez, nel comune di Pudahuel. Si sta ancora indagando se i veicoli corrispondano a quelli ripresi dalle telecamere di sicurezza dell’aeroporto.

Due dei furgoni sono entrati nel terminal dove si trovava il denaro e il terzo è rimasto tra la guardiola e il luogo in cui è avvenuto lo scontro. Il viceministro degli Interni, Manuel Monsalve, ha descritto la banda come «altamente organizzata, ben armata». «Per questo motivo, la rapina era stata probabilmente ben pianificata», ha aggiunto Monsalve.

Intorno alle otto della mattina, i criminali hanno legato, picchiato e sottratto un’arma da fuoco alla guardia della guardiola all’ingresso dell’aeroporto. Successivamente, hanno guidato i furgoni fino a uno dei terminal di scarico dell’aeroporto, dove si trovavano l’aereo Latam proveniente da Miami con il denaro e il camion con le borse che dovevano essere trasferite in tre banche della capitale.

Monsalve ha inoltre affermato che sono state identificate due persone che potrebbero essere collegate all’aggressione. «Questo collegamento non è stato verificato, ma ci sono due persone che sono state ricoverate in due centri sanitari della Regione Metropolitana ferite da colpi di arma da fuoco», dichiara il viceministro.

Secondo quanto riportato da El País, Raúl Jorquera, Generale d’Aviazione delle Forze Armate, si è incontrato questa mattina con Carolina Tohá, Ministro degli Interni, e Maya Fernandez, Ministro della Difesa, presso il Palazzo della Moneta per discutere dell’emergenza. “Molte misure di sicurezza devono essere riconsiderate”, ha dichiarato Jorquera dopo l’incontro.

La sparatoria si inserisce nel contesto di una crisi di sicurezza che ha colpito il Paese sudamericano e che, da due decenni a questa parte, genera un forte senso di insicurezza nei cittadini del Paese.

«Perseguiremo senza sosta coloro che mettono a rischio la vita dei nostri connazionali. Sappiamo che la sicurezza è una priorità per gli uomini e le donne cileni, e quando c’è insicurezza, tutto il resto vacilla», ha dichiarato il presidente Gabriel Boric.

La rapina sventata ha fatto eco a quanto accaduto il 12 agosto 2014, quando un gruppo di individui travestiti da guardie di sicurezza è riuscito a rubare circa otto milioni di dollari da un camion parcheggiato nell’area di carico e scarico merci dell’aeroporto di Santiago del Cile. In quell’occasione l’operazione fu soprannominata la rapina del secolo.

Firmato un piano di cooperazione tra Iran e Bielorussia

Lo scorso 12 marzo il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko si è recato a Teheran. Durante la visita di Stato, Lukashenko ha firmato un piano di cooperazione con l’Iran.

La visita di Lukashenko a Teheran è avvenuta in occasione dei 30 anni di relazioni diplomatiche ufficiali tra i due Paesi. Lo scorso lunedì il presidente bielorusso è stato ricevuto da Ebrahim Raisi.

«Questo piano di cooperazione tra Iran e Bielorussia definisce i termini politici ed economici, comprendendo tutte le aree di interesse tra i due Paesi», ha dichiarato Raisi durante una conferenza congiunta con Lukashenko al termine dei colloqui.

Il presidente iraniano ha anche affermato che Teheran ha trasformato le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Occidente in opportunità ed è pronta a condividere le proprie esperienze di gestione con l’amica Bielorussia.

Entrambi i Paesi si oppongono all’«unilateralismo», ha poi detto secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber ha sottolineato che i rapporti economici tra Teheran e Minsk dovrebbero essere sviluppati contemporaneamente alle relazioni politiche.

Inoltre ha descritto la firma dei documenti come l’apertura di un nuovo livello di interazione tra l’Iran e la Bielorussia. «La volontà e la strategia comune dei presidenti dei due Paesi hanno creato un’opportunità adeguata per un’espansione completa delle relazioni», ha aggiunto.

L’obiettivo dell’intesa è quello di promuovere la cooperazione nei settori dell’industria, del petrolio, delle assicurazioni, dell’agricoltura e dei trasporti, al fine di incrementare il livello degli scambi tra i due Paesi. Lukashenko ha infatti espresso la volontà di costruire la base per l’esportazione dei prodotti iraniani nel contesto internazionale, secondo quanto riportato dal sito del governo iraniano.

Durante la conferenza i presidenti non hanno discusso la questione del conflitto ucraino e i rispettivi rapporti con la Russia.

Lukashenko ha incontrato anche la Guida suprema iraniana Ali Hosseini Khamenei.

«I Paesi sottoposti a sanzioni devono lavorare insieme e formare un collettivo comune per neutralizzare questa arma, e crediamo che questo sia fattibile», ha detto Khamenei a Lukashenko, secondo quanto riportato da Tehran Times. L’Ayatollah ha aggiunto: «le dure sanzioni hanno fatto sì che l’Iran si accorgesse delle proprie capacità e forze intrinseche».

Riferendosi all’ipotesi di un corridoio di trasporto Nord-Sud, Khamenei ha anche detto: «il lancio del corridoio andrà a beneficio di entrambi i Paesi, della Russia e dell’intera regione. Entrambe le parti devono impegnarsi per far partire il progetto».

Il leader religioso ha anche sottolineato che gli accordi e le promesse tra i Iran e Bielorussia non devono rimanere limitati alle riunioni, ma devono entrare in vigore seguendo un calendario specifico.

In risposta, Lukashenko ha affermato che la sua visita in Iran è stata finalizzata ad aprire un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due Paesi, promettendo di dare seguito agli accordi grazie anche alla cooperazione e alla determinazione del suo omologo iraniano. Inoltre il viaggio ha permesso al presidente di vedere i risultati ottenuti dal Paese mediorientale in vari campi tecnologici.

TikTok: la Cina tranquillizza gli utenti con nuove misure di sicurezza

TikTok implementa delle misure di sicurezza per rassicurare la popolazione sulla condivisione dei dati degli utenti che hanno aderito alla piattaforma.

Una manovra adottata soprattutto per la crescente preoccupazione nei confronti della Cina: si presume infatti che Pechino utilizzi TikTok come mezzo di controllo.

Il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei ha fatto qualsiasi cosa per convincere i governi che ci si poteva fidare, secondo quanto riportato da BBC News.

Il social network ha origine cinese e nasce nel settembre del 2016; oggi supera i due miliardi di utenti in tutto il mondo. La società di tecnologia internet proprietaria del social è la ByteDance con sede a Pechino e ha una significativa presenza commerciale in Cina.

TikTok sta lottando duramente per dimostrare che non è una minaccia per la sicurezza nazionale. Il Progetto Clover è un progetto incentrato sulle misure di sicurezza imposte dall’UE che ogni stato deve seguire e mira a proteggere e a salvaguardare i dati degli utenti utilizzando tecniche all’avanguardia.

Questo strumento permetterà di monitorare i flussi dei dati e di rendere più difficile l’identificazione dei singoli utenti nei dati generali.

Il Progetto Clover ha come obbiettivo il miglioramento della privacy e la sicurezza dei dati per gli utenti di TikTok in Europa. Di conseguenza, gli utenti europei di TikTok possono sentirsi più sicuri sapendo che i loro dati sono protetti e la loro privacy è rispettata.

La questione dell’utilizzo di TikTok ha creato a livello diplomatico delle tensioni, soprattutto tra gli Stati Uniti e la Cina. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il giorno prima dell’annuncio del progetto Clover, ha sostenuto la sua amministrazione nell’approvazione di un disegno di legge che concede poteri per vietare la tecnologia di proprietà straniera.

In risposta ai provvedimenti dell’amministrazione Biden, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha affermato: «gli Stati Uniti, che rappresentano una superpotenza mondiale, quanto possono essere insicuri da temere addirittura l’app preferita dei giovani?», secondo quanto riportato da BBC News.

Il primo ministro israeliano in visita a Roma

Lo scorso venerdì 10 marzo il primo ministro israeliano è arrivato a Roma. Durante la visita in Italia, della durata di 3 giorni, Netanyahu è stato impegnato in una serie di importanti colloqui. Tra questi, è stato fondamentale il confronto con la premier Giorgia Meloni.

Durante la mattina di venerdì, Netanyahu ha parlato a un forum di imprenditori italiani, cui ha dichiarato la volontà di Israele di aumentare le esportazioni di gas in Italia e in Europa.

«Stiamo già cooperando nel settore del gas con la vostra compagnia nazionale (riferendosi a ENI), ma abbiamo l’obiettivo di espandere tale cooperazione» ha detto al ministro italiano per le Imprese Adolfo Urso. «È necessario esaminare in modo attento e rapido la possibilità di aggiungere un impianto di GNL (gas naturale liquefatto), forse a Cipro, per aumentare le capacità di Israele di esportare gas verso l’Italia e da qui verso l’Europa».

Come altri Paesi europei, l’Italia sta lavorando per ridurre la sua dipendenza dal gas russo in seguito all’inizio della guerra in Ucraina. Israele ha iniziato a produrre ed esportare gas dopo aver scoperto diversi giacimenti al largo delle sue coste nel 2010. Manca però un gasdotto di collegamento con l’Europa meridionale.

Nel pomeriggio Netanyahu ha incontrato il premier italiano Giorgia Meloni. È stato accolto a palazzo Chigi da una guardia d’onore. Una banda militare ha poi suonato Hatikvah e l’inno nazionale italiano, prima che i due leader passassero in rassegna le truppe.

Dopo il colloquio, il primo ministro israeliano ha anticipato che le relazioni tra Israele e l’Italia stanno per ampliarsi in modo significativo. «L’amicizia tra l’Italia e Israele è di lunga data e in crescita. Credo che stia per assumere una dimensione ancora maggiore», ha dichiarato.

«Penso che ci sia spazio per un’enorme collaborazione e per un miglioramento», ha poi proseguito secondo quanto riporta The Time of Israel.

Netanyahu ha aggiunto che nei prossimi mesi si terrà in Israele un importante incontro tra le due parti. L’oggetto sarà la cooperazione in materia di gas naturale, acqua, agricoltura, innovazione e altro ancora.

Nel suo discorso, il primo ministro israeliano non ha menzionato l’Iran, sebbene l’avvicinamento delle potenze europee alla posizione di Israele sul programma nucleare di Teheran sia stato uno degli obiettivi principali dell’incontro. Tuttavia i funzionari israeliani hanno dichiarato che l’Iran è stato discusso a lungo durante i colloqui bilaterali.

L’incontro con Meloni è avvenuto subito dopo che l’Iran e l’Arabia Saudita hanno annunciato la ripresa dei rapporti diplomatici. A causa di questo sviluppo Netanyahu ha ricevuto numerose critiche. Il premier è stato infatti accusato di non essere stato in grado di prevenire questa nuova intesa.

Secondo quando riportato da Reuters, in un’intervista prima del suo viaggio, Netanyahu ha detto che avrebbe chiesto a Meloni di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Né lui né la premier italiana hanno menzionato la questione venerdì.

Manifestare funziona: l’esempio della Georgia

Il 7 e 8 marzo migliaia di persone hanno manifestato a Tbilisi contro una proposta di legge che, come spiega Eurasianet, avrebbe dichiarato agenti stranieri le ONG che ricevono il 20% delle sovvenzioni dall’estero. Una legge simile è già in vigore in Russia dal 2012 e ha apportato inasprimenti per i dissidenti, ma non solo, anche ulteriori ostacoli per i mass media e le ONG finanziate dall’Occidente.

La Georgia un anno fa ha richiesto l’adesione all’Unione Europea ma è stata respinta, al contrario delle richieste per avviare l’iter di adesione di Ucraina e Moldavia, a causa del partito di maggioranza Sogno Georgiano che si sta progressivamente allontanando dai principi democratici. Una legge come quella proposta allontanerebbe ancora di più la possibilità della Georgia di far parte dell’Unione Europea, tant’è che il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha dichiarato che l’adozione di una legge del genere non è compatibile con l’UE, nonostante la maggior parte della popolazione georgiana ne voglia far parte.

Secondo quanto riferisce il Guardian, la proposta di legge è stata definita dai manifestanti come una legge russa, nonostante non ci siano prove che il Cremlino si sia intromesso nella questione. È da notare però che Bidzina Ivanishvili, il fondatore del partito Sogno Georgiano, è in ottimi rapporti con il governo di Mosca. La rabbia dei manifestanti difatti si è canalizzata anche contro di lui, oltre che alla proposta di legge, e alcune centinaia di persone hanno provato a fare irruzione nel Parlamento. La risposta della polizia è stata immediata: idranti sui manifestanti che sventolavano la bandiera dell’Unione Europea. I dimostranti, però, sono stati ascoltati e la proposta di legge è stata ritirata, come è possibile notare nel discorso alla Nazione della Presidente Salomé Nino Zourabichvili che ha affermato come uno Stato democratico debba tenere in considerazione la volontà del popolo. Ciononostante, Gigi Ugulava, uno dei leader dell’opposizione, ha dichiarato: «questa è una vittoria, ma una vittoria intermedia». L’obiettivo finale è la formalizzazione della revoca legislativa e la liberazione di 66 persone arrestate durante le manifestazioni.

Perù: la magistratura condanna Castillo ad altri 36 mesi di detenzione preventiva

Due giorni dopo aver negato categoricamente di essere stato il leader di un’organizzazione criminale insediata nel Palazzo durante il suo mandato, Pedro Castillo affronta formalmente una seconda misura cautelare di detenzione preventiva di 36 mesi che, secondo le parole del giudice Juan Carlos Checkley, sarebbe «adeguata e proporzionata».

Questa volta Castillo, accusato anche di collusione e corruzione, non è potuto intervenire e ha seguito l’udienza dal carcere di Barbadillo, dove, se non ci saranno cambiamenti nel corso del processo, rimarrà fino all’8 marzo 2026. Uno scenario, questo, che la sua difesa ha cercato di evitare con ogni mezzo.

A dicembre 2022, il leader è stato sottoposto a una prima custodia cautelare di 18 mesi per il presunto reato di ribellione, a seguito del fallito tentativo di golpe, nel tentativo di creare un “governo di eccezione”.

Questa misura è indipendente. «Non vi è alcun impedimento all’emissione di una seconda ordinanza, in quanto di natura cautelare», ha spiegato il giudice Checkley. I presupposti principali per questa misura sono tre: il forte sospetto riguardo il compimento del reato; l’eventuale pena deve essere superiore a quattro anni; l’alta probabilità di pericolo di fuga e di intralcio alle indagini. Secondo il giudice, Castillo soddisfa ognuno di questi requisiti.

In primo luogo, Checkley, ha sostenuto che ci sono forti indizi che farebbero pensare che l’ex presidente sia coinvolto nell’acquisto di biodiesel per la Petroperu, la società petrolifera nazionale del Perù, con l’obiettivo di favorire la società Heaven Petroleum Operators; una trattativa, questa, per la quale Castillo avrebbe ricevuto due milioni di soles. È inoltre possibile che abbia preso parte a una gara d’appalto irregolare per la costruzione del Ponte Tarata, nella regione di San Martin.

Inoltre, secondo quanto riferisce El País, il giudice ritiene che Castillo non abbia un permesso di soggiorno permanente, che la sua famiglia non sia più in Perù (il Messico ha concesso asilo politico alla moglie, Lilia Paredes, e ai due figli) e che sarebbe in grado di lasciare il Paese, in riferimento al fatto che Castillo è stato arrestato il 7 dicembre mentre si stava recando all’ambasciata messicana.

«È un perseguitato politico. Faremo ricorso», ha dichiarato Eduardo Pachas, avvocato di Castillo.

Oltre a ciò, il magistrato ha evidenziato una presunta intimidazione di testimoni, a seguito della detenzione preliminare di Jorge Ernesto Hernández Fernández, alias El Español, accusato di coordinare una rete di controspionaggio orchestrata da Castillo per attaccare i suoi avversari. A questo si aggiunge il tentativo di intervenire nel sistema giudiziario come parte del golpe.

«Il risultato non può che essere quello di limitare la libertà di Castillo», ha concluso il giudice.

La magistratura ha inoltre ordinato 36 mesi di detenzione preventiva nei confronti dell’ex ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni Juan Silva, il quale risulta latitante; presumibilmente potrebbe trovarsi in Bolivia. Allo stesso modo, Geiner Alvarado, ex ministro dell’Edilizia Abitativa, ha ricevuto ordine di comparizione in giudizio. Dovrà attenersi alle regole di condotta e pagare  una somma di 35.000 soles (circa 9.250 dollari).

Bangladesh: 12mila Rohingya senza casa

La popolazione rohingya si ritrova senza casa a causa dell’incendio scoppiato nel campo profughi di Cox’s Bazar in Bangladesh.

L’incendio è scoppiato domenica alle 14.45 ora locale (08:45 GMT) e ha causato la distruzione dell’affollato campo profughi popolato da 12.000 rohingya nel sud-est del Bangladesh.

L’incendio durato tre ore ha provocato la distruzione di 35 moschee, 90 strutture tra cui ospedali e centri di apprendimento per i rifugiati, ha dichiarato l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Le condizioni del campo profughi di Cox’s Bazar erano già precarie a causa di un eccessivo sovraffollamento. Il problema sarà ricollocare i 12.000 rohingya dopo questa tragedia, afferma Harding Lang di Refugees Internationals, secondo quanto riportato dalla BBC News.

Il campo profughi di Cox’s Bazar era composto da 2.000 rifugi, ormai completamente bruciati, molti residenti sono ritornati sul luogo della tragedia con la speranza di trovare qualcosa nell’area carbonizzata. Le autorità del Bangladesh stanno cercando di individuare le cause dell’incendio, soprattutto capire se si sia trattato di un atto di sabotaggio o meno.

I rohingya sono un gruppo etnico di religione islamica, mussulmana sunnita, la loro lingua è il rohingya di origine indo-europea. Fino al 2012 queste minoranze vivevano nella parte settentrionale del Myanmar nella regione del Rakhine.

L’origine di questa popolazione è stata più volte messa in discussione, infatti, una legge sulla cittadinanza della Birmania, risalente al 1982, stabilisce che i Rohingya non fanno parte delle 135 etnie riconosciute dallo stato.

Nel 2012 l’esercito birmano costrinse i Rohingya a una migrazione forzata, motivo per cui la popolazione si rifugiò nel sud del Bangladesh nel campo profughi di Cox’s Bazar.

Nel 2019 il governo birmano offrì a 3.000 Rohingya ormai rifugiati in Bangladesh la possibilità di tornare nelle proprie case, ma pochi accettarono per paura di essere nuovamente perseguitati dall’esercito.

Le Nazioni Unite considerano i Rohingya una delle minoranze più perseguitate al mondo.

USA: La Casa Bianca propone una nuova strategia di cybersecurity

Il governo degli Stati Uniti ha presentato una nuova strategia di cybersecurity che mira a proteggere il Paese dalle sempre più sofisticate e dannose minacce informatiche. L’amministrazione Biden lo ha annunciato in un comunicato stampa il 2 marzo.

Stando a quanto riportato dalla ABC News, la nuova strategia si concentra sulla protezione dei dati sensibili, sull’aumento della sicurezza dei sistemi informatici federali e sulla collaborazione con il settore privato per affrontare le minacce informatiche a livello nazionale internazionale. È stato inoltre istituito un nuovo consiglio di coordinamento della cybersecurity composto da funzionari governativi di alto livello e rappresentanti del settore privato.

La nuova strategia sarà messa alla prova in particolare dall’Intelligenza Artificiale (AI). Strumenti come ChatGPT, dell’azienda OpenAI, che fornisce risposte alle domande poste dagli utenti, possono facilmente essere adoperati in modi illegali. «Gli hacker potrebbero utilizzare i chat bot per generare o migliorare codici informatici pericolosi», ha dichiarato Ari Jacoby, dirigente tecnologico.

La politica di OpenAI vieta l’utilizzo di ChatGPT per scrivere malware, per l’uso della chat per attività fraudolente o per produrre contenuti che incitano all’odio. Ci si chiede tuttavia se con l’avanzare della tecnologia AI le aziende tecnologiche saranno in grado di far rispettare queste regole.

Secondo recenti valutazioni del governo statunitense e di società private di cyber intelligence, gli Stati Uniti stanno affrontando violazioni quotidiane ai sistemi informatici da parte di gruppi di malintenzionati sostenuti da Russia, Cina e Corea del Nord. Gli esperti del settore tecnologico ritengono che questi attacchi metteranno alla prova la resilienza della nuova strategia informatica.

La nuova strategia, tuttavia, riconosce l’importanza dell’Intelligenza Artificiale e delle tecnologie emergenti nella sicurezza informatica, ma allo stesso tempo sottolinea l’importanza di restare vigili contro l’uso improprio di questi nuovi strumenti.

Attacco terroristico a Tel Aviv: tre feriti

Lo scorso giovedì 9 marzo tre persone sono state ferite in una sparatoria nella città israeliana di Tel Aviv. L’attacco terroristico è avvenuto vicino a un caffè all’angolo tra Dizengoff Street e Ben Gurion Street.

I feriti sono stati trasportati all’ospedale Ichilov. Uno di questi è arrivato in uno stato critico dopo essere stato colpito al collo, una seconda persona era in condizioni moderatamente gravi con ferite da arma da fuoco. Il terzo è stato leggermente ferito da schegge, secondo quanto dichiarato dal personale sanitario.

Secondo quanto riportato da The Jerusalem Post, i video dell’accaduto mostrano un uomo che spara sui civili israeliani. Il comandante della polizia del distretto di Tel Aviv ha dichiarato che il terrorista è stato neutralizzato. Si ipotizza la presenza di un seconda aggressore, la cui ricerca è ancora in corso.

In un comunicato il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir ha dichiarato: «Grave attacco a Tel Aviv, mi congratulo con l’agente di polizia che, con un atto di coraggio, ha eliminato il terrorista e salvato molte vite».

L’identità dell’attentatore è stata indicata come Mo’taz Khawaja, un 23enne residente nel villaggio palestinese di Ni’lin, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. L’uomo in due occasioni aveva trascorso un periodo detentivo in Israele per possesso di armi illegali.

Si tratta di un attacco molto grave. Le sparatorie a Tel Aviv, capitale commerciale e culturale densamente popolata, sono rare. Inoltre il fuoco è stato aperto in una strada trafficata, con numerosi bar e ristoranti.

Al momento dell’accaduto il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu era in visita in Italia.

«Voglio augurare ai feriti una pronta guarigione, a nome mio e di mia moglie Sara», ha dichiarato. «Rafforziamo il lavoro delle forze di sicurezza contro i terroristi. Sono sicuro che questi incidenti non si attenueranno, perché questo fa parte del nostro lavoro di costruzione del Paese».

Vicinanza alle vittime è stata espressa anche dal leader dell’opposizione Yair Lapid su Twitter. «Una serata difficile a Tel Aviv, un attacco terroristico nel mezzo di una zona commerciale. Mando gli auguri di pronta guarigione ai feriti e supporto la polizia e le forze di sicurezza nel loro impegno per riportare la pace nelle strade. Contro il terrorismo non dobbiamo avere esitazioni».

«L’attacco terroristico in via Dizengoff a Tel Aviv è una prima risposta ai crimini dell’occupazione, l’ultimo dei quali è stato l’omicidio di tre giovani questa mattina», ha dichiarato il portavoce di Hamas Abd al-Latif al-Kanua.

8 Marzo in Russia: più di un mazzo di mimose

L’otto marzo è una data significativa in Russia poiché oltre ad essere diventata la “Festa delle Donne” nel 1966, sin da inizio Novecento nell’Unione Sovietica veniva considerata la “Giornata delle Donne”. Secondo quanto riferisce RBTH, rivista online dedicata alla cultura russa, in occasione della Conferenza Internazionale delle Donne Socialiste tenutasi a Copenaghen, l’attivista tedesca Clara Zetkin sottolineò la necessità di un’uguaglianza tra i diritti degli uomini e delle donne. L’appello di Zetkin fu ascoltato da migliaia di donne e i primi scioperi sono storicamente attribuiti già nel 1913, ma sarà il 1917 l’anno determinante.

La rivoluzione russa del 1917, come riportato dal Guardian, iniziò proprio l’otto marzo a Pietrogrado, oggi San Pietroburgo, con gli scioperi delle lavoratrici delle fabbriche tessili. Migliaia di studentesse, contadine, donne di ogni estrazione sociale, ma soprattutto lavoratrici nelle fabbriche scesero in piazza con un solo obiettivo: “pane e pace”. Erano anni difficili per la Russia, la carestia dilagava così come l’odio verso il regime zarista.

Negli anni a seguire, riunioni all’interno delle fabbriche vennero effettuate l’otto marzo per premiare gli sforzi fatti dalle donne sovietiche, riportate come esempio per la società essendo madri, lavoratrici e comuniste. Con il passare degli anni, però, la simbologia legata ai diritti delle donne ha incominciato a perdere di significato, passando dalla lotta per l’uguaglianza di genere a fiori e cioccolatini. Non vi erano più riunioni all’interno delle fabbriche per celebrare i progressi effettuati, ma questa ricorrenza incominciò ad essere festeggiata in casa. Come ricorda la storiografa Natalja Kozlova, «era stato ormai creato l’esercito di lavoratrici e procreatrici». In questa giornata, i mariti prendevano le veci delle mogli per un giorno all’anno e preparavano i pasti con l’aiuto dei bambini, mentre le donne «dovevano solo far sì di essere belle, vestire abiti eleganti e avere un’acconciatura perfetta, mentre si distaccavano dalla vita quotidiana». L’unica cosa che è rimasta oggi di una giornata storica in Russia sono le mimose, che furono proposte dalla moglie di Lenin poiché altre tipologie di fiori erano di difficile reperibilità in quelle gelide temperature.

A che età vanno in pensione i cittadini europei e quanto percepiscono?

L’intenzione del Governo francese di aumentare l’età pensionabile da 62 a 64 anni (elevandola di 3 mesi ogni anno fino al 2030) ha destato un’ondata di proteste in tutto il Paese. Il primo ministro Élisabeth Borne, tuttavia, tiene duro, sostenendo che la Francia, essendo circondata da paesi che hanno già aumentato la soglia minima, debba necessariamente fare lo stesso per garantire la sopravvivenza del sistema.

In ogni caso resta un dato di fatto: come riporta RTVE, Francia e Svezia sono attualmente le nazioni che registrano l’età di pensionamento più bassa (62 anni) tra tutti i paesi membri dell’Unione europea. Dal lato opposto si trovano Italia, Grecia e Danimarca con 67 anni, e Spagna, Bulgaria, Portogallo e Olanda con all’incirca 66 anni. Dovute a variabili quali la situazione demografica, la maggior parte delle nazioni ha l’intenzione di aumentare in modo progressivo l’età pensionabile nei prossimi anni, mentre Bulgaria, Polonia, Ungheria, Lussemburgo e Slovenia non stimano attualmente nessun cambio.

Per quanto riguarda la durata della vita lavorativa dei singoli individui, i dati Eurostat del 2019 relativi ai residenti nell’Unione europea da almeno 15 anni, stimano una media di 35,9 anni, quasi quattro anni in più rispetto al periodo previsto nel 2000. Gli svedesi sono sul podio, con un’età media pari a 42 anni. A seguire si collocano olandesi e danesi, con oltre 40 anni di attività, mentre tedeschi ed estoni lavorano all’incirca 39 anni. In posizione centrale si trovano Francia, Spagna, Ungheria, Slovacchia e Bulgaria, con una media compresa tra i 34 e i 35 anni di attività. In fondo alla lista si posizionano Belgio, Polonia e Grecia, i cui lavoratori hanno poco più di 33 anni di anzianità contributiva, mentre Croazia e Italia, con 32 anni di vita lavorativa, sono agli ultimi posti.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Eurostat, esistono evidenti differenze per quanto riguarda il compenso della pensione media europea, che non raggiunge i 15.000 euro annuali. La differenza maggiore si evidenzia tra Lussemburgo, che registra 28.099 euro annui, e Bulgaria, che supera appena i 2.000 euro all’anno. Va ricordato, però, che i dati raccolti risalgono al 2018 e saranno attualizzati entro la fine di marzo 2023. Negli ultimi tempi, infatti, diversi paesi hanno rivalutato le proprie pensioni, tra cui la Spagna, che quest’anno ha approvato un aumento dell’8,5% per le pensioni contributive e del 15% per quelle non contributive. In questo contesto, si notano differenze sostanziali anche sulle risorse stanziate da ciascuna nazione per garantire le pensioni ai propri cittadini. In funzione del PIL, ai primi posti troviamo Grecia (16,1%) e Italia (15,9%), mentre agli ultimi si posizionano Malta (6,2%) e Irlanda (5%).

Bangladesh: esplosione nella capitale

A Dacca, capitale del Bangladesh, un edificio utilizzato come snodo per le merci all’ingrosso è esploso causando 15 morti e 140 feriti. Le autorità non sono riuscite a capire né la natura  né il motivo dell’incidente avvenuto intorno alle 17 ora locale (11:oo GMT).

«Finora, sono morte 15 persone, di cui 2 donne e 13 uomini, e più di 140 feriti sono stati portati al Dacca Medical College Hospital (DMCH)», ha dichiarato l’ispettore Mia Bachchu, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

In Bangladesh i disastri industriali sono sempre più comuni, infatti, l’esplosione a Dhaka non è un episodio isolato: tante sono le tragedie e i morti causati da un sistema di sicurezza non appropriato nei complessi commerciali e industriali.

Nel 2012 sono morti intrappolati in una fabbrica di abbigliamento 117 lavoratori, le porte erano chiuse e gli operai non sono riusciti a fuggire. Un anno dopo, avviene nel paese il peggior disastro industriale, la fabbrica di abbigliamento Rana Plaza “fuori Dacca” crolla uccidendo più di 1.100 persone.   

Nel 2021 a causa dell’incendio divampato durante la notte nell’impianto dell’azienda alimentare Hashem Food and Beverage, sono morte 52 persone.

Le autorità davanti a questi avvenimenti hanno deciso di imporre delle regole più severe per migliorare la sicurezza nell’industria locale. Tuttavia, alcuni settori non riescono a implementare le nuove direttive per quanto riguarda la sicurezza della propria industria, infatti, molti settori continuano ad essere colpiti da gravi carenze.

La formazione del personale e l’adattamento alle nuove norme sulla sicurezza, può costituire un problema soprattutto per le fabbriche di piccole e medie dimensioni a causa dei prezzi inaccessibili.

Austin in Iraq: le truppe USA rimarranno per combattere l’ISIS

Lo scorso martedì 7 marzo Lloyd Austin, Segretario alla Difesa statunitense, si è recato in Iraq. Durante il soggiorno, il capo del Pentagono ha confermato la volontà di Washington di mantenere la presenza militare nel Paese per combattere l’ISIS.

La visita è avvenuta dopo quasi 20 anni dall’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Il conflitto portò alla morte di migliaia di civili iracheni, al rovesciamento del regime di Saddam Hussein e a una successiva instabilità politica.

Gli Stati Uniti ritirarono le proprie truppe dal Paese mediorientale nel 2011. Tuttavia dopo tre anni l’amministrazione dell’allora presidente Barack Obama decise di inviare nuovamente migliaia di soldati in Iraq e nella vicina Siria per contribuire alla lotta contro l’ISIS.

Attualmente si contano 2500 soldati statunitensi in Iraq e 900 in Siria. In Iraq i militari collaborano con le forze locali per contrastare l’ISIS, che nel 2014 ha ottenuto il controllo di ampie porzioni territoriali in entrambi i Paesi. Nonostante la pesante sconfitta subita nel 2017 dall’ISIS, i combattenti continuano ad essere presenti in alcune parti dell’Iraq settentrionale e della Siria nord-orientale.

«Siamo concentrati sulla missione di sconfiggere il Daesh (ISIS), e non siamo qui per nessun altro scopo», ha detto Austin. «Qualsiasi minaccia o attacco alle nostre forze non fa che minare questa missione», ha poi aggiunto. Il riferimento è ai combattenti sostenuti dall’Iran, che sono stati accusati di attacchi alle strutture che ospitano le truppe statunitensi in Iraq.

«Le forze statunitensi sono pronte a rimanere in Iraq su invito del governo iracheno», ha dichiarato Austin ai giornalisti dopo aver incontrato il primo ministro iracheno Mohammed al-Sudani e il Ministro della Difesa Thabet Muhammad Al-Abbasi.

«Gli Stati Uniti continueranno a rafforzare e ampliare la loro partnership a sostegno della sicurezza, della stabilità e della sovranità dell’Iraq», ha aggiunto il capo del Pentagono secondo quanto riportato da Al Jazeera.

In risposta, il primo ministro iracheno ha affermato che l’approccio del suo governo è quello di mantenere relazioni equilibrate con gli attori regionali e internazionali, basate su interessi condivisi e sul rispetto della sovranità. Ha inoltre dichiarato che «la stabilità dell’Iraq è la chiave per la sicurezza e la stabilità della regione».

Cuba-USA: le relazioni tra i due Paesi ancora una volta congelate

Le relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti restano inalterate. Dopo il riavvicinamento tra i due Paesi durante i primi due anni dell’amministrazione Biden, durante i quali si ipotizzava che Washington avrebbe potuto compiere passi più decisivi nel 2023 per tornare alla politica di “impegno costruttivo” di Obama, ancora una volta accade qualcosa che congela la situazione e che riporta alla vecchia retorica dello scontro.

La scorsa settimana, la concessione dell’asilo politico da parte degli Stati Uniti a un cittadino cubano che aveva rubato un piccolo aereo per fuggire a Miami, insieme al fatto che Cuba sia ancora nella lista dei paesi “sponsor” del terrorismo, ha provocato una reazione furiosa da parte dell’Avana, che ha accusato Washington di promuovere la pirateria aerea e l’emigrazione clandestina, nonché di mentire sul tema del terrorismo per giustificare la politica di “asfissia economica” nei confronti dell’isola caribica.

Secondo il governo di Miguel Díaz-Canel, sono stati fatti pochi progressi con Biden. «I legami bilaterali continuano a essere marcati dalle politiche di Donald Trump», ha dichiarato il viceministro degli Esteri cubano Carlos Fernández de Cossío, come riportato da El País.

Durante la sua presidenza (2017-2021), Trump aveva interrotto il processo di normalizzazione con Cuba messo in atto da Obama –che era arrivato a chiedere al Congresso, senza successo, di porre fine all’embargo– adottando più di 240 nuove sanzioni contro l’Isola.

Nello specifico, aveva imposto restrizioni sulle rimesse e smantellato gli uffici della Western Union a Cuba, cancellato la maggior parte dei voli diretti verso l’Isola e inserito l’Isola caraibica nella lista dei paesi “sponsor” del terrorismo (da cui Obama l’aveva rimossa nel 2015), misura, quest’ultima, che aveva comportato diverse sanzioni finanziarie, oltre ad altri provvedimenti.

Biden è arrivato alla Casa Bianca con la promessa di riprendere le politiche di Obama, che aveva optato a favore della normalizzazione della situazione fra i due Paesi, ma una volta al potere è stato molto cauto e limitato nelle sue iniziative verso Cuba, soprattutto dopo le massicce proteste che ebbero luogo l’11 luglio 2021 a Cuba, in cui furono arrestati centinaia di cubani.

«Ancora una volta, le previsioni secondo cui le relazioni cubano-americane avrebbero iniziato a migliorare all’inizio del 2023 sono state deluse dalla realtà dei fatti. Alcuni eventi dell’ultima settimana hanno dimostrato che l’amministrazione Biden ha ben poca intenzione di prendere effettivamente le distanze dalle politiche da guerra fredda di Trump», ha dichiarato l’accademico cubano Carlos Alzugaray.

Per L’Avana, tuttavia, la decisione di mantenere Cuba nella lista dei paesi sostenitori del terrorismo è ciò che maggiormente ferisce. «L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto Cuba come Stato “sponsor” del terrorismo su questa lista falsata. Il vero scopo di designare l’Isola come terrorista è quello di giustificare il blocco illegale degli Stati Uniti contro Cuba», ha dichiarato il presidente cubano sul suo account Twitter.

Turchia: chi è il leader dell’opposizione

Lo scorso lunedì 6 marzo un’alleanza di opposizione ha nominato Kemal Kilicdaroglu, presidente del Partito Popolare Repubblicano (CHP), come candidato a sfidare il presidente Erdogan alle elezioni del 14 maggio, considerate dagli analisti forse le più importanti nella storia moderna della Turchia.

L’Alleanza Nazionale di opposizione, guidata dal CHP, è composta da sei partiti, tra cui il Buon Partito (IYI), il secondo più grande del blocco. Nei giorni scorsi vi erano state delle turbolenze interne al cosiddetto “Tavolo dei Sei”, che sono poi state risolte attraverso colloqui ad alto livello.

Inizialmente Kilicdaroglu emerse come attivista del CHP contro le frodi, apparendo in TV per discutere dei dossier contro alcuni funzionari. Questo ha portato a dimissioni di figure di alto profilo. Poi, nel 2009, Kilicdaroglu ha perso le elezioni come candidato sindaco del CHP a Istanbul.

L’anno successivo, dopo le dimissioni del suo predecessore in seguito a uno scandalo, è stato eletto leader del CHP senza alcuna opposizione. Prima di entrare in politica, Kilicdaroglu, 74 anni, ha lavorato al ministero delle Finanze e poi ha presieduto l’Istituto di previdenza sociale durante gli anni ’90. Nei suoi discorsi, Erdogan ha spesso denigrato il suo operato in quel ruolo.

«Governeremo la Turchia con consultazioni e accordi», ha detto il candidato a diverse migliaia di sostenitori che applaudivano fuori dalla sede del Partito della Felicità (SP), uno dei sei del blocco di opposizione. «Stabiliremo insieme il potere della moralità e della giustizia», ha dichiarato secondo quanto riportato da Reuters.

I sondaggi suggeriscono un risultato serrato sia per le elezioni presidenziali, che per quelle parlamentari. Queste elezioni decideranno non solo chi guiderà la Turchia, ma anche come sarà governata, dove si dirigerà la sua economia e quale ruolo potrà svolgere per alleviare i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente.

Un aumento del costo della vita dovuta all’inflazione dilagante e ad anni di turbolenze economiche hanno eroso il sostegno di Erdogan, dando a Kilicdaroglu un ipotetico vantaggio. Le politiche economiche del presidente in carica, tra cui i tagli ai tassi di interesse quando l’inflazione ha superato l’85% lo scorso anno, hanno messo a dura prova le famiglie e innescato una serie di crolli della lira.

Tuttavia, molti si chiedono se l’ex funzionario pubblico sia in grado di sconfiggere Erdogan, il leader più longevo del Paese, il cui carisma in campagna elettorale ha contribuito a ottenere più di una dozzina di vittorie elettorali in due decenni.

I sondaggi iniziali dopo i terremoti di febbraio avevano suggerito che Erdogan fosse in grado di mantenere in gran parte il suo sostegno nonostante il disastro. Ma l’emergere di un’opposizione unita, anche dopo un ritardo nella scelta del suo candidato, potrebbe rivelarsi una sfida maggiore, dicono gli analisti.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, Galip Dalay, senior fellow del Middle East Council, ha affermato che «se l’alleanza riuscirà a rimanere unita e a creare una sinergia e un’armonia interna, potrà vincere». Ha poi aggiunto che l’opposizione avrà anche il tacito sostegno di un settimo partito che formalmente non ne è membro: il Partito Democratico dei Popoli (HDP).

Australia: residenti evacuati a causa delle inondazioni nel Territorio del Nord

Le comunità di Kalkarindji, Daguragu, Pigeon Hole e Palumpa nel Territorio del Nord sono state colpite da inondazioni senza precedenti a causa delle piogge torrenziali che si sono verificate martedì 28 febbraio. La popolazione locale è stata evacuata, riporta la ABC News.

Il comandante della polizia del Territorio del Nord, Danny Bacon, ha dichiarato che i servizi di emergenza stanno lavorando incessantemente per portare al sicuro, quanto prima, 700 persone dalle quattro comunità.

Circa 70 dei 700 sfollati sono stati identificati come soggetti vulnerabili e sono stati tra i primi ad essere trasportati in elicottero alla città di Katherine. La restante parte dei residenti è stata accolta dalla città di Darwin.

Bacon ha aggiunto che i centri di evacuazione a Katherine e Darwin sono ben preparati per evenienze critiche come quelle sperimentate. Entrambi i centri urbani avevano ospitato sfollati in altre occasioni.

Natasha Fyles, ministro del Territorio del Nord, ha firmato una dichiarazione che dispone lo stato di emergenza nell’area, che comprende le comunità di Kalkarindji, Daguragu, Pigeon Hole, Palumpa e Yarralin.

Il Bureau of Meteorology ha previsto ulteriori precipitazioni comprese tra i 60 e i 160 millimetri. Inoltre, ha avvertito che il fiume Victoria avrebbe raggiunto i 17,5 metri di altezza nella giornata di giovedì 2 marzo.

«Non possiamo escludere la possibilità che l’altezza del fiume superi i 17,5 metri», ha dichiarato Shenagh Gamble, meteorologo di BoM.

Un residente di Kalkarindji ha postato sul suo profilo Facebook foto e video che immortalano l’inondazione. «L’acqua è così alta da lambire le porte delle abitazioni di Dagaragu (a 10km di distanza). Già da qualche giorno le case sono isolate» ha scritto.

Le inondazioni nel Territorio del Nord sono solo l’ultimo esempio dei crescenti effetti del cambiamento climatico in tutto il mondo. Piogge torrenziali, siccità prolungate e gli eventi meteorologici estremi stanno diventando sempre più comuni, mettendo a rischio la sicurezza e la stabilità delle persone.

Nuovi muri in Europa

Lo scorso 28 febbraio, secondo quanto riporta la BBC, la Finlandia ha iniziato a costruire un muro al confine con la Russia. La Finlandia è il Paese europeo con il confine più lungo, con la Federazione Russa. Questo misura esattamente 1340 chilometri. Da un anno a questa parte, numerosi cittadini russi hanno cercato una via di fuga attraverso il confine con la Finlandia; il loro obiettivo era quello di sfuggire alla chiamata dei riservisti da parte del Cremlino per combattere in Ucraina.

La costruzione di muri in Europa però non è una novità. Dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino, numerosi muri sono stati costruiti all’interno dell’Unione Europea. Secondo l’agenzia di stampa francese AFP, almeno una decina di muri tra Stati sono stati innalzati nell’ultimo trentennio, principalmente con lo scopo di impedire ai migranti l’ingresso in un altro Paese. Per citare solo alcuni dei muri al momento presenti in Europa, è possibile trovare questi al confine tra Grecia e Turchia, tra Ungheria e Serbia, tra Austria e Slovenia; ma anche in Francia, in prossimità del tunnel della Manica, così come in Spagna, precisamente nelle enclave di Ceuta e di Melilla in Nord Africa.

Risulta chiaro, quindi, secondo l’editorialista per il Guardian, Simon Tisdall, che la costruzione di barriere ostacola più i principi di pace alla base dell’Unione Europea che i migranti, causando solo un maggior numero di morti attraverso vie di fuga alternative e ancor più rischiose. In passato enormi muraglie venivano costruite per allontanare nemici, ad esempio le mura di Costantinopoli, fino a quando, però, gli Ottomani arrivarono con i cannoni. La costruzione di mura non è quindi la risposta adeguata. L’editorialista si chiede, infatti, se prima le barriere venivano costruite per difendersi dai nemici, al momento chi sono i “nemici”? I migranti che provengono dal Medio Oriente, dall’Asia Meridionale e dall’Africa? È possibile considerarli avversari? Per Tisdall no, questi esseri umani non possono ragionevolmente essere classificati nemici. Viene sottolineato, quindi, come vi è una mancanza da parte delle autorità di risposte umanitarie. Si sta riaffermando una mentalità da guerra fredda che porterà solo «alla rinascita di ideologie autoritarie legate alla paura, alla separazione e alla differenza».

Scoperto corridoio nascosto nella Grande Piramide di Giza

I funzionari egiziani che si occupano delle antichità hanno confermato l’esistenza di un corridoio interno, collocato sopra l’entrata della Piramide di Cheope.

Il passaggio potrebbe essere stato creato per ridistribuire il peso della piramide intorno all’ingresso ora utilizzato dai turisti. Un’altra ipotesi è che vi sia un’altra camera o spazio non ancora scoperto, come ha dichiarato Mostafa Waziri, direttore del Consiglio supremo delle antichità egiziane.

«Continueremo la nostra ricerca per capire cosa sia possibile trovare sotto di essa, o semplicemente alla fine di questo corridoio», ha detto Waiziri durante una conferenza stampa, secondo quanto riportato da Reuters.

La scoperta all’interno della piramide, l’ultima delle Sette Meraviglie del Mondo Antico ancora in piedi, è stata fatta nell’ambito del progetto Scan Pyramids. Dal 2015 sono state utilizzate tecnologie non invasive come la termografia a infrarossi, le simulazioni 3D e le immagini a raggi cosmici per analizzare l’interno della struttura.

Il team di scienziati è stato in grado di percepire i cambiamenti di densità all’interno della piramide analizzando il modo in cui veniva penetrata dai suoni. Questi sono prodotti dei raggi cosmici, poi assorbiti solo parzialmente dalla pietra.

Sono stati effettuati ulteriori test con il radar e gli ultrasuoni, prima che un endoscopio largo 6 mm venisse introdotto attraverso una giuntura tra le pietre che compongono gli chevron.

In un articolo pubblicato giovedì scorso sulla rivista Nature si legge che la scoperta potrebbe contribuire alla conoscenza della costruzione della piramide. Inoltre potrebbe permetterci di comprendere a pieno lo scopo di una struttura calcarea a capanna che si trova di fronte al corridoio.

L’archeologo egiziano Zahi Hawass ha dichiarato che il corridoio rappresenta una «scoperta importante» che «entrerà per la prima volta nelle case e nelle abitazioni delle persone di tutto il mondo».

Hawass ha anche affermato che questo ritrovamento potrebbe aiutare a rivelare se la camera funeraria del faraone Cheope (Khufu) esiste ancora all’interno della piramide.

L’archeologo ipotizzato che potrebbe esserci «qualcosa di importante» nello spazio sotto il corridoio. Ha poi aggiunto: «sono sicuro che tra qualche mese potremo vedere se quello che sto dicendo è corretto o meno».

Conflitto russo-ucraino: il presidente del Brasile si batte per una proposta di pace

I presidenti dell’Ucraina Volodimir Zelenski e del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva si sono incontrati per la prima volta giovedì 2 marzo. Durante il dialogo in videoconferenza, hanno discusso della guerra e della ricerca della pace, secondo quanto riportato da una nota della presidenza del Paese sudamericano.

Durante la conversazione tra i presidenti, Zelenski ha invitato Lula a visitare il suo Paese, ricordando di esserci stato sia nel primo che nel secondo mandato.

Poco prima che l’invasione russa compisse un anno, Lula ha rifiutato di dare alla Germania il consenso a consegnare munizioni a Kiev. Inoltre, il presidente del Brasile si sta battendo per un tentativo di mediazione da parte di Paesi che, come il Brasile, non sono direttamente coinvolti nel conflitto.

Tuttavia, la sua proposta non ha riscosso finora molta risonanza tra le grandi potenze che, pur accogliendo con favore qualsiasi iniziativa di pace, sono riluttanti a mettere l’Ucraina e la Russia su un piano di parità, come ha spiegato il ministro degli Esteri francese Catherine Colonna durante una recente visita a Brasilia.

Nel tentativo di creare il clima necessario per un eventuale sostegno alla proposta di Lula, il ministro degli Esteri brasiliano Mauro Vieira ha avuto colloqui con i suoi omologhi di Russia, Cina e Stati Uniti a Nuova Delhi, nel quadro di una riunione ministeriale del G20.

Al contempo, il presidente ucraino vuole l’aiuto del Brasile per ottenere il sostegno dei governi latinoamericani nella guerra contro la Russia. Il Brasile ha condannato l’invasione, ma preferisce rimanere neutrale nel conflitto, come hanno fatto anche i Paesi confinanti e l’allora presidente, Jair Bolsonaro, che aveva visitato Mosca pochi giorni prima che Vladimir Putin iniziasse la guerra.

Lula ha ricordato a Zelenski che la settimana precedente il colloquio aveva votato a favore della risoluzione ONU sulla guerra perché «il Brasile difende l’integrità territoriale dell’Ucraina». Nonostante la condanna dell’invasione, il Paese latinoamericano non ha aderito alle sanzioni occidentali contro Mosca, come invece fa la maggioranza del cosiddetto Sud globale.

Secondo quanto riferisce El País, Lula ha ribadito «la sua disponibilità a partecipare a qualsiasi sforzo per riunire un gruppo di Paesi in grado di dialogare con entrambe le parti per promuovere la pace». Difatti, il presidente brasiliano sperava di poter concretizzare l’idea nel corso del suo prossimo viaggio ufficiale a Pechino alla fine del mese. Ad ogni modo, le autorità cinesi hanno già presentato una propria iniziativa di pace.

Nei giorni scorsi, il Governo brasiliano ha inoltre suscitato il disappunto degli americani, a seguito dell’autorizzazione dell’attracco di due navi da guerra iraniane a Rio de Janeiro, poiché contro le loro richieste. Il governo israeliano ha criticato la presenza delle navi in Brasile definendola pericolosa e deplorevole.

Argentina: blackout lascia circa 20 milioni di persone al buio

Mercoledì 1° marzo, un incendio in una prateria alla periferia di Buenos Aires ha lasciato milioni di argentini senza elettricità. L’incendio, che il Governo ritiene doloso, ha raggiunto le linee elettriche ad alta tensione a General Rodríguez, a ovest della capitale, provocando la disconnessione di diverse centrali elettriche dal sistema nazionale per via dei protocolli di protezione.

Oltre a gran parte della città di Buenos Aires e della sua periferia urbana, il blackout ha interessato le province di Santa Fe, Córdoba, Mendoza, San Juan e alcune aree del nord-ovest del Paese. Quasi il 40% del Paese è rimasto senza luce: circa 20 milioni di persone.

Secondo quanto riportato da El País, l’allarme è scattato quando una delle centrali nucleari più grandi del territorio, Atucha I, ha smesso improvvisamente di funzionare intorno alle quattro del pomeriggio. «In caso di squilibrio, il sistema risponde immediatamente interrompendo la produzione per la sua stessa protezione», ha dichiarato il Ministero dell’energia in un comunicato.

Atucha I, situata a quasi 100 chilometri a nord-ovest di Buenos Aires, è stata la prima a ricevere i segnali dell’incendio che ha colpito tre linee ad alta tensione e ha subito sospeso l’attività. Il sistema di interconnessione del centro e del nord del Paese ha poi replicato il protocollo.

«Entro poco la linea sarà ripristinata nella maggior parte dei punti. Tuttavia, non c’è una certezza totale e potrebbero verificarsi dei problemi. Ad ogni modo, finora non ci sono stati intoppi», ha rassicurato il viceministro dell’energia Santiago Yanotti, come riportato dalla CNN.

Il Ministero dell’Economia e il Ministero dell’Energia si sono rivolti a un tribunale federale chiedendo di «prendere immediatamente tutte le misure necessarie per trovare i responsabili dell’incendio». La linea elettrica colpita collega la città di General Rodríguez con la città di Campana, a circa 70 chilometri a nord, su una sponda del fiume Paraná, il cui delta soffre ogni anno di gravi incendi appiccati da allevatori che cercano nuovi spazi per il pascolo del bestiame. Solo l’anno scorso, tra gennaio e agosto, più di 130.000 ettari sono stati bruciati.

L’Argentina non vedeva un blackout di tale portata da giugno 2019, quando un cortocircuito nella provincia di Entre Ríos, al confine con l’Uruguay, lasciò senza corrente l’intero Paese, quasi 50 milioni di persone, e finì per estendersi oltre il confine.

La situazione allora era diversa, ma un dato serve proprio a confrontare la quantità di energia richiesta nei periodi di caldo intenso. Durante il blackout del 2019, in pieno autunno, il consumo in tutto il Paese ha raggiunto solo 15.000 megawatt. In quest’occasione, le temperature sono evidentemente aumentate a causa del cambiamento climatico e di conseguenza la richiesta di energia è maggiore.

Secondo le informazioni registrate da Cammesa, la società che gestisce l’elettricità nel Paese, il flusso di energia è sceso da quasi 26.000 megawatt a 14.000 in meno di mezz’ora. Il blackout ha colpito i trasporti pubblici elettrificati, come la metropolitana e ha lasciato gran parte della capitale senza acqua corrente.

Tuttavia, gli incendi non costituiscono l’unico problema del Paese. L’Argentina è nel bel mezzo della nona ondata di calore, che mercoledì ha raggiunto temperature fino a 36 gradi in città come Buenos Aires.

Tornano in Australia le lance aborigene rubate dal capitano James Cook

Le quattro lance aborigene sottratte dal capitano Cook durante la visita a Botany Bay nel 1770 e conservate all’Università di Cambridge, Inghilterra, saranno restituite all’Australia, riporta la BBC.

Il Trinity College di Cambridge ha accettato di restituire le lance dopo anni di trattative condotte dagli indigeni. L’istituto britannico le custodiva dal 1771, mentre dal 1994 sono state curate dal Museo di Archeologia e Antropologia di Cambridge. Una volta ritornate in Australia, le lance saranno esposte in un nuovo centro per i visitatori gestito dalla comunità di Gweagal.

Il presidente della Fondazione Gujaga della comunità, Ray Ingrey, ha affermato che il popolo Gweagal aveva un legame profondo e spirituale con le lance di legno a più punte.

«Fanno parte della nostra storia, le lance raccontano come è nata la nostra comunità. Non solo hanno più di 253 anni e ci permettono di dare uno sguardo al passato, ma rappresentano anche un legame di tipo spirituale, per questo sono così importanti» ha aggiunto Ingrey.

Si ritiene che le quattro lance siano le ultime rimaste di dozzine sottratte dai primi colonizzatori.

«Le lance sono state sottratte quando gli indigeni si sono ritirati nel bosco dopo un violento scontro con i colonizzatori britannici. L’equipaggio ha iniziato a saccheggiare l’accampamento aborigeno, raccogliendo manufatti e tutto ciò su cui potevano mettere le mani. Molte lance sono state impacchettate e messe sull’Endeavour, la nave di James Cook» ha raccontato Ingrey.

Tanti cittadini australiani vedono lo sbarco di James Cook come un evento fondamentale per la storia del Paese. Questo punto di vista, però, non è condiviso da tutti: gli aborigeni occupavano l’Australia da molto prima della venuta degli inglesi e molte comunità incolpano la colonizzazione per i problemi attuali.

«È passato molto tempo. Gli anziani della comunità, oltre 20 anni fa, hanno avviato una campagna per la restituzione dei beni culturali saccheggiati durante la colonizzazione. Molti anziani non sono più con noi. È un giorno di estrema felicità, ma anche di tristezza perché non sono qui per festeggiare con noi» ha commentato infine Ingrey.

Manifestazione per la pace a Berlino

Lo scorso 25 febbraio, secondo quanto riporta il Guardian, migliaia di persone si sono riunite a Berlino per manifestare contro l’invio di armamenti all’Ucraina, chiedendo un negoziato di pace. La manifestazione è stata organizzata da Sahra Wagenknecht, parlamentare, e Alice Schwarzer, attivista per i diritti delle donne, che hanno dichiarato che hanno partecipato circa 50.000 persone in confronto alle 13.000 presenze registrate dalla polizia.

Wagenknecht ha enfatizzato la mancanza di consultazione dell’opinione pubblica sull’invio di armi all’Ucraina, criticando le scelte effettuate da Olaf Scholz, Cancelliere Federale della Germania, e da Annalena Baerbock, Ministra degli Affari Esteri. Questo ha spinto gran parte della popolazione a protestare con slogan come “Elmetti oggi, carri armati domani, dopodomani i vostri figli”, denunciando l’intensificazione del sostegno militare tedesco. La Germania inizialmente ha donato 5.000 elmetti mentre adesso è arrivata a proporre l’invio di carri armati Leopard II. Circa due settimane prima della protesta, le due organizzatrici hanno pubblicato un manifesto per la pace chiedendo a Scholz di fermare l’escalation nell’invio di armi; questo manifesto è stato firmato da circa 650.000 persone, tra cui figure intellettuali e politiche di spicco.

Nel corso della manifestazione non sono mancate, inoltre, canzoni legate alla pace come “Imagine” di John Lennon e riferimenti al principio della non violenza di Mahatma Gandhi. Una manifestante di nome Edith ha detto: «Dovremmo seguire l’esempio di Gandhi sulla resistenza non violenta per porre fine a questa follia». Al contrario, alcuni gruppi di cittadini ucraini si sono avvolti nella bandiera del loro Paese, mostrando anche vari poster con su scritto: “Non mandare armi all’Ucraina è come supportare un genocidio”. Wagenknecht ha ricordato la motivazione principale della manifestazione: «porre fine a queste morti e sofferenze terribili […] e a una guerra senza fine con armi sempre più all’avanguardia».

Grecia: incidente mortale tra due treni

Lo scorso 28 febbraio, due treni appartenenti all’impresa ferroviaria Hellenic Train, sono stati coinvolti in un incidente frontale all’interno di un tunnel vicino alla città di Larissa, situata a 300 chilometri al nord di Atene. All’interno dei due convogli, di cui uno passeggeri e l’altro merci, erano presenti circa 350 passeggeri e 20 membri dell’equipaggio. Almeno 38 persone hanno perso la vita, mentre i feriti sono circa 130, ma il numero è in continuo aumento. I passeggeri rimasti illesi o lievemente feriti sono stati accompagnati a Salonicco, situata a 130 chilometri a nord della zona dell’incidente. Tra le persone ferite, vi erano anche diversi minorenni che viaggiavano sul treno notturno tra Atene e Salonicco, i due principali centri urbani del paese.

Il capostazione della stazione di Larissa è stato arrestato, ma l’uomo ha negato qualsiasi negligenza umana e ha attribuito la causa dell’incidente a un possibile guasto tecnico, come riporta il quotidiano El País. A causa dell’alta velocità, inoltre, non solo i macchinisti e l’equipaggio di entrambi i treni hanno perso la vita, ma i primi vagoni, che hanno subito l’impatto maggiore, sono completamente usciti fuori dalle rotaie e uno di questi ha preso fuoco, intrappolando numerosi passeggeri. A intervenire tempestivamente le autorità locali che, con 150 pompieri, circa 30 ambulanze e numerosi agenti di polizia, hanno messo in atto una massiccia operazione di salvataggio.

La presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha mostrato la propria vicinanza al popolo greco con un Tweet: «I miei pensieri sono rivolti al popolo greco dopo il terribile incidente ferroviario che ha provocato tante vittime ieri sera vicino a Larissa. Tutta l’Europa è in lutto con voi. Auguro anche una pronta guarigione a tutti i feriti». In greco, aggiunge «siamo accanto a voi».  Anche la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, sempre su Twitter, esprime le condoglianze a tutte le famiglie delle vittime: «Le mie sincere condoglianze a tutte le vittime, alle loro famiglie e amici. Sono grata a tutti i soccorritori e al personale medico presente sul posto. I nostri pensieri sono rivolti al popolo greco dopo questo tragico evento».

Turchia: annunciate le elezioni  per il 14 maggio

Mercoledì 1 marzo Recep Tayyip Erdogan ha smentito le voci riguardo al possibile rinvio delle elezioni nazionali, in seguito ai terremoti del mese scorso. Attenendosi a quanto programmato, il presidente ha dichiarato che si terranno il 14 maggio, una data a poco più di tre mesi dai devastanti terremoti che hanno ucciso più di 45.000 persone.

«Questa nazione farà ciò che è necessario il 14 maggio, se Dio vuole», ha detto Erdogan in un discorso rivolto ai membri del suo partito AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi – Partito della Giustizia e dello Sviluppo) e tenutosi al Parlamento di Ankara, secondo quanto riporta Al Jazeera.

Prima del disastro, la popolarità di Erdogan era stata erosa dall’aumento del costo della vita e dal crollo della lira. Il governo turco è stato poi chiamato ad affrontare le critiche per la risposta al terremoto conn il più alto tasso di mortalità nella storia moderna della nazione.

In seguito alle accuse da parte dell’opposizione, Erdogan ha ammesso che ci sono stati dei ritardi nella gestione dell’emergenza, ma ha anche affermato che le “campagne negative” sono state condotte per interessi politici. Il presidente ha elencato le operazioni di ricerca, di salvataggio e gli sforzi di recupero dispiegati nell’immediatezza dei terremoti. «Lo Stato è stato sul campo fin dalla prima ora». La priorità della sua amministrazione è per ora la ripresa del Paese, secondo quanto riporta Daily Sabah.

All’interno dell’ambiente politico sono stati espressi dubbi sulla capacità delle autorità di organizzare logisticamente il voto nella zona colpita dal terremoto, dove vivono circa 14 milioni di persone. La criticità della situazione è dimostrata dallo stato di emergenza, dichiarato per tre mesi dallo scorso 7 febbraio, un giorno dopo il sisma.

Una delegazione del YSK (Yüksek Seçim Kurulu – Comitato Elettorale Supremo) è partita lunedì scorso per visitare le province turche. Lo scopo è verificare se sia possibile organizzare elezioni sicure nella regione. Verrà anche valutata l’opzione di allestire i seggi elettorali nelle “tendopoli e nei container” dove sono attualmente ospitati i sopravvissuti.

All’inizio della settimana, l’opposizione ha annunciato che il 2 marzo avrebbe nominato il proprio candidato. L’alleanza, comunemente soprannominata “tavolo per sei”, ha posticipato la scelta del candidato nell’ultimo anno, da quando la Turchia è immersa in un clima elettorale complesso. La nomina era prevista per il 13 febbraio, data annunciata prima del terremoto. Tuttavia la catastrofe ha sconvolto l’agenda del Paese e i politici sono ora concentrati sulla mobilitazione per le vittime.

Secondo i sondaggi, queste elezioni rappresenterebbero la più grande sfida elettorale del presidente in carica, in quanto il rischio di sconfitta è elevato.

Guerra in Ucraina: Pechino possibile mediatore per gli accordi di pace

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, durante la conferenza in occasione del primo anniversario dall’inizio della guerra esprime la necessità di incontrare il leader cinese, Xi Jinping, l’unico secondo il presidente ucraino in grado di fare pressione su Putin per fermare la guerra.

È passato un anno dall’inizio della guerra in Ucraina e ancora si cerca di capire il ruolo della Cina negli schieramenti politici internazionali. Pechino sullo scacchiere internazionale sembra essere l’unico interlocutore che possa fare da intermediario tra i due Paesi in guerra.

Zelensky ha affermato «Voglio davvero credere che la Cina non fornirà armi alla Russia», secondo quanto riportato da BBC News.

Xi Jinping non ha ancora deciso se accettare o meno l’invito del leader ucraino a un possibile vertice.

La Cina durante quest’anno di guerra non ha mai abbandonato la Russia, ribadendo in più occasioni la necessità di trovare degli accordi di pace per la risoluzione del conflitto.

Considerando il comportamento iniziale della Cina, tuttavia, il capo della Nato Jens Stoltenberg ha detto che Pechino «non ha molta credibilità perché non è stata in grado di condannare l’invasione illegale dell’Ucraina».

La guerra dopo un anno non sembra trovare soluzione, Zelensky però continua a rassicurare il proprio paese con la prospettiva di una pace vicina.

Durante un’intervista il presidente ucraino ha detto che la vittoria «ci aspetta inevitabilmente se gli alleati rispetteranno le loro promesse e scadenze», ma il conflitto dopo un anno di tragici avvenimenti si è trasformato in una guerra di logoramento.

L’Ucraina non è sola e, nell’attesa della decisione di Pechino sulla politica da intraprendere per una risoluzione del conflitto, continuano gli aiuti degli alleati. La Polonia ha già consegnato quattro carri armati Leopard II di fabbricazione tedesca all’Ucraina. Il Regno Unito sta fornendo 14 carri armati Challenger 2. La Germania fornirà 14 carri armati Leopard, insieme alla Spagna e al Canada, mentre, gli Stati Uniti continuano a rappresentare il più grande fornitore di aiuti militare all’Ucraina, con l’invio di 31 carri armati M1 Abrams.

La nuova tranche di aiuti della Casa Bianca per l’Ucraina vale 12 miliardi di dollari, di cui 2 miliardi di dollari dal Dipartimento della Difesa, comprese munizioni e droni, e 10 miliardi di dollari dal Dipartimento di Stato, compreso il sostegno al bilancio del governo ucraino.

Conflitto israelo-palestinese: scontri nei villaggi a sud di Nablus

Lo scorso 26 febbraio almeno 390 palestinesi sono stati feriti durante un intervento armato dei coloni israeliani nei villaggi di Huwara, Zaatara, Burin e Asira al-Qibliya. La maggior parte di loro è stata ferita dai gas lacrimogeni sparati dall’esercito e dall’inalazione di fumo causata dagli incendi appiccati. L’attacco è avvenuto in seguito alla morte di due israeliani nella mattinata di domenica.

Un uomo palestinese di 37 anni, identificato come Samih al-Aqtash, è stato colpito allo stomaco ed è morto per le ferite riportate. Padre di cinque figli, era tornato a casa pochi giorni fa dopo essersi offerto volontario per aiutare i sopravvissuti al terremoto in Turchia.

I media palestinesi hanno riferito di accoltellamenti e attacchi con aste di metallo e pietre. Il Ministero della Salute palestinese ha dichiarato che una persona è stata ricoverata in ospedale dopo essere stata colpita alla testa con una pietra, causando fratture al cranio. Un’altra persona è stata picchiata con una barra di metallo al volto.

Saddam Omar, un residente di Huwara, ha descritto la violenza come barbara. Ha dichiarato ad Al Jazeera: «ieri abbiamo assistito a un nuovo livello di crimini dei coloni, che hanno attaccato tutto aggressivamente. Intendo negozi, persone, supermercati, case, alberi, auto, garage. Hanno cercato di entrare nelle case. Hanno bruciato quasi tutto».

Domenica sera decine di israeliani sono arrivati nella zona per partecipare agli scontri. The Jerusalem Post riporta che le moschee di Huwara hanno pubblicato messaggi che invitavano i palestinesi ad affrontare i coloni. Gli abitanti della città hanno bruciato pneumatici per le strade dopo che i coloni sono entrati nell’area.

Alcune ore dopo l’inizio dei violenti scontri, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i rivoltosi a non «prendere la legge nelle loro mani». «Vi ricordo che nelle ultime settimane [le forze di sicurezza] hanno eliminato decine di terroristi e impedito decine di attacchi terroristici. Lasciate che l’IDF completi l’inseguimento, non prendete la legge nelle vostre mani. Insieme sconfiggeremo il terrorismo» ha dichirato.

Nella tarda serata di domenica, Netanyahu ha tenuto una incontro con i capi dell’establishment della difesa.

In merito a quanto accaduto si è espresso anche Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, il quale ha condannato i disordini domenica sera. Ha affermato che «questo terrorismo e chi vi sta dietro mira a distruggere e a vanificare gli sforzi internazionali compiuti per cercare di uscire dall’attuale crisi».

L’ufficio di Abbas ha aggiunto che la violenza «conferma la mancanza di fiducia nelle promesse fatte per fermare il terrorismo dei coloni e gli attacchi ai cittadini palestinesi. Ciò che i coloni hanno fatto oggi è la traduzione delle posizioni di alcuni ministri di questo governo israeliano di estrema destra». 

Nonostante le dichiarazioni delle autorità politiche l’escalation di violenza continua. L’esercito israeliano ha riportato che lunedì 27 febbraio, nel pomeriggio un israeliano è stato colpito e ferito da un uomo palestinese nella Cisgiordania. L’aggressore ha aperto il fuoco contro un’auto israeliana vicino alla città di Gerico. Ha continuato a guidare e ha sparato contro una seconda auto, uccidendo un automobilista. L’uomo è ancora in fuga, per quanto siano stati istituiti posti di blocco dall’esercito israeliano.

Influenza aviaria: l’Argentina sospende le esportazioni di prodotti avicoli

Dopo due settimane di estrema allerta, le autorità sanitarie argentine hanno individuato il primo caso di volatile infetto da influenza aviaria. Il Servizio nazionale per la salute e la qualità agroalimentare – Servicio Nacional de Sanidad y Calidad Agroalimentaria (Senasa) – ha confermato l’infezione in un allevamento di polli nella provincia di Rio Negro, nella Patagonia settentrionale.

L’annuncio annulla automaticamente le esportazioni di prodotti avicoli del Paese, cosa che il Ministero dell’Economia teme fortemente, in quanto il valore delle vendite del settore all’estero supera i 350 milioni di dollari all’anno.

La scorsa settimana, il governo aveva già lanciato l’allarme, dopo aver individuato otto casi di influenza tra specie selvatiche. Il Ministero dell’Economia ha poi annunciato una serie di aiuti economici per i produttori, temendo che lo stato di difficoltà delle aree rurali dovuto alla siccità potesse scoraggiare la segnalazione di eventuali casi sospetti.

Il Senasa ha analizzato 177 casi a partire da martedì 21 febbraio e ha confermato 25 infezioni. Le autorità hanno dichiarato che il consumo interno «continuerà a svilupparsi normalmente», poiché la malattia non può essere trasmessa attraverso il consumo di carne o uova, e che gli esportatori di carne potranno quindi vendere i loro prodotti sul mercato interno, secondo quanto riferito da El País.

«I nostri prodotti avicoli continuano ad essere sicuri per gli argentini. La sospensione delle esportazioni risponde ai requisiti della normativa internazionale», ha spiegato il Ministro all’Agricoltura, Juan José Bahillo, su Twitter.

Il Governo ha rafforzato i controlli sanitari ai passaggi di frontiera e nelle aree naturali dove si concentrano i volatili selvatici, ma la preoccupazione principale resta la diffusione della malattia negli allevamenti destinati al consumo alimentare.

Secondo l’ultimo rapporto annuale del Ministero dell’Agricoltura, l’Argentina è l’ottavo produttore di pollame al mondo. In base ai dati del governo, il 97% della produzione è destinato al consumo interno e il restante 3% viene esportato in oltre 56 Paesi. La produzione coinvolge più di 100 piccole e medie imprese e impiega quasi 70.000 persone in tutto il Paese, ha riportato inoltre il quotidiano spagnolo.

L’influenza aviaria si sta diffondendo in tutto il Sud America. In Bolivia, il virus è stato individuato all’inizio di febbraio e più di 140.000 uccelli sono già stati abbattuti negli allevamenti per la produzione di alimenti.

Anche Uruguay, Paraguay e Brasile sono in stato di allerta. I casi più sensibili sono stati segnalati in Perù e Cile, che hanno registrato la morte di leoni marini che avevano contratto il virus mangiando carcasse di uccelli infetti. I ricercatori temono che queste morti di massa significhino che il virus possa iniziare a diffondersi anche tra i mammiferi.

Il fatto che la malattia muti e possa diffondersi da persona a persona è fonte di preoccupazione per la comunità scientifica, perché l’uomo non ha difese contro il virus. Dal 2003 sono stati segnalati circa 870 casi umani e più della metà sono morti. L’ultimo decesso registrato è stato quello di una bambina di 11 anni, morta mercoledì 22 febbraio in Cambogia, in una zona dove il consumo di pollo è largamente diffuso.

Pakistan: esplosione nella provincia del Balochistan

Un’esplosione, nella provincia pakistana del Balochistan a circa 500km a est della capitale provinciale Quetta, in un mercato affollato ha causato la morte di almeno quattro persone ferendone 14. Nessun gruppo separatista o nazionalista ha rivendicato l’attacco.

Un capo della polizia locale, Sajjad Afzal, in base alle indagini, ha comunicato che la bomba era apparentemente attaccata a una motocicletta ed è stata fatta esplodere con un telecomando, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Il Balochistan è la provincia più grande del Pakistan, è considerata una vasta regione dell’Asia sud-occidentale, politicamente suddivisa tra Iran, Afghanistan e Pakistan, questa divisione politica crea tensioni continue nella regione.

Il Balochistan a causa della sua posizione geografica è regolarmente preso di mira da combattenti armati e separatisti nazionalisti.

L’attacco al mercato non è un episodio isolato: durante la notte due agenti di polizia sono rimasti feriti gravemente da una bomba magnetica attaccata al loro veicolo, non è escluso un possibile collegamento tra i due avvenimenti.

Il primo ministro del Balochistan, Abdul Qudos Bizenio, condanna l’attentato come un attacco terroristico affermando «i terroristi stanno cercando di creare un clima di incertezza attraverso tali attacchi per raggiungere i loro obiettivi, ma non permetteremo a questi elementi antistatali di avere successo», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Le violenze continue sono il frutto della reazione dei ribelli contro i piani di investimento concordati con Pechino nella regione per collegare la provincia dello Xinjiang con il Mar Arabico in Balochistan attraverso una rete di strade e ferrovie.

La maggior parte degli attacchi che avvengono in quei luoghi sono causati o dal  Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), organizzazione fondata nel 2007 da gruppi di fuorilegge che sostengono i talebani nel vicino Afghanistan, o dall’ISIS.

Tensioni in Moldavia

La Moldavia è uno tra i paesi che ha subito di più le conseguenze della guerra in Ucraina, a causa non solo dei numerosi profughi ucraini ma anche delle restrizioni russe sulle forniture di gas. Inoltre, lo scorso 21 febbraio, come riportato dalla BBC, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha revocato un decreto del 2012 che assicurava la sovranità della Moldavia sulla Transnistria, territorio russofono ma appartenente alla Moldavia. Questa regione proclamò la sua indipendenza nel 1990, che non è stata riconosciuta dai Paesi membri dell’ONU; tuttavia, vi è la presenza di soldati russi anche dopo il conflitto interno del 1992 tra lo Stato centrale e la regione separatista.

Il Ministro della Difesa russo, citato dalla CNN, ha accusato l’Ucraina di aver organizzato una provocazione armata verso la Transnistria. Mosca ha già dichiarato, secondo quanto riportato dal Guardian, che vi saranno delle conseguenze se Kiev attaccasse la Transnistria e qualsiasi azione verrà considerata come un attacco alla Russia stessa. Non vi è, però, alcun rischio di attacchi da parte dell’Ucraina secondo la Presidente della Moldavia Maia Sandu, che afferma che in caso di minaccia per il Paese la popolazione verrà prontamente informata dalle istituzioni. La volontà del popolo, secondo la TASS, è la neutralità per quanto riguarda il conflitto in Ucraina; questo è l’esito di un sondaggio popolare durato dal 6 al 23 febbraio che ha coinvolto 89 insediamenti moldavi, al quale hanno partecipato 1.100 persone.

Valeriu Mija, segretario dello Stato moldavo, ha espresso la sua preoccupazione per le dichiarazioni russe poiché «alcuni vogliono vedere il nostro Paese cedere e installare a Chișinău un governo fantoccio schiavo degli interessi del Cremlino». Inoltre, secondo quanto dichiarato da Mija, il ministro della difesa moldavo crede che le azioni russe siano più una strategia psicologica che un piano vero e proprio.

48 decessi in Brasile a causa delle forti piogge

Le piogge torrenziali hanno causato ancora una volta una tragedia durante la stagione estiva brasiliana: si contano almeno 48 morti solo nella giornata di domenica 19 febbraio. Due giorni di pioggia nella zona di São Sebastião, città dello Stato di San Paolo, hanno provocato l’equivalente di due mesi di precipitazioni.

Come accade ogni anno in questo periodo in alcune zone del Brasile, le fortissime piogge hanno causato frane che hanno spazzato via decine di abitazioni precarie. In poche ore sono caduti circa 600 litri per metro quadro.

Mentre le autorità sono ancora alla ricerca dei dispersi, la stampa apprezza l’armonia dimostrata dal presidente Luiz Inácio Lula da Silva e dal governatore di San Paolo, Tarcisio de Freitas, principale alleato di Bolsonaro a livello territoriale, nell’assistenza e nel salvataggio delle vittime. La pronta cooperazione dei due leader per rimediare alla catastrofe in atto ha fatto notizia.

Secondo quanto riportato da El Pais, non è stato così durante il mandato di Jair Bolsonaro, in particolare nel corso della pandemia di Covid19, quando l’allora presidente ha considerato come nemici i governatori e sindaci che propendevano per l’isolamento sociale, impedendo quindi una strategia coordinata per affrontare il problema. Inoltre, un anno fa l’allora presidente ha rifiutato gli aiuti umanitari offerti dall’Argentina per le persone colpite dalle piogge nello Stato di Bahia.

Sia il governatore Freitas sia il presidente Lula sono atterrati ore dopo la tragedia a São Sebastião, l’epicentro della catastrofe, situato a 200 chilometri dalla capitale San Paolo, per mostrare solidarietà alle persone colpite.

«Dobbiamo lavorare in cooperazione», ha affermato Freitas. «La presenza del governatore e del sindaco dimostra che è possibile esercitare la nostra funzione in una democrazia anche quando la pensiamo in modo diverso. Il bene comune del popolo è molto più grande delle nostre differenze politiche», ha replicato il presidente Lula.

Le piogge torrenziali, oltre a spazzare via case e altri edifici, hanno danneggiato gravemente alcune strade, complicando i soccorsi e rendendo difficile l’evacuazione delle persone coinvolte.

Le tempeste che colpiscono la regione del Brasile in questo periodo dell’anno sono comuni, ma negli ultimi anni sono state più intense e distruttive. Il risultato di questi eventi catastrofici è spesso letale, dato l’elevato numero di persone che vivono in aree ufficialmente considerate ad alto rischio e che non possono spostarsi in zone meno pericolose.

Il presidente Lula ha sorvolato lunedì 20 gennaio le zone più colpite per rendersi conto della situazione. Il leader si è impegnato a ricostruire le case distrutte o danneggiate nella regione, invitando le autorità del Paese a non costruire più abitazioni nelle aree considerate ad alto rischio di inondazioni e frane.

La Casa Bianca annuncia nuove sanzioni contro Russia

Gli Stati Uniti hanno commemorato l’anniversario dell’inizio della guerra tra Ucraina e Russia in un comunicato stampa pubblicato il 24 febbraio dagli uffici della Casa Bianca. Nel documento vengono annunciate nuove sanzioni contro la Russia e viene rinnovato il pieno appoggio alla causa ucraina.

Le nuove restrizioni sono rivolte a oltre cento organizzazioni russe, tra cui banche e industrie della difesa, cioè enti che si occupano della produzione di materiali e attrezzature militari. Inoltre, gli Stati Uniti hanno affermato di voler fermare chiunque aiuti la Russia ad ottenere i materiali oggetto di sanzione per vie traverse.

La Casa Bianca ha dichiarato nel comunicato stampa che le nuove restrizioni sono state progettate per impedire alle banche, ai funzionari e alle autorità russe di «operare illegalmente in Ucraina».

Per quanto riguarda gli aiuti all’Ucraina, il nuovo round di aiuti vale 2 miliardi di dollari. Altri 550 milioni di dollari saranno invece stanziati sia all’Ucraina sia alla Moldavia per rafforzare le loro infrastrutture energetiche.

Venerdì 24 febbraio si è tenuta, inoltre, una riunione dei leader del G7, che hanno affermato di aver costituito un gruppo di esperti che si occuperà di impedire alla Russia di trovare scappatoie per evitare le sanzioni.

«I paesi del G7 continueranno a mantenere congelati i beni russi fino a quando non ci sarà una risoluzione al conflitto», ha affermato il gruppo in un comunicato stampa.

Il G7, è un’organizzazione delle sette maggiori economie del mondo. Fanno parte del gruppo Germania, Italia, Francia, Canada, Stati Uniti, Giappone e Regno Unito. Il gruppo ha stanziato 39 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina per il 2023, riferisce la BBC.

«Le nostre azioni con i partner del G7 dimostrano che affiancheremo l’Ucraina per tutto il tempo necessario», ha dichiarato Janet Yellen, segretario al tesoro degli Stati Uniti.

Conflitto israelo-palestinese: escalation militare dopo il raid a Nablus

L’attacco dell’esercito israeliano nella città cisgiordana di Nablus ha provocato la morte di 11 palestinesi e oltre 100 persone sono rimaste ferite, come riporta The Jerusalem Post. Ghassan Doughlas, direttore dell’ospedale Rafidia di Nablus, ha dichiarato che quattro persone sono in terapia intensiva «ma la loro situazione sta migliorando».

Centinaia i palestinesi che hanno partecipato ai funerali delle 11 persone uccise dalle forze israeliane durante il raid, una delle operazioni israeliane con più caduti nella Cisgiordania dalla seconda Intifada o dalla rivolta palestinese del 2000-2005, come riporta Al Jazeera.

Hamas e altre fazioni palestinesi hanno minacciato una risposta e giovedì mattina 23 febbraio sei razzi sono stati lanciati verso il sud di Israele, facendo scattare le sirene antimissile ad Ashkelon e nella zona di Sderot. L’esercito israeliano ha dichiarato che il suo sistema di difesa aerea ha intercettato cinque dei razzi lanciati, mentre un sesto è caduto in una zona disabitata.

In risposta alla rappresaglia palestinese, le IDF hanno colpito una fabbrica di armi di Hamas e un sito militare a nord-ovest di Gaza. Il bombardamento ha provocato danni al sito e all’area circostante.

Nel frattempo nei territori occupati è in corso una protesta contro l’incursione israeliana a Nablus. Negozi, scuole e banche sono rimasti chiusi dopo che lo scorso mercoledì i partiti politici palestinesi hanno annunciato uno sciopero generale nelle città di Ramallah e Nablus. Le forze politiche hanno inoltre invitato i palestinesi a manifestare nei pressi dei posti di blocco dell’esercito israeliano.

«Condanniamo l’incursione dell’occupazione a Nablus e chiediamo la fine dei continui attacchi contro il nostro popolo», ha dichiarato Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

L’attenzione della comunità internazionale è elevata e sforzi di mediazione da parte dell’Egitto e delle Nazioni Unite sono in corso. L’inviato dell’ONU per il Medio Oriente Tor Wennesland è arrivato a Gaza per incontrare i leader di Hamas nel tentativo di stemperare le tensioni.

L’UE chiede una de-escalation e un uso “proporzionato” della forza, dicendosi «profondamente allarmata» per la spirale di violenza in Cisgiordania.

«È della massima importanza che tutte le parti si adoperino per ripristinare la calma e smorzare le tensioni, al fine di evitare ulteriori perdite di vite umane», ha dichiarato il servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) in un comunicato.

«L’UE deplora la morte di civili e ribadisce che l’uso della forza deve essere proporzionato, nel pieno rispetto del diritto umanitario internazionale, e deve avvenire solo come ultima risorsa, quando è assolutamente inevitabile per proteggere la vita».

Il ministero degli Esteri palestinese ha affermato che «le reazioni internazionali sono state timide e deboli, quasi equiparando la vittima al carnefice». Ha inoltre aggiunto che le azioni di Israele sono state «al livello di crimini di guerra e crimini contro l’umanità».

«Queste reazioni non sono coerenti con le posizioni degli Stati e della comunità internazionale per quanto riguarda la loro preoccupazione per il diritto internazionale, il diritto umanitario internazionale e i principi dei diritti umani, o la loro presunta preoccupazione per la soluzione dei due Stati e il processo di pace».

­­Conflitto israelo-palestinese: scontri mortali a Nablus

Le ostilità tra israeliani e palestinesi non sembrano destinate a placarsi. Nuovi scontri sono iniziati alle 10 del mattino, ora locale, di mercoledì 22 febbraio, dopo che l’esercito israeliano è entrato nel centro abitato di Nablus con veicoli blindati e forze speciali, come riporta Al Jazeera.

Le forze armate hanno bloccato tutte le entrate della città, prima di accerchiare un’abitazione che, secondo quanto riferito dalle autorità israeliane, ospitava personaggi sospetti. Tra questi Hossam Isleem, un combattente palestinese ricercato, la cui sorte non è ancora chiara.

Le persone coinvolte sarebbero membri di un gruppo che nell’ottobre scorso avrebbe ucciso il sergente maggiore delle IDF (Forze di Difesa Israeliane) Ido Baruch e che avrebbe condotto anche altre operazioni armate. Altri due membri della medesima organizzazione sono stati arrestati dalle IDF la scorsa settimana.

Ido Baruch, un soldato della Brigata Givati, è stato assassinato vicino all’insediamento di Shavei Shomron in Samaria.

Il raid organizzato dalle IDF ha provocato due morti e decine di feriti. Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che tra coloro che sono rimasti coinvolti nello scontro «due sono stati uccisi dai proiettili dell’occupante [israeliana] a Nablus». Inoltre quattro feriti sono stati ricoverati in ospedale in condizioni gravi. Nella zona sono state udite esplosioni e spari.

Hanno riportato lesioni anche civili che hanno affrontato l’esercito israeliano durante le incursioni e passanti non coinvolti, oltre a combattenti palestinesi.

Il gruppo armato Lions’ Den ha dichiarato in un comunicato di aver partecipato agli scontri con le forze israeliane durante l’incursione, insieme al gruppo delle Brigate Balata, il quale è stato recentemente annunciato.

L’esercito israeliano ha informato che «le forze di sicurezza stanno operando nella città di Nablus», ma non ha fornito ulteriori dettagli sull’operazione.

Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha condannato l’attacco dichiarando: «L’occupazione intensifica l’aggressione contro il nostro popolo prendendo d’assalto oggi la città di Nablus e assediando i cittadini».

Un messaggio di condanna è stato espresso anche dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas.

The Jersualem Post scrive che le moschee della città hanno trasmesso messaggi invitando i residenti a scontrarsi con le forze israeliane.

La magistratura cilena si esprimerà in quechua, mapudungún, rapanui e aymara

La magistratura cilena ha lanciato un’iniziativa nell’ambito della Commissione per il linguaggio chiaro, volta alla promozione di abbecedari che traducano i termini giuridici essenziali al fine di garantire l’accesso alla giustizia nella lingua di quattro dei dieci popoli indigeni riconosciuti dalla legge indigena del 1993: Mapudungún, Rapanui, Aymara e Quechua.

Secondo quanto riportato da El País, l’iniziativa è guidata dalla ministra e portavoce della Corte Suprema Ángela Vivanco, la quale è anche presidente della Commissione per il linguaggio chiaro e responsabile della Commissione giudiziaria per i gruppi e le persone vulnerabili e per l’accesso alla giustizia.

«Lo scopo di questa iniziativa è quello di mantenere l’idea del Cile come Paese unito, ma senza che questa unità ignori il fatto che ci siano diversi gruppi con culture, lingue e individualità differenti. In altre parole, il fatto che il Cile sia uno Stato unitario non significa che non esistano etnie e realtà diverse», afferma Vivanco.

«Purtroppo, queste comunità hanno vissuto periodi storici di grande difficoltà a causa della mancanza di diffusione della loro cultura e lingua. Questa situazione ha portato all’isolamento di tali gruppi, cui non viene riconosciuta la propria ricchezza allo stesso modo di altre realtà nazionali», aggiunge la ministra.

Dei quattro popoli indigeni presi in considerazione, due hanno la popolazione più numerosa. Secondo il censimento del 2017, il 12,8% delle persone intervistate si è identificato in un popolo indigeno. Di questi, il 79% si è dichiarato Mapuche, il 7% Aymara, l’1,55% Quechua e lo 0,43% Rapa Nui, oltre ad altri, riferisce inoltre il quotidiano spagnolo.

Gli abbecedari, che sono stati presentati il 21 febbraio, sono denominati Guía de acceso a la justicia para ciudadanas y ciudadanos de pueblos originarios (Guida all’accesso alla giustizia per i cittadini dei popoli indigeni). Con un linguaggio chiaro e privo di tecnicismi giuridici, la guida affronta tutti i temi, dal lavoro alla composizione della magistratura, dai tribunali a cui rivolgersi in materia di lavoro, civile, familiare e penale alle modalità di verifica digitale dello stato dei procedimenti giudiziari, tra gli altri punti, i diritti e doveri delle vittime e degli imputati.

«Nell’ottica più tradizionale, l’accesso alla giustizia è stato spesso considerato solo nella prospettiva che la legge permetta a tutti di poter agire in giudizio. Tuttavia, c’è un secondo aspetto che ha a che fare con la comprensione dei processi, perché non posso accedere alla giustizia concretamente senza capire cosa devo fare, per cosa devo farlo e quali saranno i possibili esiti», sottolinea Vivanco.

«L’uso di un linguaggio chiaro non implica solo che la terminologia sia usata correttamente, ma anche che i giudici siano in grado di decodificarla per i cittadini comuni. Nel caso di persone appartenenti a popolazioni indigene, utilizzare la loro lingua per chiarire questi concetti è un modo per semplificarne la comprensione», prosegue.

Ad ogni modo, questa è solo una prima fase dell’iniziativa lanciata dalla ministra Ángela Vivanco, la quale ha intenzione di portarla avanti in futuro.

Il simbolismo della famiglia reale inglese

La monarchia britannica ha sempre dimostrato di essere particolarmente legata al simbolismo. La regina Elisabetta II, ad esempio, utilizzava il proprio guardaroba sia come mezzo alternativo di soft diplomacy, sia come strumento d’identità. Di conseguenza, quando Buckingham Palace ha rivelato il nuovo emblema reale che entrerà in circolazione dopo la cerimonia d’incoronazione di Carlo III – prevista per il 6 maggio 2023 nell’abbazia di Westminster – non è stata una sorpresa la presenza di un velato simbolismo nel suo design.

Il nuovo emblema sancirà ufficialmente il ruolo di Carlo III e verrà utilizzato sul merchandising reale ufficiale, per tutte le comunicazioni relative all’incoronazione e in occasione di eventi chiave, quali festività nazionali o celebrazioni di piazza. Il logo è costituito da diversi motivi floreali che rappresentano rispettivamente i fiori caratteristici delle quattro nazioni che compongono il Regno Unito: la rosa inglese, il cardo scozzese, il narciso gallese e il trifoglio dell’Irlanda del Nord. I fiori, combinati tra loro, danno forma alla corona di Sant’Edoardo, con cui verrà incoronato il nuovo re. I colori rosso, bianco e blu, inoltre, sono un chiaro riferimento alla Union Jack. Secondo la CNN, Jonathan Ive, il creatore del logo, conferma che l’emblema è «ispirato dall’amore di re Carlo per il pianeta e la natura nonché dal suo profondo interesse per il mondo naturale» e che «parla dell’ottimismo primaverile e celebra questa nuova era per il Regno Unito».

Un altro evidente esempio dell’utilizzo del simbolismo da parte della famiglia reale è rappresentato dal fatto che la nuova regina consorte Camilla, sarà incoronata con la corona della regina Maria di Teck e, per omaggiare la defunta Elisabetta II, su di essa saranno incastonati i diamanti Cullinan III, IV e V, che facevano parte della collezione di gioielli personali della monarca. Non ci sarà, invece, il diamante Koh-i-Noor, oggetto, negli ultimi tempi, di una spinosa controversia politica e legale con l’India, il Paese in cui venne trovata la gemma nel XIV secolo. A seguito del trasferimento in Gran Bretagna, come regalo per la regina Vittoria, il diamante è ancora oggi considerato dall’India un “furto coloniale”. Buckingham Palace ha dichiarato, inoltre, che la scelta di riutilizzare una corona già esistente piuttosto che commissionarne una nuova, è stata fatta da Camilla «nell’interesse della sostenibilità e dell’efficienza».

Il freddo delle Ande peruviane miete ogni anno migliaia di vittime

In Perù, migliaia di persone perdono la vita ogni anno a causa del freddo intenso. Ancora nel 2023, circa 600.000 peruviani che vivono in zone a oltre 3.500 metri di altitudine lottano ogni inverno per sopravvivere al freddo gelido dell’altipiano in condizioni precarie.

Secondo quanto riportato dai dati del Ministero della Salute peruviano, solo nel 2019 sono stati registrati 389 decessi nelle zone alto andine delle province di Arequipa, Cusco e Puno a causa di malattie polmonari dovute alle gelide temperature. La maggior parte delle morti hanno riguardato la fascia giovanile sotto i cinque anni e gli anziani.

La distanza tra le grandi città del Perù e gli altri centri abitati, la dispersione di queste comunità (dove tendenzialmente non vivono più di 50 o 60 famiglie) e gli alti costi per portare materiali e specialisti in queste aree isolate hanno finora ostacolato il successo dei progetti del governo per la costruzione di abitazioni bioclimatizzate o per l’adattamento di quelle già esistenti ai freddi invernali.

Nonostante gli effetti devastanti del gelo siano noti ormai da tempo, secondo quanto riferisce El País, solo nel 2012 è stato avviato il Piano Multisettoriale contro il gelo (PMHFPlan Multisectorial ante Heladas y Friaje), con lo scopo di coordinare tutti i ministeri per mitigare il fenomeno in modo più rapido ed efficace.

Un anno dopo è stato ideato Sumaq Wasi (casa bonita, in quechua), un progetto del Ministero dell’Edilizia, delle Costruzioni e dei Servizi igienico-sanitari, che ha fornito circa 20.000 nuove case bioclimatizzate nelle aree più colpite delle Ande.

Quattro anni dopo, alla fine del 2017, è stato realizzato Mi Abrigo, un nuovo progetto del Ministero dello Sviluppo e dell’Inclusione Sociale volto al riadattamento delle abitazioni esistenti, mediante l’introduzione di ulteriori tecnologie di cattura del calore.

Secondo Jaime Núñez y Álvarez, capo dell’Unità di gestione dei progetti infrastrutturali di Foncodes, l’ente responsabile del progetto, sebbene il piano multisettoriale abbia contribuito ad affrontare il problema, i risultati sono ancora insufficienti. «In Perù sono necessarie 180.000 nuove unità abitative familiari, poiché vi è una grande quantità di alloggi ad alto rischio di crollo in caso di terremoto o con una scarsa protezione contro il freddo», ha affermato.

Dopo un decennio di tentativi ed errori, a metà 2022, il governo ha approvato un nuovo piano che mira a colmare ogni divario esistente riguardo ad abitazioni, scuole, capannoni e terreni coltivati per le aree più colpite. Il progetto prevede 31 interventi da parte di 10 ministeri, con un budget di 123 milioni di dollari destinati alle popolazioni maggiormente esposte al gelo.

Nell’ambito di questa nuova e ambiziosa strategia, il Ministero delle Infrastrutture ha annunciato di voler costruire 25.000 nuove case bioclimatizzate in un anno, ad un ritmo di 68 abitazioni al giorno.

Tuttavia, sia il Ministero che il Gruppo di sostegno al settore rurale della PUCP (Pontificia Università Cattolica del Perù), che si occupa della progettazione e della tecnologia termica, hanno confermato che il progetto è ancora in fase di sperimentazione.

Le riforme giudiziarie in Israele: polemiche

Il governo di coalizione di destra del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha avanzato l’ipotesi di riforme del sistema giudiziario al fine di ridurre i poteri della Corte Suprema. Il progetto ha provocato la reazione di molti israeliani, che si sono riuniti in manifestazioni anche all’esterno del parlamento del Paese, come riportato da Al Jazeera.

In una dichiarazione si è detto preoccupato anche il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Il 20 febbraio, il governo è chiamato a votare la revisione del sistema legale israeliano. La prima parte dell’emendamento prevede la limitazione dei poteri della Corte Suprema di decidere contro il legislatore e l’esecutivo. Questa modifica darebbe alla Knesset (Parlamento israeliano) il potere di annullare le decisioni della Corte Suprema con una semplice maggioranza di 61 voti sui 120 seggi della Knesset.

Le riforme modificherebbero anche le modalità di selezione dei giudici della Corte Suprema, dando ai politici poteri decisivi nella nomina dei giudici. La commissione indipendente per la selezione dei giudici attualmente richiede che i politici e i giudici che ne fanno parte si accordino sulle nomine. La proposta attuale, cambiando questa situazione, darebbe al governo molto più potere.

Al tempo stesso i partiti ebraici ultraortodossi della coalizione auspicano l’approvazione di una legge che esenti la loro comunità dal servizio di leva. Il timore è che questa norma possa essere bocciata nel caso in cui la Corte Suprema mantenga i suoi attuali poteri.

I rischi del piano sono l’evidente indebolimento della Corte Suprema e l’attribuzione alla Knesset di un controllo effettivo sulle nomine giudiziarie.

Inoltre il timore dell’opinione pubblica è che Netanyahu abbia l’intenzione di sfruttare la situazione attuale per congelare il processo a suo carico. Accusa che il primo ministro ha negato.

Le critiche sono numerose. Secondo gli oppositori, la proposta spingerebbe Israele verso un sistema simile a quello ungherese e polacco, in cui il leader esercita il controllo su tutte le principali leve del potere.

L’opposizione sostiene anche che gli alleati nazionalisti di Netanyahu portino avanti questo progetto per aumentare gli insediamenti sui territori contesi con i palestinesi. Quasi 600.000-750.000 israeliani vivono oggi in insediamenti nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est, considerati illegali  dalle leggi internazionali.

La scorsa settimana, Israele ha inoltre approvato una nuova legge che renderà più facile per le autorità revocare la cittadinanza e la residenza dei palestinesi in Israele e a Gerusalemme Est.

Netanyahu ha portato avanti il programma nonostante il presidente israeliano Isaac Herzog abbia chiesto domenica scorsa di congelare la legislazione e di avviare un dialogo con gli avversari politici. I leader dell’opposizione hanno dichiarato che non si siederanno al tavolo delle trattative prima che la riforma sia bloccata. Il ministro della Giustizia Yariv Levin si è detto aperto alla discussione, ma non al blocco del progetto di legge.

Il Primo Ministro e i suoi sostenitori affermano che i cambiamenti sono necessari per limitare un sistema giudiziario che esercita troppo potere.

Bielorussia pronta a un’eventuale entrata in guerra

Giovedì 16 febbraio a Minsk il Presidente bielorusso Aleksandr Grigor’evič Lukašenko ha rilasciato un’intervista alla stampa estera, tra cui la BBC, dichiarando che la Bielorussia entrerà in guerra nel caso in cui anche un solo soldato ucraino entri nel Paese.

Inoltre, come riportato dalla TASS, oltre diecimila soldati russi saranno al fianco dell’esercito bielorusso in caso di aggressione; infatti, Lukašenko ha dichiarato di aver accordato con Vladimir Putin che, se la Bielorussia sarà attaccata, la gestione militare sarà sotto il controllo bielorusso.

La risposta di Volodymyr Zelensky è stata immediata. In un’intervista alla BBC, il presidente ucraino ha affermato che l’entrata in guerra della Bielorussia a fianco della Russia sarebbe un errore. Tuttavia, come riportato dalla TASS, la Russia non ha mai chiesto alla Bielorussia di iniziare una guerra contro l’Ucraina.

Zelensky, inoltre, nell’intervista alla BBC ha ricordato che un anno fa l’invasione russa partì anche dal territorio bielorusso, poiché i militari russi si mossero dal Sud della Bielorussia verso Kiev. Lukašenko, come ha affermato nell’intervista alla BBC, è pronto a concedere nuovamente il territorio bielorusso a Putin. Inoltre, il leader bielorusso ha aggiunto che se questa escalation continuerà, ci sarà una guerra nucleare e la Bielorussia scomparirà insieme agli Stati Uniti e nessuno ha bisogno di ciò.

Lukašenko ha, infatti, proposto una negoziazione di pace prima di un’eventuale intensificazione del conflitto: «Invito il Presidente Biden in Bielorussia. […] Cercherò di convincere il Presidente russo a venire. Lo invito a Minsk, proprio come Biden. Ci sederemo e troveremo un accordo». Probabilmente -spiega l’emittente britannica- Biden declinerà l’invito bielorusso poiché in questo conflitto Lukašenko non è visto come un mediatore onesto.

Terremoto in Siria: il presidente Assad ringrazia i «fratelli arabi» per gli aiuti forniti

Nel suo primo discorso pubblico dopo il terremoto della scorsa settimana, il presidente Bashar al-Assad ha ringraziato le altre nazioni arabe per gli aiuti e i soccorsi prestati dopo un lungo periodo di relazioni incrinate.

«In mezzo al nostro dolore e alla nostra tristezza non dovremmo omettere di ringraziare tutti i Paesi che sono stati al nostro fianco fin dalle prime ore del disastro, i nostri fratelli arabi e i nostri amici, la cui assistenza in natura e sul campo ha avuto il massimo impatto nel rafforzare le nostre capacità» ha dichiarato Assad.

Nonostante la situazione di isolamento in cui si trovava il presidente, in seguito al terremoto sono state numerose le visite di diplomatici arabi in Siria. Al-Assad ha incontrato il Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi, Abdullah bin Zayed.

I legami tra la Siria e gli Emirati Arabi Uniti sono stati ripristinati alla fine del 2018. Grazie a questa ritrovata sintonia circa la metà degli aerei carichi di aiuti umanitari atterrati in Siria proviene dal Paese arabo.

Anche l’Arabia Saudita ha inviato due aerei con aiuti da martedì, per la prima volta in più di un decennio, come riportato da Al Jazeera.

«L’entità del disastro e i compiti che tutti noi dovremmo affrontare sono molto più grandi delle capacità disponibili», ha dichiarato al-Assad. «Quello che dovremo affrontare per mesi e anni, in termini di sfide economiche, sociali e di servizi, non è meno importante di quello che abbiamo affrontato nei primi giorni».

Tuttavia, molti critici hanno sostenuto che al-Assad stesso, nel corso degli anni, ha usato gli aiuti e l’assistenza umanitaria per punire le parti del Paese controllate dai ribelli.

Anche dopo i terremoti della scorsa settimana, gli aiuti hanno tardato ad arrivare nel nord-ovest controllato dall’opposizione. Un primo convoglio umanitario delle Nazioni Unite ha attraversato il 9 febbraio scorso quello che allora era l’unico punto di confine autorizzato, Bab al-Hawa.

Tuttavia, il capo del gruppo di soccorso dell’opposizione siriana, i Caschi Bianchi, ha denunciato la decisione delle Nazioni Unite di chiedere l’autorizzazione ad al-Assad per i passaggi di frontiera, affermando che questo gli ha permesso di ottenere un «guadagno politico».

Gli Stati Uniti hanno anche esentato gli aiuti per il terremoto dalle dure sanzioni imposte al Paese per un periodo di sei mesi.

L’Armenia propone un progetto di pace all’Azerbaigian

L’Armenia ha presentato all’Azerbaigian un progetto per un trattato di pace per cercare una soluzione alla disputa oramai decennale sulla regione del Nagorno-Karabakh.

Il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan afferma che l’accordo prevede meccanismi di monitoraggio da entrambe le parti per prevenire violazioni dell’accordo di pace, inoltre la firma dell’Arzerbaigian porterebbe a una pace duratura, secondo quanto riportato da Al Jazeera. Alcune copie del progetto sono state inviate ai membri del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE): Russia, Stati Uniti e Francia.

La guerra del Nagorno-Karabakh è stato un conflitto armato che si è svolto tra il gennaio del 1992 e il maggio del 1994 nella piccola enclave del sud-ovest dell’Azerbaigian. Il conflitto vede la maggioranza etnica armena del Nagorno-Karabakh sostenuta dalla Repubblica Armena da una parte e l’Azerbaigian dall’altra.

Nel 1992 l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) ha istituito una struttura di lavoro chiamata Gruppo di Minsk allo scopo di trovare una soluzione pacifica e negoziata dopo la guerra del Nagorno-Karabakh.

Le trattative di pace per porre fine al conflitto etnico dopo la prima guerra nella regione non hanno portato a nessun risultato concreto per una fine delle ostilità.

Durante questi anni le tensioni tra le due popolazioni sono rimaste costanti senza adottare una soluzione utile per una risoluzione di pace.

Nel settembre 2020 le ostilità sono riprese quando le forze armate azere hanno attaccato simultaneamente l’intera linea di contatto dando avvio a una nuova guerra, conclusa quarantaquattro giorni dopo con un accordo-tregua mediato dalla Russia.

Il conflitto del 2020 ha ucciso più di 6.500 persone e si è conclusa con la perdita di alcuni territori controllati per quasi due decenni dall’Armenia.

I due paesi sono ancora tecnicamente in guerra e il governo dell’Azerbaigian minaccia di riconquistare il Nagorno-Karabakh con la forza militare.

Il nuovo progetto di pace proposto dall’Armenia sancisce un miglioramento delle relazioni con risultati concreti rispetto a quelli precedenti con la speranza di risolvere la situazione nel Caucaso.

Il Fondo Monetario Internazionale aiuta il Pakistan a uscire dalla crisi

Il governo pakistano ha presentato una legge finanziaria da 170 miliardi di rupie (equivalenti a 643 milioni di dollari) per cercare di aiutare il Paese a corto di liquidità e ottenere i fondi stanziati da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Il disegno di legge presentato dal ministro delle finanze Ishaq Dar, sarà discusso nei prossimi giorni al Senato e comporta l’aumento dell’imposta generale sulle vendite del 18% e gli aumenti del prezzo del carburante e del gas.

Le misure previste servono a soddisfare le condizioni stabilite per il rilascio di una tranche di prestito da 1,1 miliardi di dollari da parte del FMI.

A fine gennaio la visita dei dirigenti del FMI aveva già preannunciato un possibile accordo per un miglioramento della situazione economica del Pakistan.

Il popolo pakistano sta affrontando dei giorni difficili con l’inflazione che tocca il 27,5%, livello più alto negli ultimi cinquant’anni e le nuove misure erogate dal governo che potrebbero decretarne un ulteriore aumento.

Fitch Ratings, agenzia internazionale di rating fondata nel 1913, ha previsto un probabile aumento dell’inflazione al 33%, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Al programma di salvataggio il Pakistan aveva già aderito nel 2019 ma le condizioni politiche, economiche e sociali del Paese hanno creato un rallentamento negli accordi con il FMI.

Ad esempio, uno dei motivi di instabilità sociali e politiche sono le problematiche legate al mantenimento dell’ordine sociale minacciato dai disordini causati dai gruppi ribelli nella regione del Khyber Pakhtunkhwa.

Il Pakistan è entrato per la prima volta in un programma del FMI nel 1958, appena 11 anni dopo l’indipendenza, da quel momento è tornato al finanziatore altre 22 volte.

Il nuovo programma di salvataggio insieme alle nuove riforme, segna un momento di svolta per il superamento della crisi pakistana.

Sajid Amin Javed, un economista senior associato al Sustainable Development Policy Institute di Islamabad, ha affermato

che i negoziati con il FMI sono fondamentali per uscire dalla crisi ma non sufficienti, il governo deve comunque attuare le riforme di cui ha bisogno sia dal punto di vista economico ma anche politico per raggiungere una stabilità.

Secondo Amin un Paese si rivolge al FMI quando non ha altra scelta e nel frattempo deve trovare delle strategie in cui impiegare quei finanziamenti così da risolvere i propri problemi economici.

Bolivia: scoppia epidemia di dengue

La morte di tre neonati nello stesso giorno ha messo in evidenza la gravità dell’epidemia di dengue in Bolivia, in particolare nella città di Santa Cruz de la Sierra. Secondo gli esperti, sarebbe la peggiore degli ultimi dieci anni. I neonati, di appena qualche mese, sono morti sulla soglia degli ospedali, che non sono stati in grado di curarli per mancanza di spazio e risorse.

La malattia è trasmessa dalla puntura della zanzara Aedes aegypti, la quale depone le uova nell’acqua pulita. Per questo, ogni contenitore che contiene pioggia è un potenziale pericolo per la diffusione della malattia.

Tutti gli ospedali di Santa Cruz sono collassati: con quasi 5.000 casi confermati e circa 25.000 casi sospetti, risulta essere la città più colpita dall’epidemia. Sono stati inoltre segnalati casi anche in altre città del Paese con clima tropicale

«I bambini arrivano in ospedale sanguinanti e non ci sono abbastanza medici. Muoiono per vari motivi, perché arrivano in condizioni generali pessime, nonostante noi facciamo il possibile», ha dichiarato alla stampa Milkar Cáceres, responsabile del Pronto Soccorso dell’Ospedale pediatrico di Santa Cruz de la Sierra.

I bambini di età inferiore a 12 anni sono più soggetti a contrarre il dengue acuto o emorragico. Si presume che il sierotipo in circolazione sia il DENV-2. Anche le persone che già sono state infettate, pur con un sierotipo diverso, possono sviluppare la forma più acuta della malattia. Oltre ai tre bambini morti lunedì scorso 13 febbraio, altri undici decessi sono stati registrati ufficialmente dall’inizio di quest’anno, quando è scoppiata l’epidemia.

La storia di uno dei neonati deceduti, che aveva meno di due mesi, ha sconvolto l’intero Paese. La madre, Mary Inés Cortez, ignara dell’epidemia, si era trasferita con tutta la famiglia da un paese a 800 chilometri da Santa Cruz de la Sierra, alla ricerca di un parto più sicuro e di un’adeguata assistenza postnatale, come riportato da El País.

«Sabato ha iniziato ad avere la febbre e domenica l’ho portata al centro sanitario dove è stata curata, ma non l’hanno poi trasferita in un ospedale di secondo livello, in quanto, stando al parere dei medici, i farmaci che le hanno dato avrebbero dovuto farle passare la febbre.» Dato che questo non è successo, il lunedì seguente, Mary Inés l’ha riportata in ospedale. «Si sono subito occupati di lei rianimandola due volte per poterla trasferire all’ospedale di Los Pocitos, dove però è arrivata priva di segni di vita. Era morta nel corso del tragitto. Sono venuta in cerca di cure migliori e invece la riporterò indietro in una bara», ha raccontato la madre ai media locali.

Lo scorso fine settimana, le autorità municipali di Santa Cruz e del governo centrale hanno chiesto una tregua nelle loro dispute politiche e hanno realizzato una minga – nome locale per il lavoro volontario collettivo – per distruggere quasi un milione di siti di riproduzione delle zanzare. Ciononostante, la popolazione di Santa Cruz chiede al governo di Luis Arce che sia dichiarata l’emergenza sanitaria, cosa che però non è ancora avvenuta.

Texas: sparatoria in un centro commerciale a El Paso

Una sparatoria è avvenuta la sera di mercoledì 15 febbraio al Cielo Vista Mall, centro commerciale a El Paso, Texas. Una persona è morta e altre tre sono rimaste ferite. Le autorità hanno due sospettati in custodia, uno di loro è stato arrestato sul luogo da un agente fuori servizio.

Il Capo della polizia locale, Peter Pacillas, ha riferito che entrambi i sospettati in custodia sono maschi. «Un agente di polizia fuori servizio che stava lavorando alla sicurezza in uno dei negozi del centro commerciale è stato in grado di mobilitarsi entro tre minuti e arrestare uno dei due presunti colpevoli» ha aggiunto Pacillas. Non è stato specificato invece come il secondo sospettato sia stato arrestato e quando. Il movente della sparatoria non è ancora chiaro.

Pacillas ha inoltre dichiarato che tutte le vittime della sparatoria sono uomini. Due dei feriti sono stati prontamente portati al centro medico universitario di El Paso in condizioni gravi, mentre non si hanno informazioni sulla terza persona rimasta coinvolta, riferisce la CNN.

Il video di sorveglianza di un bar all’interno del Cielo Vista Mall ha registrato più di una dozzina di persone che correvano dopo aver udito il suono degli spari e, successivamente, i paramedici che si spostavano con una barella. «Il centro commerciale era in subbuglio, la gente fuggiva. Erano tutti spaventati» testimonia il Sergente di polizia Roberto Gomez.

Il centro commerciale si trova accanto a un Walmart dove in una sparatoria nel 2019 hanno perso la vita 23 persone. Una settimana fa l’uomo armato di quell’attacco, Patrick Crusius, si è dichiarato colpevole di 90 accuse federali, tra cui tra cui crimini d’odio e reati legati alle armi da fuoco, riporta la BBC.

I membri della comunità di El Paso, anche coloro che non erano presenti durante la sparatoria di mercoledì, affermano che l’evento ha riaperto vecchie ferite.

«Abbiamo rivissuto le stesse sensazioni del giorno della sparatoria a Walmart. Tutto ritorna e ci stiamo solo domandando, e ora? Quante persone si dovranno ancora fare male?» dichiara Albert Hernandez, parente di due delle vittime della sparatoria del 2019.

Relazioni Cina-UE: Wang Yi in viaggio verso l’Europa

Il diplomatico cinese Wang Yi, direttore dell’Ufficio della Commissione Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC), il 14 febbraio ha iniziato un viaggio diplomatico in Europa che si concluderà il 22 febbraio.

Su invito dei rispettivi governi, Wang Yi farà tappa in questi giorni in Francia, Italia, Ungheria e Russia, prendendo poi parte alla 59ma edizione della Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Gli incontri di questi giorni con i quattro paesi europei serviranno a comunicare la visione di sicurezza globale, cooperativa e sostenibile sostenuta dal presidente Xi Jinping e di affrontare le questioni internazionali presenti in questo momento storico.

La visita si colloca nell’ambito del 20mo anniversario delle relazioni tra Cina e Ue e punta a rafforzare le relazioni bilaterali con i paesi membri in cui l’alto diplomatico si recherà.

La visita di Wang Yi in Italia verterà sulle decisioni da prendere rispetto alla via della Seta, una cooperazione iniziata nel 2019 con la firma del memorandum d’intesa sotto il governo Conte. L’incontro potrebbe essere decisivo per un abbandono della collaborazione da parte dell’Italia, possibilità sostenuta più volte dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In caso contrario il memorandum si rinnoverà automaticamente nel 2024.

Rispetto alla visita in Russia, Pechino continua ad avere una posizione di non-condanna nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina.

Wang Wenbin, vicedirettore del Dipartimento dell’informazione del Ministero degli esteri cinese, ha affermato che la Cina lavorerà con la Russia per portare avanti lo sviluppo dei legami bilaterali per una pace mondiale, secondo quanto riportato da global Times.

La partecipazione della Cina alla Conferenza di Monaco è importante per dare modo anche agli altri paesi, anche non europei, di comprendere la politica della Cina in tema di sicurezza globale.

La Conferenza sulla sicurezza di Monaco di quest’anno è inoltre di particolare importanza, poiché è quasi passato un anno dall’inizio del conflitto Russia-Ucraina e continuano ad aumentare le tensioni tra Cina e Stati Uniti nello Stretto di Taiwan

La conferenza potrebbe essere un’occasione per discutere dello sviluppo delle relazioni Cina-USA prendendo in considerazione anche gli ultimi avvenimenti.

Infatti, le relazioni tra Pechino e Washington sono particolarmente tese a causa della vicenda dei due palloni-spia ritrovati sul cielo statunitense, episodio che ha comportato l’annullamento della visita del segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, a Pechino.

La conferenza di Monaco vedrà la partecipazione del vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, ma ancora non è ancora noto se ci sarà una possibile interazione bilaterale con Wang Yi durante l’evento.

Tunisia: ondata di arresti di oppositori  

In Tunisia negli ultimi giorni sono stati numerosi gli arresti di personaggi politici che hanno espresso idee in contrasto alla linea politica del presidente Saied.

«La polizia ha preso d’assalto la casa di Noureddine Bhiri, ha aggredito sua moglie e lo ha arrestato», ha dichiarato Samir Dilou, avvocato di Bhri, all’agenzia di stampa Reuters. L’uomo, membro del principale partito di opposizione Ennahdha, ha più volte espresso idee contrarie rispetto a quelle del presidente.

Inoltre lo scorso anno Bhiri aveva già subito un periodo di incarcerazione di due mesi. L’accusa in questo caso era di aver favorito il trasferimento di combattenti armati in Siria in occasione di uno dei numerosi attacchi organizzato dall’ISIS.

Ennahdha ha osservato che «l’espansione dell’autorità golpista nel perseguire personalità dell’opposizione, giornalisti, uomini d’affari e sindacalisti è prova di confusione e incapacità di affrontare le crisi».

Una sorte simile a quella dell’esponente di Ennahdha è stata subita dal direttore di Mosaique FM, Noureddine Boutar, il quale aveva mandato in onda delle osservazioni critiche a Saied.

Nella lista di coloro che attualmente si trovano in carcere per aver usato parole di dissenso si legge anche il nome di Lazhar Akremi, avvocato ed attivista politico. Insieme a lui, un importante uomo d’affari particolarmente presente nel contesto politico, un ex ministro delle Finanze, un altro ex alto funzionario di Ennahdha, due giudici e un ex diplomatico. Secondo gli avvocati, questi arresti sono stati motivati dall’accusa di aver attentato alla sicurezza dello stato.

Ad oggi non si ha una risposta pubblica da parte delle principali autorità governative o delle forze dell’ordine.

Una rappresentate della New York University di Abu Dhabi, Monica Marks, ha informato Al Jazeera del numero approssimativo di coloro che sono stati «rapiti dalle loro case». La docente ha poi sottolineato come le accuse mosse non siano state notificate. Si evidenzia quindi che la procedura messa in atto si colloca fuori della legalità dello stato di diritto.

«Saied sta cercando di difendere questi arresti e rapimenti dicendo che fanno parte di una repressione della corruzione», ha aggiunto Marks. «Ma le persone arrestate sono in realtà critici di Saied o persone pacifiche a favore della democrazia che non hanno nulla a che fare con la corruzione o le attività criminali».

Le critiche in questione risalgono in realtà al luglio del 2021, quando Saied è stato accusato dagli oppositori di aver realizzato un colpo di stato. La sua mossa di sciogliere il parlamento e di deporre il governo avrebbe determinato la distruzione della forma di democrazia emersa in seguito alle rivoluzioni della Primavera Araba del 2011.

Saied ha negato di aver effettuato un colpo di stato, affermando che le sue azioni erano non solo legali, ma anche necessarie per salvare la Tunisia dal caos. Per tentare di arginare l’ondata di dissenso, la televisione di stato ha smesso di trasmettere le interviste di coloro non a favore delle scelte presidenziali.

La retribuzione minima dei paesi dell’Unione europea nel 2023 tra aumenti e inflazione

0

Per garantire retribuzioni minime “adeguate”, lo scorso anno il Parlamento europeo ha approvato una legge che stabilisce i requisiti minimi per gli Stati membri, attraverso la legislazione nazionale o i contratti collettivi. Secondo quanto riporta RTVE, gli ultimi dati Eurostat, che si riferiscono a una retribuzione minima mensile in 12 pagamenti e non in 14, hanno registrato una minima di 398,81 euro in Bulgaria e una massima di 2.387,4 euro in Lussemburgo. Ai primi cinque posti, in ordine crescente, si collocano Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Germania e Lussemburgo, con importi che superano i 1.900 euro. Seguono Cipro, che ha da poco introdotto un salario minimo di 940 euro, e il Portogallo, con 886,67 euro. Gli ultimi posti, infine, sono occupati da Ungheria, con 578,74 euro e Bulgaria. Dei 27 paesi dell’Unione europea, inoltre, solo 22 compaiono nella tabella dell’Eurostat, poiché Danimarca, Italia, Austria, Finlandia e Svezia determinano la retribuzione minima attraverso la contrattazione salariale collettiva.

A seguito del peggioramento delle prospettive economiche causate dalla guerra in Ucraina, la maggior parte degli Stati membri ha attuato aumenti delle retribuzioni minime per l’anno 2023, fatta eccezione per la Grecia, il cui governo sta ancora valutando un potenziamento tra l’8% e il 10%. Tra tutti, risalta l’aumento della Lettonia, pari al 24%, seguito da quello della Romania, con il 17,57%, della Polonia, con il 16,18% e di Lituania, Ungheria e Germania, il cui incremento si aggira intorno al 15%. Secondo i dati ufficiali dell’Eurostat, inoltre, la Romania ha registrato il più alto tasso di crescita medio annuo nell’ultimo decennio, con un importo minimo quasi quadruplicato, che va da 158 euro nel gennaio 2013 a 606 euro nel 2023. La Lituania, invece, che rappresenta il secondo caso di aumento più evidente, ha registrato un incremento di 550 euro (da 290 euro a 840 euro), mentre in Bulgaria, nonostante l’ultima posizione, l’importo minimo mensile è raddoppiato nell’ultimo decennio.

Nonostante gli evidenti miglioramenti, però, stando ai dati raccolti dall’Eurostat, nel 2023 solo in cinque paesi l’aumento della retribuzione minima è risultato essere maggiore rispetto all’incremento dell’inflazione alla fine dello scorso anno. Di nuovo, Lettonia, Romania e Polonia si posizionano ai primi posti. Tra i paesi che hanno subito la maggior perdita di potere d’acquisto nell’ultimo anno, invece, si collocano l’Estonia, il cui indice di retribuzione minima aumentato del 10,86% non è riuscito comunque a compensare l’inflazione del 19,38% e il Lussemburgo, con una differenza pari a cinque punti percentuali.

Haiti: lotta per la sopravvivenza per il Paese caraibico

Nel mezzo di una delle peggiori crisi sociopolitiche della storia di Haiti, con il dilagare della violenza armata, si stima che almeno 2,6 milioni di bambini e adolescenti – un bambino su due – avranno bisogno di assistenza umanitaria d’emergenza entro il 2023, ha avvisato l’UNICEF a fine gennaio.

Negli ultimi due anni, questa cifra è aumentata di mezzo milione, poiché il crescente potere delle bande criminali e la riacutizzazione del colera, insieme alla precarietà alimentare e all’impennata dell’inflazione, hanno limitato l’accesso ai servizi igienico-sanitari, alimentari e idrici, così come all’istruzione, per milioni di persone.

«Questo è uno dei momenti più difficili che un bambino possa vivere ad Haiti dal terremoto del 2010, e la situazione peggiora di giorno in giorno», ha dichiarato Bruno Maes, rappresentante dell’UNICEF nel Paese caraibico.

Secondo quanto riportato da El País, questo è decisamente uno dei momenti peggiori degli ultimi 12 anni. Tutti gli indicatori mostrano una maggiore vulnerabilità dei bambini. Un bambino su cinque soffre di malnutrizione e uno su 20 è già a rischio di morte per lo stesso motivo a Cité Soleil, un quartiere della capitale Port-au-Prince, che è diventato uno dei peggiori scenari di violenza armata ad Haiti. Inoltre, un caso su tre di colera colpisce i bambini di età inferiore ai 10 anni.  

Nei primi quattro mesi dell’anno accademico (ottobre-febbraio), sarebbero state attaccate 72 scuole, rispetto alle otto dello stesso periodo dello scorso anno. A Port-au-Prince, circa 1,2 milioni di bambini son minacciati dalla violenza, riferisce inoltre il quotidiano spagnolo.

Decine di bande criminali controllano gran parte della capitale e della sua area metropolitana, dove vivono tre milioni di persone, un quarto della popolazione del Paese. La polizia, con circa 10.000 agenti, non è in grado di gestirli.

Lo scorso dicembre, le Nazioni Unite hanno stimato che il 60% del territorio di Port-au-Prince è sotto il potere delle bande criminali del territorio. Ciò implica uno stato di guerra de facto che pregiudica la quotidianità della popolazione.

La situazione sanitaria, inoltre, non accenna a migliorare. Nonostante gli scioperi, da mesi mancano ormai le condizioni minime per continuare a lavorare, mancano risorse mediche e una paga adeguata. Haiti sta lottando per sopravvivere. Medici, difensori dei diritti umani e responsabili di organizzazioni internazionali intervistati in questi giorni in città, così come le vittime della violenza e delle carenze dello Stato, dicono di non ricordare una situazione come quella degli ultimi sei mesi, nemmeno dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021. «La situazione sta peggiorando sempre di più», spiega Benoit Vasseur, capo missione di Medici Senza Frontiere, che gestisce una delle più grandi reti di cliniche e ospedali di Port-au-Prince. «Tutte le istituzioni sono al collasso. Il sistema educativo, il sistema giudiziario… È un Paese che sta morendo».

Gruppo Wagner: l’avanzata a Bakhmut

Nella mattina del 12 febbraio 2023 Evgenij Prigožin ossia il fondatore del gruppo Wagner, compagnia militare privata russa, ha comunicato via Telegram di aver preso la cittadina di Krasna Hora (situata a Nord della città ucraina di Bakhmut, nella regione del Donbass). Come è stato affermato dal Guardian, un gruppo di esperti americani dell”Institute for the Study of War” ha notato dei movimenti delle forze russe vicino alla cittadina ucraina.

Il gruppo Wagner ha agito precedentemente in Siria e in molti paesi africani; è composto principalmente da ex detenuti delle carceri russe ai quali, secondo il Guardian, Prigožin ha promesso la libertà e un compenso monetario al loro ritorno in Russia. Prigožin in passato è stato in carcere a causa delle numerose rapine da lui svolte, per cui sa come parlare ai detenuti. Il Guardian riporta le dichiarazioni rilasciate in un’intervista di un detenuto delle carceri che Prigožin ha visitato: «Lui è uno di noi. Credo che molte persone si siano affiliate al gruppo perché si fidano di Prigožin. Non credono allo Stato, piuttosto a lui e alle sue promesse di libertà».

La TASS ha riportato le parole di Denis Pušilin, il capo provvisorio della Repubblica Popolare di Donetsk, che ha comunicato che l’avanzamento russo sta continuando verso la periferia della città; ciononostante, non vi è stato alcun comunicato ufficiale da parte del Ministero della Difesa russo.

Bakhmut, infatti, è un territorio conteso da mesi e come riporta il New York Times gli ucraini vogliono resistere, ma tengono in considerazione anche una possibile ritirata. In aggiunta, la BBC ha comunicato che alcuni cittadini sono favorevoli all’arrivo dei russi; circa 5.000 civili sono rimasti a Bakhmut dei 70mila abitanti che vi risiedevano fino ad un anno fa, adesso la città è rimasta senza acqua ed elettricità, un territorio diventato testimone dei peggior combattimenti avvenuti fino ad ora in Ucraina.

Per la Federazione Russa, secondo il New York Times, Bakhmut sarebbe il coronamento della conquista della parte orientale ucraina, cioè il Donbass: territorio ricco di giacimenti minerari, in cui si parla sia ucraino che russo. È una zona contesa sin dal 2014, per cui si sono perse innumerevoli vite in una guerra prima invisibile, andata intensificandosi ed ora sotto gli occhi del mondo.

Nuova Zelanda: il ciclone Gabrielle si dirige verso Aukland

La Nuova Zelanda è alle prese con il ciclone tropicale più violento dagli anni ‘90, riferisce la CNN. Il ciclone tropicale Gabrielle si sta dirigendo verso l’Isola del Nord solo due settimane dopo che l’area è stata colpita da inondazioni.

Lunedì 13 febbraio circa 58.000 case sono rimaste senza elettricità nella parte settentrionale dell’Isola del Nord della Nuova Zelanda, molte scuole e strutture del governo nella parte hanno chiuso, centinaia i voli cancellati. Ad Auckland, la città più grande del Paese, e in altre nove regioni è in vigore lo stato di emergenza.

Ad Auckland le autorità hanno evacuato cinquanta abitazioni vicine a un edificio alto 30 metri che rischiava di crollare, hanno riferito i media locali. I servizi di emergenza hanno anche segnalato persone intrappolate dall’innalzamento delle acque, tra cui una famiglia bloccata su un’autostrada allagata. Le autorità affermano di aver ricevuto più di cento richieste di aiuto da domenica, dichiara la BBC.

«Gli effetti di Gabrielle sono ancora nelle fasi iniziali, sono previste condizioni meteorologiche peggiori per Auckland fino a martedì mattina», ha dichiarato Rachel Kelleher, General Manager of Environmental Services di Auckland.

L’agenzia meteorologica Metservice ha dichiarato che a Whangarei, città a nord di Auckland, sono caduti 100,5mm di pioggia nelle ultime dodici ore, mentre al largo della costa di Auckland sono stati registrati venti a 159km/h.

Gabrielle è il secondo evento meteorologico significativo che ha colpito Auckland e la parte superiore dell’Isola del Nord in poche settimane. Il mese scorso Auckland e le aree circostanti sono state colpite da forti precipitazioni, sono caduti infatti oltre 240mm di pioggia, causando inondazioni e ucciso quattro persone.

Twitter: sempre più inserzionisti fanno marcia indietro

0

Sono 625 dei 1000 inserzionisti, tra cui Coca-Cola, Wells Fargo e Jeep, ad aver fatto marcia indietro e ritirato le loro pubblicità da Twitter da quando la società è stata acquisita da Elon Musk. Lo rileva uno studio pubblicato il 10 Febbraio dalla CNN dopo aver consultato i dati della agenzia di marketing Pathmatics.

Wells Fargo, multinazionale statunitense di servizi finanziari, ha dichiarato di aver interrotto le pubblicità sul famoso social, lasciando tuttavia l’account Twitter attivo per restare in contatto con i consumatori e clienti. Gli altri brand non hanno invece fatto commenti a riguardo.

I dati raccolti dimostrano come ci sia stato un drastico declino di quello che un tempo era un business di oltre 4,5 bilioni di dollari in advertising. Dopo l’acquisizione di Musk, gli inserzionisti hanno iniziato a temere le sorti di Twitter, che soprattutto nei primi mesi dall’acquisizione ha vissuto un periodo di forte instabilità.

Dopo essersi inizialmente scontrato con gli inserzionisti, Musk sembra ora cercare di convincerli a tornare sulla piattaforma. Ad esempio, Twitter ha proposto un “super sconto” in vista del Super Bowl nel tentativo di riconquistarli in un dei giorni di maggiore audience sul social.

Anche tra i migliori inserzionisti rimasti, molti hanno ridotto drasticamente la spesa pubblicitaria sulla piattaforma, secondo i dati di Pathmatics. Ad esempio, HBO, emittente televisiva statunitense a pagamento, ha ridotto di oltre la metà le spese pubblicitarie.

Un piccolo numero dei principali inserzionisti, invece, ha speso di più sulla piattaforma a gennaio rispetto al mese precedente l’acquisizione di Musk, tra cui Apple, con cui il CEO di Twitter ha litigato pubblicamente dopo le minacce del colosso tecnologico di nascondere il social dall’App Store.

Lo stesso Musk, in un tweet pubblicato a inizio Febbraio, ha dichiarato che i mesi scorsi, così come l’inizio del 2023, sono stati difficili, ma è certo ci sarà di un miglioramento.

Iran: l’anniversario della rivoluzione tra tensioni interne e attacchi all’Occidente

Le celebrazioni in ricordo dell’evento fondativo della Repubblica islamica sono state segnate dalle due parole del presidente Raisi. «Dico ai nemici: volete sentire la parola del popolo? Questo è il grande popolo dell’Iran», ha esordito il presidente Raisi, seguito da canti di «morte all’America» e «morte a Israele» da parte della folla, come riporta Al Jazeera.

Il presidente ha manifestato la propria sfiducia rispetto ai Paesi in disaccordo con la risposta dell’establishment iraniano alle proteste. Le tensioni sono iniziate nel mese di settembre dello scorso anno in seguito all’uccisione della 22enne Mahsa Amini. La morte della giovane, avvenuta sotto la custodia della Polizia Morale, ha funto da catalizzatore per il crescente dissenso popolare.

Riguardo alle rivendicazioni centrali delle rivolte Raisi ha affermato che la posizione dell’Iran è migliore rispetto a quella di Paesi come gli Stati Uniti, ai quali si rivolge direttamente dicendo «voi usate le donne come strumenti e le avete trasformate in merci», mentre «propagate la forma più vile di oscenità, cioè l’omosessualità».

L’atteggiamento dichiaratamente ostile della presidenza iraniana tocca anche altre questioni. Raisi infatti ritiene che i nemici del Paese non essendo stati in grado di fermare il suo progresso, si sono rivolti al «progetto del caos» – tattica messa in atto, a suo avviso, anche in Iraq e Afghanistan. Gli stessi responsabili avrebbero organizzato disordini anche durante le celebrazioni in corso.

Un’altra questione spinosa è quella del terrorismo dell’ISIS, il quale secondo il presidente sarebbe stato sostenuto e armato dall’Occidente, mentre l’Iran si sarebbe impegnato nel contrastarlo. Non manca infine il richiamo alla questione nucleare, quale fondamentale terreno di negoziazione. Raisi ribadisce che il suo Paese non dovrebbe essere denunciato per la detenzione di armi non convenzionali, a differenza dei suoi avversari.

Le solenni dichiarazioni alla folla in Piazza Azadi (libertà) sono state accompagnate da manifestazioni e cortei in numerose città iraniane, il cui significato è stato rafforzato dalla partecipazione di personalità politiche e militari di alto rango. La capitale è stata invece il teatro di esibizioni militari e mostre dei numerosi tipi di missili balistici in dotazione alla macchina bellica iraniana, insieme a veicoli blindati e droni.

L’opposizione, tuttavia, non ha mancato l’occasione per dar voce alla sua protesta. Durante il discorso di Raisi, il sito web di streaming della televisione di Stato è stato disturbato da un video in cui una donna mascherata invitava a nuove proteste e a prelevare denaro dalle banche secondo lo slogan «Morte alla Repubblica islamica».

All’estero personalità di rilievo in opposizione al regime vigente si sono riunite in una conferenza stampa congiunta a Washington DC, chiedendo il superamento delle divisioni intestine col fine di rovesciare l’attuale governo.

Relazioni Usa-Cina: secondo Pallone-spia nel cielo americano

Due palloni areostatici di provenienza cinese in questi giorni hanno sorvolato il cielo statunitense forse con l’intenzione di spiare l’amministrazione americana.

Washington, considerando la possibilità di spionaggio da parte dei due palloni, li ha denominati palloni-spia.

Mentre gli Stati Uniti stanno ancora cercando di recuperare i detriti del primo pallone-spia cinese nella costa del Nord Carolina, compare il secondo pallone spia cinese nello spazio aereo americano.

I resti del primo pallone spia non verranno restituiti al governo cinese ma saranno sottoposti ad analisi da parte dell’intelligence americana.

Il secondo pallone spia si trova sopra l’America Latina e proviene anch’esso dalla Cina.

Washington sospetta che il pallone cinese stia sorvolando il cielo statunitense per un’azione di spionaggio.

Il ministero degli Esteri cinese, Qin Gang, ha affermato che il dirigibile senza equipaggio viene utilizzato per ricerche metereologiche ed è andato fuori rotta.

Gli Stati Uniti provvederanno all’abbattimento del secondo pallone-spia nel momento in cui questo si troverà sopra le acque marittime per evitare di ferire civili.

La Cina continua ad affermare che non si tratta di spionaggio e che i due palloni di sorveglianza siano semplicemente andati fuori rotta e che il loro utilizzo sia esclusivamente civile.

Gli Stati Uniti stanno comunque effettuando dei controlli per verificare se si tratta di spionaggio o meno. Washington afferma che a prescindere dalle intenzioni di Pechino verranno valutate le sanzioni per la violazione della sovranità aerea statunitense, secondo quanto riportato dalla BBC News.

Le relazioni Usa-Cina a causa dei due episodi sono notevolmente compromesse.

Antony Blinken, segretario di Stato americano, decide infatti di rimandare il viaggio a Pechino previsto la scorsa settimana come tappa della sua missione diplomatica.

XI Jinping, non esita a scusarsi con l’amministrazione americana sottolineando di non volere che l’incidente rovinasse la visita del segretario di Stato.

La guerra economica tra le due potenze continua e gli Stati Uniti nei confronti della Cina non cambiano atteggiamento in materia di semiconduttori.

Prima dei palloni di sorveglianza cinesi sul cielo americano, Biden aveva già rafforzato la strategia economica statunitense con nuove restrizione economiche per bloccare l’espansione di Pechino. Pechino viene tagliata fuori dalla catena di fornitura di microchip e di conseguenza dal mercato dei semiconduttori a causa del nuovo accordo sul fronte occidentale.

L’ accordo tra Giappone, Pesi bassi e Stati Uniti, limita le esportazioni di apparecchiature avanzate per la produzione di chip verso la Cina.

Regno Unito: il sostegno militare all’Ucraina continua

Lo scorso 8 febbraio 2023 il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è recato inaspettatamente a Londra dove ha pronunciato un discorso al parlamento inglese, facendo visita a Re Carlo ringraziandolo per il supporto concesso e recandosi nei campi militari di addestramento. La risposta di Mosca è stata immediata enunciando possibili conseguenze per il mondo intero.

L’obiettivo del Presidente è l’invio di altri armamenti all’Ucraina, precisamente caccia da combattimento così da poter avere «ali per proteggere la libertà», come citato dalla BBC. Rishi Sunak, Primo Ministro del Regno Unito, a tale richiesta ha risposto affermando che «niente è fuori dal tavolo», anche se sarà necessario del tempo affinché ciò avvenga. Inoltre, nella dichiarazione da loro firmata per mantenere la cooperazione tra i due Paesi, si può leggere che vi sarà un’Ucraina in cui la pace vigerà attraverso la sconfitta di Mosca per la sua «illegale e ingiustificata invasione». In seguito, il Presidente si è recato insieme al Primo Ministro a Dorset, nella parte sudovest del Paese, per controllare gli addestramenti militari che permetteranno ai soldati ucraini di saper utilizzare i nuovi armamenti in pochi mesi.

Inoltre, Zelensky ha voluto ringraziare la nazione per gli sforzi effettuati con un discorso che ha commosso gran parte dei presenti a Westminster; aggiungendo che la Russia perderà mentre sarà la libertà a vincere, grazie anche all’appoggio inglese così da poter ottenere «la più grande vittoria di tutti i tempi».

La risposta russa non si è fatta attendere: secondo l’ambasciata russa gli inglesi hanno rovinato praticamente l’intera architettura politica tra i due Paesi, attraverso sanzioni e l’invio di armi, e non vi sarà alcun dietrofront fino a quando non saranno gli inglesi stessi a farlo. In aggiunta, secondo quanto riportato dalla TASS, l’ambasciata russa a Londra ha dichiarato che se vi saranno tali sostegni finanziari potranno esserci conseguenze militari e politiche per il mondo intero.

Malawi: il colera continua a provocare morti. L’OMS richiede «interventi incisivi»

L’epidemia di colera più letale mai registrata in Malawi ha causato la morte di 1.210 persone da marzo 2022, ha allertato giovedì l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha inoltre segnalato casi nei Paesi limitrofi e in altre parti dell’Africa, richiedendo, quindi, «interventi incisivi».

Le epidemie di colera si stanno diffondendo in circa 30 paesi del mondo, contro i circa 20 paesi solitamente colpiti. Lo scorso anno ha registrato una riacutizzazione della malattia, in particolare in paesi come il Libano, dove non si manifestava da trent’anni.

Questa situazione eccezionale ha spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a suggerire un cambiamento nella strategia di vaccinazione, iniettando una dose invece di due per la prima volta da quando, dieci anni fa, i vaccini orali sono stati utilizzati per contenere la malattia.

Secondo quanto riferisce Le Monde, in Malawi il colera è endemico dal 1998, con focolai durante la stagione delle piogge, da novembre a maggio. Ma l’attuale epidemia si è estesa alla stagione secca: sono circa 37.000 i casi segnalati da marzo 2022, secondo l’ultimo bollettino epidemiologico dell’OMS pubblicato presso la sede di Ginevra.

Nel corso del 2022, sono stati registrati circa 80.000 casi e 1.863 decessi in 15 Paesi. Solo nel primo mese del 2023, «ha già raggiunto più del 30% del numero totale di casi registrati nell’intero 2022», afferma l’OMS Africa. Secondo le stime, al 29 gennaio 2023 erano stati segnalati 26.000 casi e 660 decessi in dieci Paesi africani colpiti.

«Se tenderà ad aumentare ancora con questa rapidità, il numero di casi potrebbe superare quello registrato nel 2021, che è stato l’anno peggiore per il colera in Africa in quasi un decennio», stima l’ufficio africano dell’organizzazione.

La maggior parte dei nuovi casi e dei decessi è stata registrata in Malawi, osserva il rapporto, aggiungendo che anche i paesi vicini, in particolare Mozambico e Zambia, hanno denunciato casi di recente. «In Africa orientale, Etiopia, Kenya e Somalia stanno affrontando focolai nel contesto di una grave e persistente siccità». Anche Burundi, Camerun, Repubblica Democratica del Congo e Nigeria hanno segnalato casi.

In Malawi, il 5 dicembre 2022, il governo ha dichiarato l’epidemia «emergenza sanitaria». L’OMS sta assistendo le autorità fornendo kit di trattamento e aumentando la capacità di analisi, ma «con il forte aumento dei casi registrato nell’ultimo mese, si teme che l’epidemia continui a peggiorare in assenza di interventi incisivi», afferma l’organizzazione con sede a Ginevra. «L’accesso all’acqua sicura, ai servizi igienici e all’igiene deve essere migliorato con urgenza», aggiunge.

Secondo l’OMS, uno dei fattori che contribuiscono all’alto tasso di mortalità in alcune aree è la diagnosi tardiva dei casi, in quanto i pazienti si presentano alle strutture sanitarie troppo tardi. Finora sono state vaccinate quasi 3 milioni di persone (vaccino orale). Ma una parte della popolazione malawiana rifiuta le cure in nome di credenze religiose, contribuendo così alla diffusione della malattia.

Stati Uniti – Cina: il pallone cinese ritrovato sabato sarebbe parte di un programma di spionaggio più vasto

L’intelligence statunitense ha collegato il pallone cinese abbattuto nella giornata di sabato 4 Febbraio a un programma di spionaggio gestito dalle forze militari cinesi. Il pallone spia avrebbe raccolto informazioni anche di altri Paesi attraversando, sostengono gli USA, che hanno prontamente avvertito i partner e alleati coinvolti.

Stando a quanto riportato dal Washington Post, il pallone sarebbe partito dalla provincia di Hainan al largo della costa meridionale cinese e avrebbe raccolto informazioni sulle risorse militari di aree di interesse strategico per la Cina, tra cui Giappone, Vietnam, Taiwan, India e Filippine.

I funzionari americani, in condizioni di anonimato, hanno affermato che questi dirigibili di sorveglianza, gestiti in parte dall’aviazione dell’EPL (Esercito Popolare di Liberazione), sono stati avvistati in cinque continenti. Durante la conferenza stampa di mercoledì 8 Febbraio, il portavoce del Dipartimento della Difesa, il Generale Pat Ryder, ha confermato che gli Stati Uniti ritengono che palloni simili abbiano sorvolato Nord e Sud America, Sud-est asiatico, Asia orientale ed Europa.

La presenza nello spazio aereo statunitense del pallone cinese ha innescato una crisi diplomatica e spinto il segretario Blinken a sospendere immediatamente un viaggio in Cina, riferisce la BBC.

Il pallone è stato recuperato al largo della costa di Myrtle Beach, nella Carolina del Sud, un giorno dopo essere stato abbattuto da un jet da combattimento. Navi e sommozzatori della Marina e della Guardia Costiera stanno ancora cercando detriti del pallone. Non è chiaro quali informazioni gli Stati Uniti abbiano raccolto finora.

La Cina ha negato che il pallone fosse utilizzato per scopi di spionaggio e afferma che si tratti di un dispositivo meteorologico andato fuori strada.

Argentina: un porto sicuro per le donne russe in gravidanza

Dato il conflitto tra Russia e Ucraina, tutt’ora in atto, il tasso di natalità nei due Paesi è sceso notevolmente. L’isolamento dovuto alla guerra contro l’Ucraina ha spinto molti russi a lasciare il Paese per recarsi in luoghi dove non vi siano restrizioni sui visti.

Uno di questi Paesi è l’Argentina, che non richiede il visto per i cittadini russi. Georgij Polin, capo del dipartimento consolare dell’Ambasciata russa in Argentina, ha stimato che nel 2022 si sarebbero trasferiti in Argentina tra i 2.000 e i 2.500 russi, molti dei quali, ha detto, sono donne russe che intendono partorire nel Paese. «Entro il 2023, questo numero potrebbe salire a 10.000», ha aggiunto Polin.

Dare alla luce un figlio in un paese come l’Argentina porta con sé dei vantaggi. Molte donne incinte si recano nel Paese latinoamericano per dare ai loro figli i privilegi di una seconda cittadinanza. Mentre con il passaporto russo possono viaggiare solo in 80 Paesi senza restrizioni, il passaporto argentino permette di viaggiare, per brevi periodi, in 171 Paesi senza visto, tra cui l’UE, il Regno Unito e il Giappone. Inoltre, i genitori stranieri di un bambino nato in Argentina possono facilmente ottenere la cittadinanza in meno di due anni.

In un reportage pubblicato sulla quotidiano britannico The Guardian, è stata raccontata la storia di Polina Čerepovickaja, una delle russe che ha deciso di trasferirsi in Argentina per la nascita del figlio. Čerepovickaja e suo marito hanno lasciato la Russia non appena è iniziata l’invasione, dato il numero di porte che si stavano chiudendo per i cittadini russi.

«Ho scoperto di essere incinta poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina», dichiara Čerepovickaja. «Quando abbiamo visto che le frontiere cominciavano a chiudersi rapidamente, abbiamo capito che dovevamo trovare un posto da poter raggiungere con facilità. Un passaporto argentino aprirà molte strade a mio figlio», racconta la madre russa al The Guardian.

Inoltre, esistono agenzie che aiutano le donne a sbrigare le pratiche burocratiche. Una di queste è Baby.RuArgentina, il cui fondatore, Kirill Makokeev, ha dichiarato nell’intervista al The Guardian che la sua società ha aiutato più di cento donne russe e i loro partner nell’ultimo anno, come riportato da DW.

Makokeev si è subito reso conto del potenziale del Paese come destinazione per il turismo di nascita e ha deciso di concentrarsi su questo settore nel 2018. Le donne russe che si trasferiscono in Argentina per partorire pagano ora tra le 1.000 e le 8.000 sterline a intermediari che si occupano, tra le altre cose, di traduzioni e burocrazia.

Secondo Makokeev, ogni giorno sbarcano a Buenos Aires più di una “dozzina di russe incinte”. La capitale latino-americana è una delle mete preferite dalle turiste in maternità per la facilità di accesso e la buona assistenza medica. Cherepovitskaya e suo marito intendono rimanere a vivere in città e chiedere la cittadinanza.

Australia: stop a una miniera di carbone in difesa della Grande Barriera Corallina

Secondo quanto riportato dalla CNN, mercoledì 7 Febbraio, il governo australiano ha rifiutato una proposta per la creazione di una nuova miniera di carbone a circa 10 km dalla Grande Barriera Corallina, sulla costa del Queensland.

Tanya Plibersek, ministro dell’ambiente ha affermato che il progetto rappresenta un rischio inaccettabile per l’area, già altamente vulnerabile. Ha inoltre sottolineato l’importanza della decisione poiché è la prima volta che l’ufficio ministeriale dell’ambiente ha usato i propri poteri ai sensi delle leggi ambientali per respingere un progetto di questo tipo.

“Il rischio di inquinamento e danni irreversibili alla barriera corallina è troppo grande. Il progetto avrebbe avuto impatti inaccettabili per l’acqua e potenzialmente sulla fauna dell’area”, ha dichiarato Pilbersek in un video pubblicato su Twitter.

La proposta della creazione della miniera era stata avanzata dalla società Central Queensland Cola, di proprietà dal magnate australiano Clive Palmer, che non ha ancora commentato la decisione del governo.

L’UNESCO già da tempo spinge il governo australiano a proteggere con ogni mezzo a loro disposizione la barriera corallina. Nel 2022, per questa ragione, le autorità australiane hanno promesso di investire un miliardo di dollari australiani (700 milioni di euro circa) per proteggere il fragile ecosistema, promettendo inoltre nuove misure contro il cambiamento climatico e nuovi programmi per monitorare la qualità dell’acqua.

Nel 2021 la Grande Barriera Corallina, che si estende per oltre 2.300 ha vissuto il suo sesto evento di sbiancamento di massa per via del riscaldamento delle acque. Climate Action Tracker ha dichiarato successivamente che le azioni del governo australiano sono “insufficienti” per contrastare il cambiamento climatico e raggiungere gli obiettivi per limitare il riscaldamento globale.

Birmania: la giunta proroga lo stato di emergenza e rinvia il voto

La decisione da parte del governo militare di prorogare lo stato di emergenza di sei mesi rischia di ritardare le elezioni generali previste per agosto 2023. Secondo il governo il Paese ha bisogno della legge marziale perché le manifestazioni anti-golpe non permettono la stabilità per lo svolgimento di elezioni pacifiche.

La legge marziale deve garantire la sicurezza, la pace e la tranquillità nella Birmania. I 37 comuni interessati dall’imposizione della legge marziale si trovano in otto stati e regioni: Sagaing, Chin, Magway, Bago, Mon, Karen, Taninthayi e Kayah.

Le nuove misure conferiscono un ampio potere giudiziario ai tribunali militari che giudicheranno casi di alto tradimento al regime e casi di violazione del divieto di diffusione di notizie false, così il regime riuscirà a proteggersi degli avversari.

La comunità internazionale ha condannato la decisione del governo militare.

Il ministero degli Esteri tedesco ha descritto l’estensione della legge marziale e dello stato di emergenza come «passi illegittimi» e ha chiesto la fine della violenza dei militari e delle violazioni dei diritti umani, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Le Nazioni Unite invece hanno commentato la decisione come un ulteriore attacco alla democrazia in Birmania.

Il golpe del 2021 in Birmania sconvolge gli assetti politici mettendo a dura prova l’ordine istituzionale.

Alle elezioni del novembre del 2020 i risultati riconfermano la maggioranza alla Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, mentre l’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo (Usdp) raggiunge il minimo storico.

L’unione per la solidarietà è un partito fondato nel 2010 e costituisce il rappresentante politico della giunta militare birmana.

Il colpo di stato in Myanmar (Birmania) viene messo in atto dalle forze armate birmane rappresentate dal Usdp, che rovesciano il governo della leader democratica Aung San Suu Kyi, eletta per la prima volta nel 2016.

L’esercito del Mayanmar subito dopo il golpe dichiara lo stato di emergenza nominando come leader del Paese il comandante in capo delle forze armate, Min Aung Hlaing.

Dopo il golpe, le continue manifestazioni pacifiche che si svolgono nelle piazze contro il nuovo regime in Myanmar vengono represse in maniera sanguinosa dalle forze militari, causando centinaia di morti.

Un osservatorio indipendente che tiene traccia degli omicidi e degli arresti ha registrato che almeno 2.948 civili sono stati uccisi da quando i militari hanno rovesciato la leader eletta Aung San Suu Kyi, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Somalia: clima estremo e guerra non lasciano tregua al Paese

Almeno 3,8 milioni di somali sono fuggiti dalle loro case e molti di loro vivono in campi per sfollati, come i cinque che sono sorti intorno a Dolow. In Somalia ci sono due stagioni delle piogge all’anno e, in una società in cui l’agricoltura di sussistenza è la norma, migliaia di famiglie sono spinte al limite in mancanza di acqua. Le ultime cinque stagioni delle piogge non sono mai arrivate.

Seconda quanto riferisce El País, le Nazioni Unite hanno stimato che entro l’estate ci saranno 1,8 milioni di bambini sotto i cinque anni gravemente malnutriti.

Già nel 2011, la Somalia ha dovuto fronteggiare la peggiore carestia al mondo del XXI secolo: ha ucciso 260.000 persone. Per giunta, in quell’occasione furono solo tre le stagioni di pioggia che non si verificarono.

Gli esperti sono convinti che la situazione sia una conseguenza del cambiamento climatico. La scienza ha dimostrato che la siccità e altri eventi estremi, come le piogge torrenziali, sono diventati sempre più frequenti. Il fenomeno, che da tempo sta colpendo la Somalia, è in gran parte causato dalle emissioni dei Paesi sviluppati, difatti il Paese africano ha poche responsabilità al riguardo, in quanto genera una quantità di emissioni di CO₂ minima: circa settemila volte in meno rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti.

La mancanza di precipitazioni sta colpendo duramente anche gli altri Paesi del Corno d’Africa. La fame si sta diffondendo a causa della siccità, combinata con altri fattori globali, tra cui i problemi di approvvigionamento derivanti dalla pandemia di Covid-19 e l’aumento dei prezzi di cibo e carburante dovuto alla guerra in Ucraina.

In Somalia, però, entra in gioco un ulteriore fattore che accresce il potenziale distruttivo della crisi: il conflitto armato che sta logorando il Paese.

Con le strade invase dai jihadisti, la logistica del trasporto degli aiuti umanitari via terra è complicata. «La situazione è complessa», spiega Elisha Kapalamula, responsabile di World Vision, una ONG che aiuta i campi per sfollati a Dolow e in altre regioni del Paese. «I militanti di Al Shabab fermano i camion e prendono gli aiuti. Se il governo o le organizzazioni spostano il cibo, Al Shabab lo confisca», aggiunge Kapalamula.

I 17 milioni di abitanti della Somalia soffrono da decenni di guerre civili e governi fragili, sostenuti dall’Unione Africana e dagli Stati Uniti, che cercano di evitare che il Paese cada totalmente in mano ai terroristi. I militanti di Al Shabab, uno dei rami più attivi e forti di Al Qaeda, continuano a diffondere il terrore nella capitale e controllano ancora vaste aree rurali, dove tassano i contadini impoveriti, reclutano i loro figli e avvelenano i loro pozzi d’acqua.

Le zone dominate dal gruppo Al Shabab sono ugualmente colpite dalla siccità, ma inaccessibili alle organizzazioni umanitarie. Questa difficoltà costituisce uno dei motivi per cui, sebbene la notizia sia largamente diffusa, le autorità non hanno ancora dichiarato ufficialmente la carestia.

Attacco alla moschea di Peshawar: tensioni al confine Pakistan-Afghanistan

La moschea nella città di Peshawar, situata nella regione Khyber Pakhtunkhwa, in Pakistan è stata colpita da un attentato. L’attacco kamikaze è avvenuto durante le ore pomeridiane di preghiera, momento in cui nell’edificio vi erano quasi 300 persone.

La maggior parte dei fedeli facevano parte delle forze dell’ordine, poiché il luogo di culto è situato all’interno di un complesso di polizia della città.

Negli ultimi anni gli attacchi terroristici nella regione sono cresciuti del 52% e le vittime sono molto spesso membri delle forze dell’ordine. Nell’attacco almeno 100 persone sono morte e 200 i feriti.

Il comandante del Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) ha rivendicato l’attentato. Il TTP è un organizzazione fondata nel 2007 da alcuni gruppi fuorilegge, unitisi per lottare contro il governo e sostenere i talebani nel vicino Afghanistan, che stava combattendo le forze statunitensi e della NATO.

L’attuale leader è Noor Wali Mehsud che ha giurato fedeltà ai talebani afgani. L’obiettivo del TTP è quello di rovesciare il governo del Pakistan conducendo una campagna terroristica contro le forze armate.

L’organizzazione ha le sue basi nella regione Khyber Pakhtunkhwa, vicino al confine con l’Afghanistan, luogo da cui arruola le reclute.

I talebani pakistani al governo chiedono un l’applicazione più rigorosa delle leggi islamiche e una riduzione dei militari in alcune parti del Khyber Pakhtunkhwa.

Il governo centrale del Pakistan aveva deciso di cooperare con gli Stati Uniti quando quest’ultimo aveva invaso l’Afghanistan dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Le forze statunitensi durante questi anni hanno sempre preso di mira le forze ribelli al confine con l’Afghanistan tra cui il TTP.

Spesso Washington ha accusato il Pakistan di offrire rifugio ai talebani e ai leader di Al-Qaeda, il che ha deteriorato i rapporti con Islamabad, soprattutto con il ritorno del governo talebano in Afghanistan nel 2021.

La situazione ai confini dell’Afghanistan rende difficile un controllo da parte del governo sui gruppi ribelli. Il governo centrale però, per molti anni, ha comunque trascurato la condizione esistente nella regione lasciando un vuoto, riempito dallo sviluppo di organizzazioni ribelli.

La linea di confine con l’Afghanistan rappresenta una zona critica anche per il solo fatto che il popolo in questi anni ha subito da vicino il peso della guerra contro il terrorismo, secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Alla problematica della sicurezza si aggiunge uno scenario economico altrettanto drammatico. Le riserve di valuta estera si sono dimezzate in meno di un anno e l’inflazione tocca il 25%. La mancanza di riserve estere può provocare una grave carenza dei beni di prima necessità.

Il miglioramento della situazione economica dipenderà interamente dalla visita dei dirigenti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla decisione di un possibile stanziamento di aiuti da 1,1 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dall’ISPI.

Perù: No del Congresso a elezioni anticipate

Dopo un ulteriore dibattito per anticipare le elezioni in Perù a fronte della crisi del Paese, il Congresso ha respinto le proposte questo giovedì, 2 febbraio. Il parlamento ha respinto ancora una volta proposta di legge per anticipare le elezioni.

Secondo quanto riporta la CNN, «Con 75 voti contrari, il Congresso ha respinto il parere i disegni di legge riguardanti la riforma costituzionale per l’anticipazione delle elezioni generali e il referendum per la convocazione di un’assemblea costituente».

Divisi in due schieramenti, i politici hanno presentato progetti già consapevoli di non avere alcuna possibilità di farli passare.

Mercoledì 1° febbraio, 54 membri del Congresso hanno votato a favore di una proposta di legge presentata dai sostenitori di Fujimori, mentre, giovedì 2 febbraio, 47 membri hanno votato a favore di un’altra proposta di legge di Perù Libre, la nona a essere dibattuta in sessione plenaria. Non sono nemmeno lontanamente vicini a un accordo. La maggioranza è di 87 voti.

Il Paese rimane bloccato in una situazione di agitazione sociale e politica che sembra non avere via d’uscita. Le proteste continuano a quasi due mesi dal fallito golpe di Pedro Castillo e il numero di morti registrati ammonta a 58 persone.

La sensazione nelle strade è che la situazione sia diventata insostenibile. A questo punto, nessuno pensa alle elezioni come a una soluzione, ma piuttosto come al male minore. Come minimo, dovrebbero «andarsene tutti» ed eleggere nuovi rappresentanti. La decisione di anticipare le elezioni è nelle mani del Congresso, l’istituzione peggio considerata del Paese, con un indice di gradimento del 7% secondo gli ultimi sondaggi, secondo quanto riportato da El País.

La richiesta di elezioni anticipate non è solo nazionale. Alcune organizzazioni internazionali, come l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), hanno chiesto che la votazione avvenga il prima possibile. Tuttavia, il Congresso continua a concentrarsi sui propri interessi e i membri del Congresso non rinunciano alla propria posizione, continuando a ignorare il consenso.

Proprio questo giovedì, 2 febbraio, mentre il Congresso discuteva il nuovo testo da respingere, la Presidente si è recata a Piura ed è stata categorica: «le mie dimissioni non sono sul tavolo in questa situazione. So che c’è una piccola parte dei gruppi che stanno generando violenza e caos nel Paese che, come forma di ricatto, chiedono le mie dimissioni. Non cederemo a questo ricatto politico e anarchico che vuole portare il Paese al disordine e alla crisi», riferisce inoltre il quotidiano spagnolo. Tuttavia, per la maggioranza dei peruviani, il Paese si trova già in uno stato di disordine e crisi che non si vedeva da decenni.

Italia: la Cassazione si pronuncia a favore dei minori che non vogliono intrattenere una relazione con i nonni

La Cassazione ha stabilito che non si può imporre ai bambini una relazione non voluta con i nonni. La sentenza è stata emanata dopo un ricorso da parte dei genitori di due bambini contro la decisione di un tribunale di primo grado che aveva costretto i figli a frequentare i nonni paterni.

La vicenda è iniziata anni fa dopo che i nonni e uno zio paterno avevano denunciato al Tribunale dei minorenni di Milano di non poter vedere i nipoti a causa di una disputa familiare, riporta il The Guardian.

I nonni hanno vinto la causa e nel 2019 sono stati quindi disposti incontri obbligatori tra loro e i bambini con la presenza di un assistente sociale.

I genitori sostenevano che gli incontri, però, non fossero particolarmente graditi dai figli a causa delle crescenti tensioni familiari, hanno quindi presentato un ricorso per ottenere l’annullamento degli incontri.

Il tribunale ha stabilito che gli interessi dei figli devono prevalere su quelli dei nonni e che una relazione non gradita non può essere obbligatoria, soprattutto nel caso in cui i minorenni sono capaci “di discernimento” e hanno compiuti 12 anni.

Stando al diritto di famiglia introdotto nel 2006, i bambini di genitori separati hanno il diritto di continuare una relazione attiva con i nonni. I nonni, pertanto, hanno il diritto indagare nel momento in cui i genitori vietano loro di vedere i nipoti e stabilire se questo è dannoso per i bambini, oltre che illegale.

Svelato il segreto che conserva intatto il Colosseo: «nessun’altra civiltà nella storia, compresa quella di oggi, ha creato un cemento tanto resistente»

Se oggi dovessimo colpire con un piccone la struttura in cemento del Colosseo, la punta rimbalzerebbe e non uscirebbe nemmeno un po’ di ghiaia. Se si insistesse a lungo, dopo un’infinità di colpi si creerebbe una crepa. Ecco che avverrebbe la cosa più sorprendente: ci vorrebbero meno di due settimane perché questa si richiuda. Da sola.

Il calcestruzzo, a contatto con l’aria, ripristinerebbe i propri pori. Sebbene il calcestruzzo romano sia stato studiato fin dagli anni ’60, quest’ultima singolare qualità è stata spiegata solo pochi giorni fa.

All’inizio del mese di gennaio, alcune università italiane, svizzere e statunitensi hanno pubblicato l’ultima proposta scientifica sui segreti del cemento romano. Finora si riteneva che dovesse la sua forza alle rocce pozzolane, di natura vulcanica, trovate nei pressi della cittadina di Pozzuoli, alle pendici del Vesuvio.

Oggi, però, ne sappiamo di più. Secondo quanto riferisce EL PAÍS, i grandi edifici romani sono sopravvissuti a millenni di storia non solo per la purezza dei materiali, ma anche grazie a un elemento specifico: la calce viva. Un bel paradosso: i Romani hanno creato strutture architettoniche con la stessa sostanza che noi utilizziamo in modo opposto, vale a dire, per corrodere la materia.

Tradizionalmente, il calcestruzzo è il risultato della miscela di due ingredienti diversi. Uno di questi,- caratterizza la sua ossatura, cioè la parte solida, ovvero la ghiaia che costituirà la maggior parte del composto. Ciò fa parte del successo del calcestruzzo romano, perché questo materiale, sempre puro, è stato trovato a Pozzuoli e da lì si è diffuso nel resto di Roma.

È dal secondo elemento che arriva la novità: il legante o colla, una sostanza che aiuta a tenere insieme la ghiaia. Finora si sapeva che i Romani prediligevano la calce, ma sempre a freddo, diluita con acqua. «Lo stesso Vitruvio, noto per i suoi trattati di architettura, raccomandava di idratare la calce per almeno sei mesi», ricorda Pablo Guerra, archeologo e professore all’Università di Castilla-La Mancha.

Alla tradizionale miscela di ghiaia e calce spenta, i Romani aggiungevano la calce viva, appena uscita dal forno e ancora ardente. Grazie a ciò, i grandi edifici di Roma non solo sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, ma il procedimento richiedeva molto meno tempo.

«La calce viva accelera l’indurimento del calcestruzzo e lo rende più resistente, a condizione che venga aggiunta nel corso della miscelazione dei materiali. Inoltre, il materiale reagisce molto bene al contatto con l’aria. I pori del calcestruzzo si chiudono autonomamente quando si mescola con il carbonio presente nell’ambiente», spiega Guerra, riporta ancora il quotidiano spagnolo.

Ecco perché, a distanza di secoli, le crepe degli edifici romani impiegano solo pochi giorni per chiudersi da sole. «Il cemento romano è il migliore». Nessuna civiltà è mai riuscita a crearne uno tanto resistente quanto quello adoperato dai romani.

Morti in un incendio tre studenti universitari in Andalusia

Sono morti tre studenti rimasti intrappolati in un appartamento in fiamme martedì 31 gennaio nella città di Huelva, in Andalusia. A chiamare i soccorsi i vicini di casa svegliati dalle urla dei ragazzi.

Un gruppo di dieci studenti universitari si era riunito per festeggiare la fine della sessione di esami, per poi decidere di dormire insieme nell’appartamento. Del gruppo, sono tre i ragazzi che non ce l’hanno fatta: un ragazzo e due ragazze, di età compresa tra i 20 e i 22 anni. Sono rimasti intrappolati all’interno della casa, per poi morire in ospedale a causa delle inalazioni di fumo. Gli altri ragazzi, invece, sono riusciti a mettersi in salvo.

L’allarme è stato lanciato la mattina del martedì, dopo diverse chiamate al 112 in cui veniva segnalato un incendio al primo piano di una casa e che delle persone potevano essere intrappolate al suo interno. I vigili hanno individuato le vittime prive di sensi: le sbarre con cui erano protette le finestre e la porta che dava sul balcone della strada impedivano loro di uscire.

Una testimone, Josefa García, ha raccontato telefonicamente: «Abbiamo sentito le urla e le fiamme si stavano alzando verso l’alto e i ragazzi non potevano uscire».

L’incendio, stando a quanto riporta El País, è stato provocato da una stufa lasciata accesa nel soggiorno per poi propagarsi nel resto della casa. I vigili del fuoco hanno rinvenuto nell’appartamento, composto di quattro stanze, diversi materassi distribuiti sul pavimento. Attualmente è stato richiesto un riesame dell’immobile, i tecnici comunali hanno però escluso che la struttura sia in pericolo. 

Anche il Presidente della Giunta dell’Andalusia, Juan Manuel Moreno, ha espresso il suo cordoglio in un post su Twitter.

Perù: la presidente Boluarte chiede elezioni anticipate

La soluzione alla recente crisi, iniziata con il mancato autogolpe di Pedro Castillo, il 7 dicembre, è nelle mani della nuova presidente, Dina Boluarte, o del Congresso. Tuttavia, per venirne a capo, bisognerà ancora attendere.

I due poteri, esecutivo e legislativo, continuano ad avanzare richieste, ma nessuno si fa avanti. Questo lunedì, 30 gennaio, il Congresso ha approvato la riapertura del dibattito sulla possibilità di tenere le elezioni nel 2023, anziché a metà 2024, come previsto. La questione era già stata discussa senza successo in numerose occasioni negli ultimi due mesi, l’ultima delle quali venerdì 27.

I manifestanti continuano a esercitare pressioni sul governo, che sente di avere sempre meno spazio di manovra.

Per il primo mese e mezzo, le proteste non hanno causato troppi disagi a Lima, che ospita un terzo della popolazione del Paese. Negli ultimi dieci giorni, tuttavia, gli scontri fra forze dell’ordine e manifestanti si sono spostati nelle strade della capitale.

Sabato 28 gennaio è stato il giorno più violento della settimana. Tredici civili sono rimasti feriti. Tra le forze dell’ordine, si contano circa 20 feriti. Inoltre, sono stati segnalati attacchi ai giornalisti e quindici manifestanti sono stati arrestati. La crisi ha già causato la morte di 58 persone, l’ultima delle quali proprio questo sabato a Lima, a causa di un colpo di pistola.

Come riportato da EL PAÍS, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha pubblicato venerdì 27 gennaio le sue raccomandazioni per il Perù. L’organismo ha formulato più di 200 proposte. Delle 202 avanzate, più di venti mirano a evitare l’uso improprio della forza da parte degli agenti responsabili della sicurezza dello Stato.

La crisi politica continua a peggiorare dopo anni di ingovernabilità in un Paese che ha avuto sei presidenti in quattro anni. La presidente Boluarte, tuttavia, non ha mostrato alcuna intenzione di dimettersi.

Nel caso in cui il Congresso approvi la proposta della presidente del Perù di cambiare la data delle elezioni, il primo turno si terrà a ottobre e il secondo a dicembre di quest’anno.

«Il primo turno dovrebbe essere la seconda domenica di ottobre e il secondo turno a dicembre», ha dichiarato la presidente Boluarte.

Nel corso dello svolgimento di questi dibattiti di natura politica, folle di manifestanti continuano ad affollare le strade. Ieri, lunedì 30 gennaio, il governo ha inviato 2.000 poliziotti nelle regioni di Ica, a sud di Lima, e Puno, nel sud del Paese, per cercare di riprendere il controllo delle strade, bloccate da diversi giorni.

«Negli ultimi quattro anni ci sono stati sei presidenti diversi. La vicenda dell’ex presidente Castillo non è stata un caso nella storia del Perù, ma la dimostrazione finale che si tratta di uno Stato fallito, senza alcun progetto nazionale», afferma César Hildebrandt, uno dei più importanti giornalisti e scrittori del Paese, riferisce ancora il quotidiano spagnolo.

Attacco all’ambasciata dell’Azerbaigian in Iran: Baku evacua il corpo diplomatico

Nella capitale iraniana, Teheran, presso l’ambasciata dell’Azerbaigian, un uomo armato con un kalashnikov ha ucciso un impiegato della sicurezza della rappresentanza diplomatica, Orkhan Asgarov, ferendo invece altre due persone.

Il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha definito l’attacco contro la missione diplomatica come «atto terroristico inaccettabile», il ministro degli esteri di Baku, invece, ha accusato lo stato iraniano per la poca attenzione a livello di sicurezza affermando «la parte iraniana doveva adempiere ai propri obblighi ai sensi della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, per garantire la sicurezza dell’Ambasciata e la sicurezza dei suoi dipendenti» secondo quanto riportato da Al jazeera.

L’Azerbaigian dopo l’accaduto ha deciso di evacuare il personale dell’ambasciata e i membri della famiglia dall’Iran, senza specificare se l’ambasciata continuerà ad esercitare la sua funzione o meno.

Il presidente iraniano, Ebrahim Raisi ha chiesto «un’indagine completa» sull’incidente e ha inviato le sue condoglianze all’Azerbaigian per la perdita subita.

Il corpo diplomatico iraniano, infatti, si è attivato per cercare di individuare il colpevole e per costatare se l’avvenimento avesse un movente politico o meno.

Dopo le prime indagini condotte dalla polizia locale, l’arresto del sospettato permette dei chiarimenti sull’accaduto.

Il sospettato è di origine iraniana e sostiene che sua moglie di origine azera è stata trattenuta presso l’ambasciata per nove mesi.

Il procuratore iraniano ha aggiunto che l’uomo credeva che sua moglie fosse ancora nell’ambasciata al momento dell’attacco, secondo quanto riportato dalla BBC News.

L’accaduto all’ambasciata dell’Azerbaijan non permette un miglioramento delle relazioni tra Teheran e Baku. I rapporti diplomatici tra i due paesi sono tradizionalmente ostili perché l’Azerbaigian, di lingua turca, è uno stretto alleato della Turchia, rivale storico dell’Iran. L’Iran essendo un territorio abitato anche da popolazione di origine azera per molto tempo ha accusato Baku di istigare movimenti separatisti contro il governo iraniano.

Teheran è sospettosa del sostegno militare tra l’Azerbaigian con Israele, timorosa che Israele possa usare Baku come base per un conflitto contro l’Iran.

Inoltre, le preoccupazioni di Teheran aumentano a causa della decisione dell’Azerbaigian di aprire un’ambasciata in Israele. Baku diventa così il primo Stato a maggioranza musulmana sciita con missione diplomatica in Israele.

Violenza crescente sui mezzi pubblici a Toronto

Secondo quanto riportato dalla BBC, sono 7 gli episodi di violenza registrati nel sistema dei mezzi pubblici di Toronto a partire da lunedì 23 gennaio. Sono coinvolti sia i passeggeri sia gli operatori dei trasporti, che hanno manifestato un crescente disagio dopo la violenza sempre crescente.

Tra gli incidenti denunciati: un autista di autobus è stato colpito con una pistola ad aria compressa da due adolescenti, qualche giorno dopo, la Toronto Transit Commission (TTC) ha riferito che due operatori dei mezzi pubblici sono stati inseguiti da una persona che impugnava una siringa in una stazione metropolitana. Una donna, invece, è stata pugnalata da uno sconosciuto su un tram. Pochi giorni dopo un adolescente ha subito una ferita da pugnale al torso su un autobus.

Giovedì 26 gennaio, la polizia di Toronto ha annunciato che ci saranno più agenti a pattugliare le stazioni di transito. Il capo della polizia Myron Demkiw ha sottolineato che Toronto rimane una città sicura.

Il problema dei mezzi pubblici poco sicuri non è esclusivo della città di Toronto. Nel corso del 2022 episodi simili sono stati riscontrati anche in altre città nordamericane, come New York o Chicago.

Gli esperti sostengono che è difficile stabilire il perché di questo aumento, ma il Covid-19 può avere un ruolo in questa crescente ondata di violenza.

Jerry Flores, professore di sociologia all’Università di Toronto, ha affermato che episodi simili non possono avere un’unica chiave di lettura, tuttavia la pandemia può essere una di queste. Il Covid-19 ha causato notevoli disagi nel tessuto sociale mondiale, come un altissimo tasso di disoccupati e una popolazione che emerge con difficoltà dall’emarginazione.

Flores, considerando la pandemia come uno dei fattori scatenanti della violenza sui mezzi di trasporto ha dichiarato: «L’ondata di violenza sarebbe attenuata se i bisogni fondamentali delle persone fossero soddisfatti. La sola polizia da sola potrebbe non risolvere il problema».

L’India invita il Pakistan alla riunione dell’Organizzazione di Shangai

L’ India ha invitato il ministro degli esteri pakistano Bilawal Bhutto-Zardari al vertice del SCO che si svolgerà a Nuova Delhi. Se Islamabad accetta l’invito, sarà la prima visita di un ministro degli esteri Pakistano in India in quasi 12 anni.

Il ministro degli esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, rispetto all’invito rivolto al Pakistan al vertice di maggio 2023, ha affermato che l’India desidera, intraprendere relazioni normali in un «clima favorevole» secondo quanto riportato da Al Jazeera.

La SCO (Organizzazione di Shanghai per la cooperazione) esiste da 12 anni in Asia centrale, nasce come meccanismo per favorire le risoluzioni di dispute territoriali trai i paesi aderenti all’Organizzazione. La SCO è composta da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan più cinque membri osservatori Mongolia, India, Iran, Pakistan e dal 2012, Afghanistan.

La presidenza dell’Organizzazione è basata su una rotazione dei membri aderenti. Nel 2022 la presidenza era affidata all’Uzbekistan quest’anno invece sarà Nuova Delhi a mantenere la presidenza del gruppo fino a settembre 2023.

Le relazioni tra l’India e il Pakistan sono tutt’ora conflittuali soprattutto a causa della questione del Kashmir, territorio a Nord dell’India al confine con il Pakistan. La questione del Kashmir nasce quando il dominio britannico decise di rinunciare all’India come colonia, questo ne conseguì l’inclusione deli territori del Jammu e Kashmir nello stato indiano. Il Kashmir a differenza degli altri territori a prevalenza induista è costituito da una popolazione a maggioranza mussulmana ed è uno dei territori contesi tra i due paesi, infatti, per il controllo della regione l’India e il Pakistan hanno affrontato tre guerre tra il 1947 e il 1948, nel 1965 e nel 1999.

Recentemente le relazioni tra le due nazioni si sono raffreddate ulteriormente quando l’India ha deciso di revocare l’articolo 370 della Costituzione nell’agosto del 2019.

L’articolo 370 permetteva al Kashmir di avere uno «status speciale», con una propria costituzione e un maggior grado di autonomia tranne che per la politica estera.

Tale decisione provocò l’inizio di proteste e violenze.

Nel 2021, tuttavia, i due paesi hanno rinnovato l’accordo di cessate il fuoco lungo la «linea di controllo» ovvero il confine di 724 km, che divide la zona del kashmir controllata dall’India da quella controllata dal Pakistan.

Ad oggi, le relazioni tra i due paesi continuano a registrare alti e bassi e non è detto che il vertice di maggio del SCO comporti un disgelo nei rapporti. l’India al momento pone l’attenzione verso la sua strategia economica per lo sviluppo del paese, mentre il Pakistan continua a sottolineare l’importanza della questione del Kashmir e dell’articolo 370.

Mosharraf Zaidi, del think tank Tabadlab con sede a Islamabad, ha commentato l’invito al ministro degli esteri pakistano affermando «non c’è stato alcun ‘invito’ di per sé. La partecipazione di un ministro degli esteri di un paese membro della SCO a una riunione della SCO non è un’opzione», secondo quanto riportato da Al Jazeera.

Boric critica Boluarte: tensioni tra Cile e Perù

Il governo peruviano ha espresso mercoledì pomeriggio al Cile il disagio provocato al governo di Dina Boluarte dal modo irrispettoso con cui il presidente cileno, Gabriel Boric, si è riferito martedì alla presidente del Paese vicino durante il suo intervento al vertice CELAC di Buenos Aires.

Nel suo discorso al vertice, il Presidente Boric ha fatto riferimento alla situazione interna del Perù.

«Non possiamo rimanere indifferenti di fronte al fatto che oggi nella nostra Repubblica sorella del Perù, con il governo guidato da Dina Boluarte, le persone che scendono in piazza a manifestare, per chiedere ciò che considerano giusto, finiscono per essere uccise da coloro che dovrebbero difenderle. Più di 50 persone hanno perso la vita e questo dovrebbe sconvolgerci», ha dichiarato il presidente cileno, come riportato da EL PAÍS.

«È inoltre inaccettabile che le università americane stiano rivivendo le tristi scene dei tempi delle dittature del Cono Sud, come è accaduto recentemente con l’ingresso violento della polizia nell’Università di San Marcos», ha aggiunto il presidente Boric.

«Forse il modo non è stato appropriato e per questo mi scuso. Tuttavia, nessuno è rimasto ferito e tutti sono stati rilasciati. La polizia è intervenuta per la sicurezza degli studenti, perché non sapevamo chi fosse entrato e non potevamo garantire cosa sarebbe successo all’interno dell’università», ha risposto la Presidente.

Nel suo discorso al VII summit della CELAC, il leader cileno ha invitato il governo Boluarte a cambiare rotta.

«La strada scelta dal governo costituzionale della presidente Boluarte è quella di anticipare le elezioni generali in modo che i peruviani possano decidere il destino del Perù senza interferenze e in pace», ha affermato, via twitter, il viceministro degli Esteri Ignacio Higueras all’ambasciatore cileno in Perù. «Il governo non cambierà il corso della democrazia», ha aggiunto il Ministero degli Esteri peruviano.

«È falso e offensivo insinuare, come è stato detto, che il governo abbia autorizzato la repressione violenta di chi protesta. Ribadisco in questa sede il nostro impegno a preservare i valori e i principi democratici e il pieno e illimitato rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto», ha sostenuto la ministra degli Esteri, Ana Cecilia Gervasi, durante il suo intervento di martedì 24 gennaio al vertice della CELAC, facendo riferimento all’intervento del presidente cileno.

Secondo quanto riferisce il quotidiano spagnolo, data la bassa popolarità del presidente Boric (26% di approvazione e 58% di disapprovazione, secondo un recente sondaggio di Data Influye), le sue dichiarazioni all’ultimo vertice risultano fortemente controverse in Cile.

«Il presidente si dedica a criticare la polizia peruviana, senza considerare che in Perù c’è una situazione di instabilità davvero grave. Per un presidente di un Paese vicino non considerare questo quadro non è né pertinente né intelligente», ha dichiarato il giornalista politico Ascanio Cavallo.

Il giorno della Repubblica: L’India festeggia il settantaquattresimo anniversario

Il 26 gennaio 2023, l’India festeggia il Republic Day in onore dell’adozione della costituzione indiana nel 1949 entrata poi in vigore nel 1950. Il 26 gennaio fu scelto come festa della Repubblica perché nello stesso giorno del 1929 fu proclamata dal Congresso Nazionale Indiano la Dichiarazione di Indipendenza dal dominio coloniale britannico.

La celebrazione della 74esima festa della Repubblica si svolge lungo il viale Central Vista e viene trasmessa in tutto il paese. Ogni anno per la cerimonia viene invitato anche una personalità illustre straniera, infatti, quest’anno oltre la partecipazione del presidente indiano Droupadi Murmu e il primo ministro Narendra Modi, come ospite d’onore c’era il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi.

El- Sisi è il primo presidente egiziano invitato alla celebrazione della festa della Repubblica, la sua presenza a un evento così importante per l’India rafforza ulteriormente i legami tra i due paesi, ponendo le basi per una partnership sui temi della sicurezza.

Il Governo indiano ha deciso per l’occasione di caricare gli inviti per l’evento cerimoniale online per la prima volta, mettendo in vendita 32.000 biglietti per le masse. Migliaia di persone così si sono riunite a Nuova Delhi, nonostante sopportando l’improvviso abbassamento delle temperature che ha causato freddo e nebbia.

Bande musicali, truppe delle forze armate, di frontiera e di polizia del paese per la parata hanno camminato in perfetta sincronia verso la pedana dove il presidente indiano ha dato inizio ai festeggiamenti con un saluto.

La ricchezza e la prosperità del paese è stata rappresentata da appariscenti Tableau (tipico carro utilizzato per le celebrazioni e ricorrenze ufficiali indiani) di diversi stati e ministeri che hanno evidenziato il tema centrale «il potere delle donne».

Dimostrazione di questo potere, si fa evidente dalla partecipazione delle donne per la prima volta al BSF (Border Security Force)  Camel Contingent che costituisce una delle due bande militari ufficiali indiane.

I numerosi Tableau con temi e colori sgargianti rappresentavano temi e tradizioni differenti cercando di costruire un quadro generico delle varie culture indiane che si intrecciano in occasione della celebrazione della Repubblica. Negli ultimi anni, i tableau degli stati governati dal Bharatiya Janata Party (BJP) di Modi hanno incluso principalmente simboli e narrazioni della supremazia indù, secondo quanto riportato da Al jazeera.

I festeggiamenti culminano con un volo cerimoniale di 45 aerei dell’Indian Air Forse insieme ai Rafales, aerei da caccia di fabbricazione francese e jet da combattimento Tejas di fabbricazione indiana. Lo spettacolo aereo però è stato rovinato dal tempo nebbioso che ha oscurato la vista degli aerei al pubblico.

Burkina Faso: «Vogliamo l’esercito francese fuori da casa nostra»

Lo scorso venerdì 20 gennaio, diverse centinaia di persone hanno manifestato a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, contro la presenza delle forze armate francesi.

Da diversi mesi, alcuni membri della società civile burkinabé si stanno mobilitando contro la presenza francese nel loro Paese.

Su richiesta del Collettivo dei leader panafricani (CLP), che riunisce le organizzazioni che sostengono il capitano Ibrahim Traoré, al potere dalla fine di settembre, i manifestanti si sono riuniti in Place de la Nation, nel centro di Ouagadougou.

Hanno richiesto la partenza dell’ambasciatore francese, Luc Hallde, e la chiusura della base dell’esercito francese nel villaggio di Kamboinsin, situato nella periferia nord della capitale, dove sono presenti 400 militari delle forze speciali, come riportato da LeMonde.

«Siamo qui per esprimere il nostro totale e incondizionato sostegno al Presidente Ibrahim Traoré, alle Forze di Difesa e di Sicurezza impegnate nella lotta al terrorismo e nella ricerca della piena sovranità del nostro Paese», ha dichiarato Mohamed Sinon, uno dei principali leader del collettivo.

Secondo quanto riferisce il quotidiano francese, i manifestanti, per lo più vestiti di bianco, portavano cartelli con le scritte: «Esercito francese, fuori da casa nostra» e «Francia fuori».

Parigi ha inviato la Segretaria di Stato del Ministro degli Affari Esteri francese, Chrysoula Zacharopoulou, a Ouagadougou il 10 gennaio per incontrare Ibrahim Traoré. «La Francia non impone nulla» ha affermato la segretaria, assicurando di non voler influenzare alcuna scelta o decisione e che «nessuno può imporre le proprie scelte al Burkina». Tuttavia, «il Paese resta disponibile per reinventare un futuro assieme», ha aggiunto la segretaria di Stato francese.

A ottobre e novembre, i manifestanti si sono radunati davanti all’ambasciata francese e alla base militare di Kamboinsin. Il mese seguente, le autorità burkinabé hanno richiesto l’allontanamento dell’ambasciatore Hallade a seguito di alcune dichiarazioni ritenute offensive.

Secondo quanto riportato da FRANCE24, la Francia ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore in Burkina Faso in seguito all’annuncio di mercoledì 25 gennaio di ritirare le proprie truppe dal Paese africano. La decisione dell’Eliseo di ritirarsi dal territorio dà seguito alla cessazione di un accordo bilaterale in vigore dal 2018, che prevedeva l’assistenza della Francia nella regione nella lotta contro il terrorismo jihadista.

La Francia ha deciso di ritirare la propria presenza militare entro un mese, come richiesto dalla giunta militare che governa il Paese africano.

La volontà della popolazione del Burkina di allontanare le forze militari francesi, presenti sul territorio dal 2018, dato l’accordo che vigeva fra i due Paesi, è dovuta al fatto che, come riferisce il quotidiano francese, la Francia è accusata di non fare abbastanza per contrastare l’insurrezione islamista presente sul territorio.  

Il 12 e il 13 gennaio, alcune donne sono state rapite, ma non sono più tornate al proprio villaggio. Il rapimento ha portato gli abitanti del villaggio a dire che si è trattato di un atto simbolico perpetrato dai jihadisti per vendicarsi.

Candidata agli Oscar la prima produzione portoghese

Per la prima volta nella storia una produzione portoghese è in lizza per gli Oscar 2023. “Ice Merchants”, diretto da João Gonzalez, è candidato nella categoria per il miglior cortometraggio d’animazione.

Il corto inizia con l’immagine di una casa protesa su un precipizio. Da qui, la storia di un padre e un figlio che ogni giorno si lanciano con il paracadute verso il villaggio sottostante, così da vendere il ghiaccio che producono nella loro inospitale abitazione.

“Ice Merchants” è il terzo film di João Gonzalez, occupandosi della direzione del cortometraggio e della soundtrack, mentre per le animazioni ha collaborato con Ala Nunu, un’artista polacca. Il film è prodotto dalla casa di produzione portoghese Cola Animation, e co-prodotto con l’inglese Royal College of Arts e dalla francese Wild Stream.

I candidati sono stati annunciati martedì 24 gennaio dagli attori Riz Ahmed e Allison Williams, così riporta la CNN Portugal.

Nella categoria miglior cortometraggio animato anche “An Ostrich Told Me the World Is Fake and I Think I Believe It” di Lachlan Pendragon, “The Boy, the Mole, the Fox and the Horse” di Charlie Mackesy e Matthew Freud, “My Year of Dicks” di Sara Gunnarsdóttir, “The Flying Sailor” di Amanda Forbis e Wendy Tilby.

Stando al The Portugal News, “Ice Merchants” è stato già proiettato in numerosi film festival, vincendo ben 44 premi.  

La cerimonia della 95esima edizione degli Academy Awards si svolgerà la notte del 12 marzo al Dolby Theatre di Hollywood, Los Angeles.

Conflitto arabo–israeliano: il governo di Netanyahu e le vittime in Cisgiordania

Il nuovo governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, si è insediato a dicembre 2022 e viene considerato come il governo più a destra della storia israeliana a causa dei partiti radicali che lo compongono.

Netanyahu sale al potere alla fine di un anno in cui si è registrato un alto livello di violenza tra israeliani e palestinesi. Secondo quanto riportato dall’ISPI negli ultimi 12 mesi il bilancio degli scontri riporta 150 palestinesi uccisi dalle forze israeliane e circa 20 sono le vittime israeliane.

I partiti della nuova coalizione, alleati di Netanyahu, sono orientati verso la costituzione di unico stato: quello israeliano. Viene quindi abbandonata l’idea di formare due stati quello israeliano e quello palestinese in Cisgiordania con la nascita di una capitale condivisa a Gerusalemme.

La Cisgiordania, insieme alla striscia di Gaza fa parte dei territori palestinesi, e viene occupata dalla popolazione israeliana nel 1967 con la guerra dei sei giorni, ad oggi la sua annessione allo Stato di Israele fa parte degli obiettivi del programma politico del nuovo governo.

Gli alleati di Netanyahu, rispetto all’annessione della Cisgiordania, hanno chiesto dei provvedimenti per aumentare lo spazio di manovra sull’uso della forza contro i palestinesi così da riuscire ad espandere le colonie israeliane in quell’area geografica. La costruzione di nuove zone militari oltre a creare problemi al popolo palestinese incontra anche il divieto già espresso da parte delle Nazioni Unite.

Il conflitto arabo – israeliano iniziato nel 1948, non è ancora terminato, considerato come uno dei conflitti più lunghi della storia. Il livello di violenza tra Israele e Palestina nel corso di tutti questi anni non ha registrato alcuna diminuzione. In Cisgiordania, il 2022 è stato l’anno in cui si sono registrate più morti dal 2006, 171 sono i palestinesi uccisi nella regione e 9.000 sono i feriti, secondo quanto riportato dal giornale Al Jazeera.

Con l’inizio del 2023 i dati non sono migliori, nel giro di poche settimane le vittime salgono da tredici a diciotto con l’uccisione del palestinese Tariq Maali, 42 anni ucciso nella città di Ramallah. Secondo i filmati delle telecamere di sorveglianza dell’esercito israeliano l’individuo, Tariq Maali, avrebbe superato il cancello d’ingresso della fattoria ebraica di Sde Efraim con l’intento di accoltellare un colono israeliano, motivo per cui è «stato neutralizzato».

Gli Stati Uniti restituiscono all’Italia oltre 60 reperti archeologici

L’Affresco di Ercolano, originario della stessa città di Ercolano, distrutta insieme a Pompei nel 79 d.C., è tornato in Italia lunedì 23 gennaio insieme ad altre 59 reperti trafficati illegalmente negli Stati Uniti, e presentati durante una conferenza stampa a Roma.

Alcune delle opere risalgono addirittura al I secolo a.c.. Tra i reperti più preziosi anche una kylix etrusca in terracotta, busti in bronzo, vasi antichi e utensili da cucina. Stando a quanto riportato da ABC News, il valore complessivo delle opere è di 20 milioni di dollari (18 milioni di euro).

Il comandante dei carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, Vincenzo Molinese, ha dichiarato: «Si tratta di opere depredate dal nostro Paese per mani di trafficanti senza scrupoli, opere che finiscono poi nelle mani di intermediari internazionali prima di essere vendute». Ha poi sottolineato l’importanza di queste opere, soprattutto per il grande valore storico e culturale per l’Italia.

Tra i presenti alla conferenza stampa anche il vice procuratore del District Attorney’s Office di Manhattan, Matthew Bogdanos, che ha raccontato di aver lavorato congiuntamente con le autorità italiane. «Solo per i beni italiani abbiamo eseguito 75 raid, recuperando più di 500 opere inestimabili, per un valore di oltre 55 milioni di dollari», ha affermato Bogdanos.

Stando al The Guardian, l’Italia ha chiesto più volte la restituzione dell’Affresco di Ercolano, la prima volta nel 1997. Si pensa che l’affresco sia stato depredato dai tombaroli, uomini che hanno fatto fortuna scavando nei siti archeologici italiani rubando reperti da rivendere poi ai trafficanti d’arte.

Il Museo dell’Arte Salvata di Roma è stato scelto per l’esposizione di alcuni dei pezzi restituiti dagli Stati Uniti, altri invece saranno esibiti in musei vicini. Tuttavia, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha dichiarato ai giornalisti l’eventualità di una mostra speciale dedicata interamente alle reliquie rimpatriate.

Sparatoria a Monterey Park: identificato un sospettato

La sparatoria ha avuto luogo durante il Capodanno lunare, sabato 21 gennaio, nella città di Monterey Park, nella contea di Los Angeles, in California. Sono rimaste ferite 9 persone, 11 invece hanno perso la vita. Il sospettato, Huu Can Tran, 72enne di origine asiatiche, è stato trovato morto in un furgone bianco a seguito di una ferita da arma da fuoco autoinflitta.

La sparatoria di massa è iniziata intorno alle 22:22 di sabato, come riportato dalla BBC, presso lo Star Ballroom Dance Studio, una famosa sala da ballo, dove l’uomo ha sparato più colpi contro i clienti prima di scappare. Tra le numerose testimonianze, Seung Won Choi, proprietario di un ristorante vicino al luogo della sparatoria, ha detto al Los Angeles Times che tre persone allarmate sono corse dentro il suo locale chiedendo di bloccare la porta.

Il giorno seguente le autorità hanno setacciato per ore l’area di Los Angeles alla ricerca dell’artefice della sparatoria. Circa 12 ore dopo la tragedia, una squadra SWAT ha accerchiato un furgone bianco in un parcheggio non troppo lontano dal luogo della carneficina.

Lo sceriffo della contea di Los Angeles, Robert Luna, ha dichiarato di aver sentito un solo colpo proveniente dal furgone mentre si avvicinavano, trovando poi il sospettato accasciato sul volante. Le prove, inclusa una pistola, sono state recuperate e l’uomo è stato identificato come il colpevole dell’attacco. Si sostiene che l’uomo abbia agito da solo, tuttavia il movente non è ancora chiaro.

Per ora si ritiene che l’arma utilizzata sia una pistola d’assalto semiautomatica con un caricatore esteso. Luna ha però aggiunto che le indagini sono ancora in corso.

La comunità di Monterey Park è in lutto, le celebrazioni del Capodanno lunare sono state annullate e le strade sono sgombrate dalle decorazioni che adornavano la cittadina.

Stati Uniti e Cuba: riparte il dialogo

Cuba e gli Stati Uniti si stanno avviando verso un nuovo riavvicinamento, ma l’esito è ancora incerto.

Dopo due anni alla Casa Bianca, l’amministrazione Biden si appresta a gettare le basi per un rapporto più pragmatico con L’Avana, con dialoghi tra i due governi e il ridimensionamento delle misure draconiane decretate dal suo predecessore, Donald Trump.

L’ultimo di questi colloqui si è tenuto alcuni giorni fa a L’Avana e ha visto la partecipazione di funzionari di alto livello del Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, la Guardia Costiera e le autorità dell’FBI, insieme alle loro controparti cubane.

Lo scopo era quello di valutare la possibilità di un’eventuale collaborazione nella lotta congiunta contro il terrorismo, il traffico di droga, la criminalità organizzata e il transito di migranti, oltre ad altri temi.

Secondo quanto riporta EL PAÍS, sembra dunque sopraggiungere un nuovo momento di leggero “disgelo”, con alcuni segnali che mostrano la possibilità di un rapporto bilaterale civile e gesti di normalizzazione che il governo cubano considera positivi, anche se insufficienti.

Negli ultimi mesi si sono tenuti anche colloqui sulle questioni migratorie, con risultati concreti. La sede del consolato statunitense a L’Avana, che Trump aveva chiuso, è stata riaperta e Washington tornerà a concedere un minimo di 20.000 visti per immigrati all’anno

L’ultimo anno fiscale conta 224.000 cubani entrati irregolarmente negli Stati Uniti attraverso il confine con il Messico e più di 6.000 clandestini sono stati intercettati in mare dalle navi della Guardia Costiera statunitense. Lo scorso settembre, si è tenuta a L’Avana una “riunione tecnica” tra le truppe di frontiera cubane e la Guardia Costiera statunitense, per aumentare la cooperazione bilaterale nella lotta all’immigrazione irregolare.

Come riferisce il quotidiano spagnolo, secondo quanto afferma William LeoGrande, autore di Back Channel to Cuba, tra le misure più importanti annunciate finora dall’amministrazione Biden c’è la normalizzazione dell’immigrazione, che permette ai cubani di avere un modo sicuro e legale per entrare negli Stati Uniti, invece di rischiare la vita in mare o di pagare migliaia di dollari ai trafficanti per essere portati alla frontiera meridionale degli Stati Uniti.

«Due sole mosse da parte di ciascun governo consentirebbero di ridefinire le relazioni bilaterali in modo sostanziale. Per quanto riguarda L’Avana, il governo dovrebbe rilasciare i prigionieri politici e garantire gli investimenti stranieri nel settore privato cubano. Da parte di Biden, la sua amministrazione dovrebbe rimuovere Cuba dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo e autorizzare gli investimenti diretti nel settore privato cubano. Queste misure non risolverebbero tutti i problemi tra i due Paesi, ma rappresenterebbero una vittoria per i diritti umani, ridefinirebbero lo scenario politico e riporterebbero sulla buona strada le relazioni economiche tra i due Paesi», sostiene Ricardo Herrero, direttore esecutivo del Cuba Study Group.

Afghanistan: le donne di Kabul senza volto

Il governo Talebano, insediato il 15 agosto in Afghanistan, nell’arco di un anno ha compromesso i diritti fondamentali dell’uomo che invece di essere tutelati sembrano non trovare spazio nella società afghana. La decisione da parte del governo di smantellare le istituzioni impedisce la tutela e la protezione dei diritti umani, della libertà di espressione e del diritto all’equo processo. Nel mese di dicembre il governo di Kabul aveva vietato temporaneamente l’accesso alla scuola secondaria per le donne, creando già una serie di problemi per quanto riguarda il diritto all’istruzione. Ora la decisione del governo è nei confronti dell’istruzione superiore vietando l’acceso all’Università a tutte le donne afghane, togliendo loro la possibilità di avere un lavoro. La società afghana non rimane indifferente davanti ai provvedimenti del governo talebano. Sono mesi di agitazione nella capitale dell’Afghanistan dove le donne scendono in piazza per manifestare pacificamente per la rivendicazione dei loro diritti, ma le loro voci non vengono ascoltate e le manifestazioni si concludono in maniera turbolenta. Secondo Amnesty, migliaia di persone sono state arrestate, torturate, rapite e uccise. Il regime afghano per motivare gli arresti e la soppressione delle manifestazioni, dichiara di aver vietato l’università e l’accesso alle istituzioni per «il mancato rispetto delle regole di abbigliamento», secondo quanto riportato da euronews. Per le donne nella società afghana sembra non esserci posto, perché il diritto all’istruzione non è la sola cosa di cui vengono private. La limitazione dei loro diritti è presente anche nella decisione del governo di rimuovere le immagini femminili dai cartelloni pubblicitari e dalle vetrine della capitale. I volti censurati e incappucciati delle vetrine sembrano voler far dimenticare i volti delle donne allontanandole dagli occhi del pubblico. Vetrine contenenti manichini senza volto non sono piacevoli da guardare, creando malinconia anche nello stato d’animo dei passanti. I negozianti nell’allestimento delle loro stesse vetrine riscontrano delle difficoltà, ma pur di non piegarsi alle volontà del regime trovano delle soluzioni adeguate, cosicché, se i passanti non possono vedere la bellezza della donna, possano almeno immaginarla. Nella strada commerciale borghese, nella parte settentrionale di Kabul, Lycee Maryam Street, le teste dei manichini vengono ricoperte con colori accattivanti grazie a tessuti, stoffe e copricapi. Fogli di alluminio e sacchi fatti degli stessi materiali degli abiti tradizionali rendono vive le vetrine della strada, cercando di camuffare una realtà fin troppo triste.

Relazioni USA – Giappone: Kishida incontra Biden

La cooperazione tra il Giappone e gli Stati Uniti raggiunge i massimi storici con la volontà di stipulare nuovi accordi per garantire la stabilità nell’area Indo-Pacifica e contenere l’espansione cinese. La nuova strategia giapponese a livello internazionale continua a trovare punti di contatto nelle democrazie occidentali. Durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, Fumio Kishida primo ministro giapponese incontra il presidente statunitense Joe Biden. Il summit tra Tokyo e Washington viene denominato «due più due» per la presenza del Segretario di Stato americano Antony Blinken, del Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin, del Ministro degli Esteri giapponese Yoshimasa Hayashi e del Ministro della Difesa giapponese Yasukazu Hamada. L’incontro è stato incentrato sulla difesa giapponese con lo stanziamento da parte del governo di Tokyo di 211,3 miliardi di yen (1,65 miliardi di dollari) nel bilancio 2023 per l’acquisto di missili da crociera Tomahawk a lungo raggio di fabbricazione statunitense. Le delegazioni hanno discusso anche di tecnologie emergenti, di sicurezza energetica, di tutela delle barriere commerciali, per implementare la cooperazione economica. L’accordo, per gli Sati Uniti, rappresenta l’ampliamento della loro strategia per arginare l’ascesa geopolitica della Cina nell’area Indo-Pacifica, mentre, per il Giappone fa parte della nuova politica di rafforzamento della propria difesa così da poter reagire a qualsiasi minaccia. La Cina, commentando gli sviluppi dei rapporti tra Stati Uniti e Giappone, ha sollevato preoccupazioni poiché vede in questi l’intento di trasformare l’area Indo-Pacifica in un «terreno di lotta» geopolitico, come riportato dal giornale cinese South China Morning Post. Nel contesto internazionale l’area Indo–Pacifica è importante per la presenza dell’Isola di Taiwan, punto nevralgico a livello geopolitico. La riunificazione dell’isola di Taiwan per la Cina rientra nel progetto politico di «una sola Cina» da perseguire entro il 2049 in occasione dei cento anni della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La «questione taiwanese» crea tensione nei rapporti politici tra la Cina e i territori circostanti, tra cui il Giappone e gli Stati Uniti. L’avvicinamento tra Tokyo e Washington comporta anche il rafforzamento del sostegno della Repubblica di Cina (Taiwan) e questo costituisce un altro aspetto critico per Pechino. Secondo quanto riporta il giornale cinese Kyodonews, Biden e Kishida dopo il vertice Giappone-USA riguardo a Taiwan hanno dichiarato «Sottolineiamo che le nostre posizioni di base su Taiwan rimangono invariate» aggiungendo «incoraggiamo la risoluzione pacifica delle questioni dello Stretto». Le relazioni tra i due leader sembrano abbastanza forti da permettere la stabilità dell’area Indo-Pacifica.

Lima in fiamme: più di 50 morti causati dalle proteste contro la presidente Dina Boluarte

Le proteste contro la presidente del Perù, Dina Boluarte, hanno raggiunto Lima nelle prime ore di giovedì 19 gennaio, dopo un mese e mezzo di disordini sociali nel resto del Paese che hanno causato più di 50 morti.

La crisi è iniziata lo scorso 7 dicembre, quando l’ex presidente Pedro Castillo ha tentato un autogolpe, sciogliendo il Congresso.

I manifestanti chiedono nuove elezioni, le dimissioni di Boluarte, una modifica della Costituzione e il rilascio di Castillo, che si trova in custodia cautelare.

L’ex presidente Castillo è nato nelle zone rurali del Perù e si è presentato come un uomo del popolo. Molti dei suoi sostenitori vengono dalle regioni più povere e sperano che Castillo possa offrire migliori prospettive alla popolazione rurale e indigena del Paese.

La protesta antigovernativa è sfociata in pesanti scontri con le forze dell’ordine, che si sono schierate con scudi antisommossa per bloccare l’accesso alle piazze principali dove si trovano gli edifici governativi. Secondo il generale Victor Sanabria, capo della polizia nazionale nella regione di Lima, circa 11.800 poliziotti vigilavano sulla città già dalla giornata di giovedì 19.

I manifestanti, provenienti soprattutto dal sud del Paese, hanno trascorso la notte di mercoledì 18 gennaio in alcuni campus universitari per poi marciare verso il centro della capitale con lo slogan “la presa di Lima”.

Durante la marcia verso il centro di Lima, due morti sono stati segnalati lontano dalla capitale, uno ad Arequipa, capitale della stessa provincia, e un altro a Macusani, nel sud del Paese. Queste morti fanno salire il bilancio a 55 decessi dall’inizio delle proteste.

Il ministro della Difesa peruviano, Jorge Chávez, ha denunciato giovedì 19 l’incendio di una sede giudiziaria e di una stazione di polizia avvenuto mercoledì a Macusani, nella regione di Puno, nel sud-est del Perù, ad opera dei manifestanti.

«Quelli che marciano ogni giorno, da chi sono finanziati? Vogliono generare caos e disordine per prendere il potere della nazione. E si sbagliano. Dal governo diciamo loro che la situazione è sotto controllo perché agiremo applicando appieno il potere della legge», ha assicurato la presidente del Perù, riferisce EL PAÍS.

Secondo quanto riportato da CNN, la sera di giovedì 19 gennaio, la presidente Dina Boluarte ha lanciato un messaggio alla nazione in cui ha invitato nuovamente al dialogo, «ancora una volta invito al dialogo e alla calma i leader politici che invocano queste marce di protesta, ad avere uno sguardo più autentico, più obiettivo, più unito nei confronti del Paese, e a colloquiare e lavorare per riportare la calma, la pace, l’unità e lo sviluppo della patria» ha dichiarato.

«La legge sarà applicata senza riserve a coloro che stanno commettendo questi atti violenti, che non lasceremo impuniti», ha aggiunto la presidente.

Accordo Arabia Saudita – Word Economic Forum: verso un villaggio globale

L’Arabia Saudita punta a un maggiore sviluppo economico grazie all’accordo tra la Città della Scienza e della Tecnica Re Abdulaziz e il Word Economic Forum (WEF).

 All’incontro annuale del Forum Economico Mondiale 2023 a Denvos, Svizzera, la delegazione saudita formata dal  Ministro degli Esteri il principe Faisal bin Farhan, la Principessa Reema bint Bandar ambasciatrice saudita presso gli Stati Uniti, il Ministro delle Comunicazioni e dell’Informatica Abdullah Al-Swaha, il Ministro dell’Industria e delle Risorse Minerali Bandar Al-Khorayef e Ministro dell’Economia e della Pianificazione Faisal Al-Ibrahim, incontra Klaus Schwab, Fondatore e Presidente Esecutivo del WEF e Borge Brende, Presidente del WEF, per disciplinare le aree di interesse economico e l’azioni da attuare per uno sviluppo del Regno.

L’accordo stabilisce una collaborazione per cercare di sbloccare nuovi mercati che permettano al Regno dell’Arabia Saudita una proiezione internazionale.

Stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa saudita Spa, L’Arabia Saudita ha sottolineato l’impegno dei partner della ARAMACO, principale azienda nel settore privato, nello sfruttare il metaverso nella costruzione di un villaggio globale, che si occupi di annientare la distanza tra le stakeholder nazionali e le entità internazionali. Il Global Collaboration Village renderà così la comunicazione tra le aziende nazionali e quelle estere efficace e veloce.

Durante l’incontro, sono state affrontate anche altre tematiche come quella ambientale, discutendo di possibili investimenti sulle tecnologie verdi, così da rafforzare le infrastrutture sostenibili per settori culturali e turistici. L’Arabia Saudita diventerà così una meta turistica di primo piano su scala globale.  

L’impegno del Regno Saudita verso lo sviluppo economico si evince dalla decisione di Muhammad ben Salman, principe ereditario del Regno, di creare un Fondo di investimenti (Events Investment Fund, Eif). Il Fondo, secondo quanto riportato dalla Spa, «si concentrerà sullo sviluppo e sull’aumento, entro il 2045, delle opportunità di investimento estero diretto per un contributo di circa 8 miliardi di dollari al prodotto interno lordo dell’Arabia Saudita».

Palermo, arrestato Matteo Messina Denaro, il capomafia più ricercato d’Italia

Matteo Messina Denaro, il boss mafioso più ricercato d’Italia, l’ultimo grande capo di Cosa Nostra, è stato arrestato in una clinica privata di Palermo, dove era in cura da un anno. Il mafioso sessantenne, in fuga dalla giustizia da 30 anni, era considerato l’anello mancante della vecchia organizzazione che negli anni ’80 aveva seminato il caos in tutto il Paese e commesso molteplici attentati.

La leggenda sui grandi capi di Cosa Nostra in fuga dice che, il giorno in cui verranno ritrovati, sarà vicino a casa. È stato proprio così per Messina Denaro. Nonostante fosse ricercato dal 1993, ha continuato a vivere a soli 9 chilometri dalla sua casa di Castelvetrano (Trapani), a Campobello di Mazara. È riuscito a condurre una vita apparentemente normale, sebbene fosse in fuga da svariati anni.

Il mafioso era registrato alla clinica sotto il falso nome di Andrea Bonafede. Secondo quanto riportato da EL PAÍS, non ha opposto resistenza, come hanno poi spiegato i carabinieri.

«Sì, sono Matteo Messina Denaro», ha risposto agli agenti quando gli hanno chiesto il suo nome. Dopo l’arresto, insieme a un autista che lo accompagnava, è stato portato all’aeroporto militare di Boccadifalco (Palermo) e condotto in una località segreta.

Al momento dell’arresto, la gente in strada ha iniziato a festeggiare. Lo stesso senso di sollievo ha attraversato l’Italia. La storia di questo sanguinario fuggitivo era una ferita aperta per tutto il Paese. Un fallimento dello Stato e una tortura per le vittime e le loro famiglie. Il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, il cui fratello è stato ucciso da Cosa Nostra, è stato tra i primi a festeggiare la notizia.

La presidente del consiglio, Giorgia Meloni, è volata a Palermo e ha subito commentato gli eventi. Qualsiasi governante italiano avrebbe voluto poterlo fare durante il suo mandato. «Questa è una grande vittoria per lo Stato, che dimostra che non dobbiamo arrenderci alla mafia», ha dichiarato la presidente Meloni.

Secondo quanto riportato da LeMonde, Matteo Messina Denaro, allora trentenne, aveva partecipato all’organizzazione degli attentati del 1992 contro i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per i quali era stato condannato all’ergastolo nel 2020. È noto anche il suo coinvolgimento negli attentati che hanno ucciso una dozzina di persone a Firenze, Roma e Milano nel 1993. Eppure, il boss mafioso era riuscito a trascorrere tre decenni nell’ombra.

«Quest’uomo ha compiuto uno dei peggiori crimini della storia italiana. È il depositario dei più grandi segreti di Cosa Nostra», ha affermato Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo, come riportato dal quotidiano francese. La sua testimonianza avrebbe fatto luce su episodi cruciali della storia della mafia e dell’Italia.

Questo arresto registra una grande vittoria per lo Stato e chiude un capitolo della storia della criminalità organizzata siciliana e un intero ciclo della storia italiana.

Stati Uniti contro TikTok: nuove restrizioni per l’app cinese

0

Secondo un’analisi condotta dalla CNN, la politica USA nei confronti di TikTok diventa sempre più restrittiva. Buona parte degli stati americani ha vietato parzialmente o completamente l’uso della nota app cinese dai dispositivi governativi.

Il nuovo provvedimento è stato preso in seguito ai ripetuti problemi legati alla sicurezza dei dati degli utenti americani, TikTok infatti conta solo negli Stati Uniti 100 milioni di utenti. Ad oggi sono 31 gli stati che hanno limitato l’uso dell’app sui dispositivi governativi e 9 di questi, come Virginia ed Ohio, hanno deciso di estendere il divieto anche ad altre applicazioni cinesi, tra cui WeChat.

Già alla fine del 2022, una ventina di governatori e rappresentanti di istituzioni statali hanno imposto misure restrittive sull’utilizzo di TikTok nei propri stati. Nel dicembre 2022, il presidente Joe Biden ha vietato l’uso dell’app da parte di 4 milioni di dipendenti governativi, come riportato da NBC News.

Da tempo, i funzionari governativi americani accusano TikTok di essere un rischio per la sicurezza nazionale, sostenendo che il governo cinese potrebbe richiedere i dati degli utenti americani alla società madre, ByteDance

Nonostante non ci sono siano prove a riguardo, sempre a dicembre 2022, la compagnia cinese ha confermato il licenziamento di quattro dipendenti che si erano appropriati dei dati di due giornalisti statunitensi tramite l’app.

Dal 2020, TikTok sta negoziando un potenziale accordo con il governo statunitense per fronteggiare i problemi di sicurezza nazionale e consentire agli utenti americani di continuare ad utilizzare l’app. TikTok ha inoltre adottato misure per separare i dati degli utenti statunitensi dal resto dell’attività della società.

Un portavoce di TikTok ha espresso il suo dispiacere per le nuove limitazioni: «È un peccato che tante agenzie statali, uffici e università presenti su TikTok in quegli stati non saranno più in grado di usarlo per costruire comunità e connettersi con gli elettori».

Attualmente, un piano per risolvere i problemi di sicurezza nazionale è in fase di studio da parte delle autorità governative.

Brasilia: attacco alla democrazia

Domenica 8 gennaio ha avuto luogo un assalto alle principali istituzioni del Brasile: la sede del Congresso, della Corte Suprema e della Presidenza. Una folla di estremisti, sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro, ha invaso con la forza i tre rami del potere, creando scompiglio e compiendo atti vandalici. Il presidente Lula ha additato, senza nominarlo, Bolsonaro come responsabile degli eventi, per aver istigato il rifiuto del risultato elettorale e incoraggiato un clima di intolleranza prima dell’inaugurazione del nuovo governo.

La polizia è riuscita a riprendere il controllo dei tre organi di governo dopo ore di caos che hanno lasciato non solo una scia di distruzione, ma anche una profonda frattura nella democrazia brasiliana.

Secondo quanto riportato da EL PAÍS, solo dopo il fallimento dell’assalto l’ex presidente ha affermato che «l’invasione di edifici pubblici costituisce un’inosservanza alle regole», per poi respingere le accuse che lo coinvolgevano nell’attentato.

Come riporta la CNN, la Procura Generale del Brasile ha chiesto al Tribunale Supremo Federale di includere l’ex presidente Jair Bolsonaro nell’indagine sui mandanti dell’attacco. Per la Procura, il fatto che Bolsonaro abbia pubblicato il 10 gennaio un video in cui metteva in dubbio la validità delle elezioni presidenziali «rappresenta un’istigazione pubblica alla pratica di un reato».

Nonostante il tentativo di assalto, il presidente del Brasile vuole che le conseguenze dell’attacco da parte dei sostenitori di Bolsonaro ai poteri istituzionali non distraggano il suo governo dalla missione affidatagli dagli elettori.

Come riportato dal quotidiano spagnolo, Lula ha trascorso la giornata di martedì 10 gennaio con diversi ministri presso la sede presidenziale, dove i danni sono ancora evidenti. «Buona giornata. Al lavoro nel palazzo del Planalto», ha twittato il presidente, che intende dedicarsi a pieno ritmo all’elaborazione di misure per la ricostruzione del Paese.

Il messaggio che il Presidente ha voluto lanciare è «torniamo al lavoro, questo governo ha un compito enorme davanti a sé. Oltre alla crisi istituzionale causata dall’aggressione, ci sono altre questioni urgenti per milioni di brasiliani: la fame, la miseria, la disoccupazione», secondo quanto riportato dal quotidiano madrileno. Lula vuole che il suo governo non sia ossessionato dalle difficoltà che si profilano all’orizzonte e che si concentri sul raggiungimento di risultati tangibili il prima possibile.

Guerra in Ucraina: granata inesplosa nel petto di un giovane

Stando a quanto riportato dal The Guardian, un giovane soldato di 28 anni è stato operato all’inizio del mese di gennaio a causa di una bomba inesplosa nel petto, riferiscono le autorità di Kiev.

La viceministra della difesa Hanna Maliar, tramite un post Facebook pubblicato il 9 gennaio, ha comunicato che la difficile operazione è stata condotta dal personale medico, tra cui uno dei chirurghi militari più esperti delle forze armate, Andrii Verba, oltre che sotto l’occhio di due genieri, o ingegneri militari, che hanno assicurato che questa avvenisse nel modo più sicuro possibile. Le foto condivise dalla viceministra mostrano un’immagine dall’esame radiologico del soldato, dove è più che evidente la presenza di un corpo estraneo vicino il cuore e Andrii Verba con l’ordigno inesploso tra le mani.

I medici temevano che la granata potesse esplodere in qualsiasi momento durante l’operazione, per questo l’intervento è stato condotto senza elettrocoagulazione, un trattamento medico che controlla l’emorragia utilizzando l’elettricità.

«L’operazione è stata eseguita da uno dei chirurghi più esperti delle forze armate ucraine, Andrii Verba, senza elettrocoagulazione, poiché la granata sarebbe potuta esplodere in qualsiasi momento» ha detto Maliar nel suo post.

Anton Gerashchenko, Consigliere del Ministro degli Interni ucraino, ha scritto in un aggiornamento su Telegram giovedì 9 gennaio: «La parte inesplosa della granata è stata prelevata da sotto il cuore. La granata non è esplosa, ma è rimasta esplosiva».

In un comunicato stampa, il Consigliere ha anche informato che il soldato ventottenne è stato inviato in una clinica specializzata per la riabilitazione.

Non sono state invece fornite informazioni sul luogo dell’operazione né su come il soldato sia rimasto ferito.

Meta inciampa di nuovo sui dati degli utenti: multa da 390 milioni dall’Europa

0

Instagram e Facebook, i due colossi dei social controllati da Meta, avrebbero violato il regolamento generale sulla protezione dei dati degli utenti (GDPR). I due social avrebbero infatti raccolto i dati personali degli utenti per sviluppare pubblicità personalizzate in base ai gusti di questi ultimi.

Secondo quanto riporta la BBC, alle due compagnie di Meta viene inoltre contestata una pratica scorretta consistente nel forzare gli utenti ad accettare le condizioni di condivisione di una parte dei loro dati con la piattaforma social in questione per poter usufruire delle funzioni offerte. In caso di rifiuto, l’utente non sarebbe stato in grado di utilizzare la piattaforma.

Per queste ragioni, le autorità dell’Irlanda, paese dove si trovano le sedi europee di Meta, hanno comminato due multe per le violazioni dei regolamenti europei. La somma totale delle sanzioni ammonta a 390 milioni di euro e si concedono a Meta 3 mesi per poter correggere la sua condotta per quanto riguarda il trattamento dei dati degli utenti. Non è la prima volta che le società di Zuckerberg vengono sanzionate dalla Ue, le varie sanzioni sono iniziate dal 2018, anno di entrata in vigore del GDPR in Europa.

Nella sua risposta, Meta si dice delusa dalle decisioni intraprese e afferma che il contenuto personalizzato, incluse anche le pubblicità, saranno sempre una parte integrante dei loro social. La multinazionale avrebbe inoltre stanziato 2 miliardi di euro per far fronte alle possibili sanzioni europee per l’anno 2023.

Va ricordato che le grandi compagnie come Meta ricevono i loro ricavi più sostanziosi proprio dalle pubblicità: nel 2021 Meta ha guadagnato ben 118 miliardi di dollari solamente dal cosiddetto advertising.

Natale ortodosso senza tregua: in Ucraina infuriano i combattimenti

Nei giorni precedenti il patriarca di tutte le Russie, Kirill, aveva incoraggiato una tregua nei combattimenti in occasione del natale ortodosso, che cade il 7 gennaio. La proposta è stata accolta e rilanciata dal presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, che ha ordinato al ministro della difesa Shoigu di preparare il cessate il fuoco dalle 12:00 (ora di Mosca) del 6 gennaio e per le 36 ore successive.

Nonostante le proposte delle autorità russe, da Kiev il rifiuto è stato immediato e netto, con il presidente ucraino Zelensky che ha messo tutti in guardia dalla presunta tregua, sostenendo che si tratti di uno stratagemma del Cremlino per riorganizzare le proprie truppe in vista degli scontri dei prossimi giorni, riposta la BBC. Kiev avrebbe inoltre rincarato la dose sottolineando che una tregua sarebbe stata possibile solamente se le truppe russe si fossero ritirate dal paese.

La tregua unilaterale annunciata dal Cremlino è stata violata quasi immediatamente con nuovi bombardamenti sulle città ucraine di Kherson e di Kramatorsk e contemporaneamente anche sulla capitale dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, come riporta l’emittente russa RIAnovosti. A seguito dei bombardamenti, le due parti si sono scambiate accuse reciproche in merito a chi avrebbe violato per primo la tregua.

Nel pomeriggio del 6 gennaio i combattimenti sarebbero inoltre continuati nell’attuale punto più caldo della guerra: Bakhmut. I mercenari russi della compagnia Wagner avrebbero infatti reclamato la cattura di alcune aree attorno alla città, teatro di feroci scontri da alcuni mesi e distrutta ormai per il 60% secondo diverse fonti ucraine.

Anche il giorno 7 gennaio, data in cui cadono i festeggiamenti per il Natale ortodosso, è stato un giorno di guerra come tutti gli altri: lo spiraglio di dialogo in occasione delle celebrazioni religiose è svanito nonostante l’importanza della festa per i credenti di entrambi i paesi.

Viaggiatori dalla Cina: ora l’Europa corre ai ripari

Dopo aver inizialmente sminuito l’allarme delle autorità italiane, ora molti paesi europei stanno cominciando a riconsiderare il loro approccio per quanto riguarda i viaggiatori provenienti dalla Cina prevedendo misure più stringenti per chi arriva e per chi si mette in viaggio.

A seguito dell’abbandono della politica “zero covid”, la Cina si ritrova a dover fronteggiare un’ondata di nuovi casi mai vista che secondo molti tabloid internazionali avrebbe riempito gli ospedali del paese asiatico in pochi giorni. Nonostante gli inviti della comunità internazionale a fornire numeri in tempo reale sui contagi, la Cina continua a non condividere dati esaustivi sulla situazione, che probabilmente include diversi milioni di casi attivi.

Come riporta la BBC, il meccanismo europeo per la risposta politica alle crisi (IPCR) ha consigliato a tutti i passeggeri provenienti dalla Cina di indossare le mascherine e alle autorità dei paesi europei di effettuare tamponi agli arrivi, oltre che applicare una maggiore cautela per quanto riguarda la gestione delle acque reflue negli aeroporti.

Dopo l’Italia, ora anche la Francia e la Spagna effettueranno tamponi nei loro aeroporti. Tentenna ancora la Germania, che posticipa le misure più concrete limitandosi a monitorare i dati forniti da Pechino. Intanto la commissione europea e i suoi organi preposti alla gestione delle politiche sulla salute studiano le prossime mosse da consigliare ai paesi membri: fra queste la più gettonata sarebbe proprio quella di imporre tamponi negativi prima della partenza dalla Cina.

A seguito delle varie dichiarazioni dei paesi europei sulla questione, arriva la reazione piccata di Pechino, che trova ingiustificate ed eccessive le misure adottate da diversi paesi europei, promettendo ritorsioni adeguate. Nella sua risposta alle autorità cinesi, la Ue spiega che le proprie azioni sono basate su chiare evidenze scientifiche e sullo sviluppo attuale della pandemia in Cina.

La commissione europea si riunirà a metà gennaio per discutere le posizioni dei vari paesi sulla situazione, mentre molti esperti avvertono che il pericolo dell’insorgenza di nuove varianti è sempre dietro l’angolo, soprattutto a causa delle informazioni frammentarie fornite da Pechino in merito alle varianti registrate.

Svezia: il governo autorizza la prima caccia al lupo dopo anni di salvaguardia

Nei prossimi giorni i cacciatori svedesi potranno andare a caccia nelle grandi foreste svedesi e potranno abbattere fino a 75 lupi su una popolazione totale di 460 esemplari di un animale che fino a pochi anni fa era considerato a rischio di scomparsa.

Il governo di Stoccolma ha approvato il piano di caccia, e come riportato dal The Guardian, la motivazione principale secondo Anna-Caren Sätherberg, ministro degli affari rurali, sarebbe la veloce crescita numerica dei branchi avvenuta durante gli anni in cui la loro caccia era bandita. In aggiunta vi sarebbe anche una minore tolleranza dei lupi da parte delle comunità locali. Il parlamento svedese starebbe inoltre pensando di modificare la popolazione dei lupi ancora di più, riducendola a circa 300 unità.

Intanto la caccia è partita da lunedì, quando 200 cacciatori si sono inoltrati nelle foreste nella parte centrale del paese tra Gävleborg e Dalarna. Nonostante siano riusciti a trovare le tane dei predatori, la prima battuta di caccia si è rivelata inconcludente e nessun lupo sarebbe stato ucciso. Seguiranno altre battute di caccia in tutto il paese nelle prossime settimane.

I comitati per la salvaguardia della fauna selvatica e le associazioni anti-caccia hanno palesato la loro indignazione per la decisione presa dal governo, sostenendo che vi sarebbe stata una pressione politica da parte delle associazioni di cacciatori, note per essere piuttosto influenti in Svezia.

Benny Gäfwert, esperto di predatori del WWF ha spiegato che la decisione di abbattere i lupi non trova alcun fondamento scientifico in questo momento, rammentando che la non indifferente riduzione del numero degli esemplari potrebbe intaccare la varietà genetica dei branchi, rendendoli più fragili e avvicinandoli così alla scomparsa. Sempre secondo le associazioni anti-caccia, la drastica riduzione del numero di lupi influenzerà inevitabilmente anche la catena alimentare con la possibilità di creare problemi ad altre specie.

A cercare di dissuadere il parlamento svedese dall’abbattimento di un numero ancora più alto di esemplari vi sono le normative europee per la salvaguardia della biodiversità che prevedono sanzioni molto dure per le violazioni delle sue norme.

Africa, la corsa allo spazio tra sfide e potenzialità

0

In Africa la corsa allo spazio è inserita tra le priorità dell’Agenda 2063 per lo sviluppo del continente, come stabilito dall’Unione africana (UA). L’organizzazione, nata nel 1963 ad Addis Abeba, prevede che il “continente del futuro” raggiungerà livelli di progresso economico, sociale e politico pari alle potenze mondiali entro il 2063, grazie anche alle potenzialità dell’industria spaziale africana.

Secondo l’African Space Industry Report del 2019 tale industria vale oltre 7 miliardi di dollari che potrebbero raggiungere i 10 miliardi nel 2024. La crescita del settore aerospaziale non aumenterebbe soltanto il PIL dei Paesi africani, ma avrebbe impatti enormi sulla vita dei cittadini come riportato da TV5Monde.

Come affermato da Sékou Ouédraogo, presidente dell’Organizzazione africana per l’aereonautica e lo spazio (AASO), non si tratta di compiere imprese simboliche come lo sbarco sulla Luna, ma di rendere utili gli strumenti spaziali per la vita di tutti i giorni. La tecnologia spaziale infatti potrebbe essere impiegata per migliorare le condizioni ambientali del continente e rendere più efficiente e accessibile il sistema di telecomunicazione.

Esempi lampanti si sono verificati in Sudafrica quando nel 2013 si è intervenuti contro le inondazioni grazie al sistema geo-satellitare e in Ghana nel 2017 per monitorare l’usura delle coste e delle specie marine. La stessa tecnologia può essere usata anche dall’industria della sicurezza, caso della Nigeria dove i satelliti costituiscono uno strumento importante nella lotta al terrorismo.

Tuttavia, la corsa allo spazio, è nata già un decennio prima di questi episodi. Il lancio dei satelliti Nilesat 101 in Egitto e Sunsat in Sudafrica – rispettivamente nel 1998 e nel 1999 – hanno visto il continente africano affacciarsi alla competizione spaziale.

La corsa allo spazio è avvenuta in ritardo rispetto alle altre potenze mondiali, prime tra tutte Stati Uniti, Russia e Cina, a causa della dominazione coloniale sul continente. Una volta raggiunta l’indipendenza, infatti, gli Stati africani non disponevano delle competenze e dei fondi necessari per investire in ricerca e sviluppo.

Nonostante la partecipazione ad alcuni programmi spaziali esteri, infatti, la mancanza di trasferimento di tecnologie da parte delle potenze europee o degli Stati Uniti ha relegato il continente in posizione secondaria. E attualmente esso è teatro della competizione spaziale delle grandi potenze, tra cui la Cina con un ruolo determinante.

La creazione di un’Agenzia spaziale africana, supportata dall’Unione africana, permetterà di superare gli ostacoli economici e strutturali nella corsa allo spazio. Nonostante esista già uno statuto, ratificato dalla maggior parte degli Stati membri dell’UA, la mancanza di fondi e di una strategia politica ben definita hanno determinato un rallentamento nella realizzazione del progetto.

L’Agenzia spaziale africana avrebbe dovuto essere operativa già nel 2022 presso Il Cairo, ma ad ora, a causa della recessione globale, il progetto è in stallo.

Contraerea ucraina intercettata in Bielorussia, convocato l’ambasciatore di Kiev

L’attacco missilistico delle forze russe del 29 dicembre è stato uno dei più massicci di sempre e ad essere colpiti sono stati diversi obiettivi su tutto il territorio ucraino, inclusi bersagli presenti nelle regioni del nord vicine alle repubblica di Bielorussia.

Proprio durante questo attacco, un missile di tipo S-300 (presente in grandi quantità negli arsenali delle varie repubbliche ex-sovietiche) è stato intercettato dalle difese aeree di Minsk, che lo hanno abbattuto nella regione di Brest, a 15km dal confine ucraino. I rottami del missile sono caduti in un campo senza arrecare danni a persone o cose. Si tratta della prima volta in cui la Bielorussia viene coinvolta in questo tipo di incidente dopo i casi analoghi di Moldavia e Polonia.

Come riporta l’agenzia bielorussa BelTa, l’addetto stampa del ministero degli esteri bielorusso Anatolij Glaz ha affermato che a seguito della vicenda le autorità hanno convocato l’ambasciatore ucraino Igor Kizim. Al diplomatico è stato presentato un reclamo formale per l’accaduto con la richiesta che venga fatta luce sulle dinamiche del lancio e sui suoi responsabili, in modo che l’accaduto non si ripeta.

Il ministero della difesa bielorusso ha comunicato che oltre all’ipotesi dell’incidente causato da un errore umano o un malfunzionamento, vi è anche la possibilità che il lancio sia stato in realtà una provocazione delle forze armate ucraine.

Come riporta la BBC, in risposta alla vicenda le autorità ucraine hanno proposto un’indagine con esperti internazionali che non supportino il governo di Mosca, aggiungendo che l’Ucraina si riserva il diritto incondizionato di proteggere il proprio spazio aereo.

A seguito dell’inizio dell’operazione militare di Mosca in Ucraina, le relazioni fra Minsk e Kiev si sono inevitabilmente inarcate a causa del dispiegamento di forze russe sul suolo bielorusso. Inoltre, all’inizio del conflitto, le forze russe sono passate attraverso i territori bielorussi per dar vita all’offensiva nel nord dell’Ucraina, cosa che agli occhi di molti stati ha reso la Bielorussia un diretto complice di Mosca nella sua “operazione speciale”.

Arrivi dalla Cina: no Ue ai controlli proposti dall’Italia

Nell’ultima settimana, circa la metà dei passeggeri sbarcati a Milano Malpensa e provenienti dalla Cina sono risultati positivi al tampone per il coronavirus, notizia che ha allarmato le autorità italiane che hanno proposto un piano di test obbligatori per tutti coloro che arrivano nell’area Schengen dal paese asiatico.

Ma la risposta di Bruxelles di giovedì ha bloccato la proposta italiana sul nascere, e, come riportato dal Financial Times, per il momento ogni paese agirà nella maniera ritenuta più adatta in base alle proprie politiche nazionali.

A frenare sulla proposta sono state Francia e Germania, cui hanno fatto seguito anche altri paesi europei, convinti che al momento la situazione risulti essere sotto controllo. La Commissione europea ha inoltre constatato il fatto che la variante più comune riscontrata nei passeggeri sia stata la omicron, già presente in Europa da molti mesi e coperta dai vaccini.

Il ministro della sanità francese ha invitato a fare attenzione ai numeri dei nuovi casi e di applicare politiche coerenti a livello europeo qualora ve ne fosse bisogno, aggiungendo che il numero dei viaggiatori provenienti dalla Cina è relativamente basso e rimarrà tale nelle prossime settimane. Il governo di Parigi punterà sull’informazione rendendo consapevoli i passeggeri sui possibili rischi durante i loro viaggi.

Da Bruxelles, il comitato per la sicurezza sanitaria ha accettato la linea di Berlino e Parigi, invitando quindi alla vigilanza senza l’obbligo di tamponi o quarantene, promettendo tuttavia di monitorare costantemente i dati sui contagi. Sarebbe inoltre già pronto un insieme di misure da adottare i maniera coordinata nel caso la situazione dovesse peggiorare.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche il Regno Unito, che per ora lascia invariate le sue regole sugli arrivi, rassicurando che la copertura vaccinale nel paese sia “superba” e capace di arginare la diffusione del virus da parte di chi arriva nel paese.

Gran Bretagna: gli scioperi dei mezzi bloccheranno l’isola anche dopo Natale

I sindacati dei ferrovieri delle varie regioni della Gran Bretagna si stanno organizzando per indire nuovi scioperi di alcuni giorni per protestare contro gli stipendi inadeguati a fronteggiare l’inflazione che sta colpendo tantissime categorie britanniche. Un altro obiettivo dei ferrovieri e degli addetti ai servizi di trasporto è di sottolineare l’importanza del loro lavoro che spesso viene dato per scontato.

Secondo quanto comunicato dalla BBC, nonostante lo sciopero ufficiale sia finito, molti treni sono rimasti fermi o hanno subito gravi ritardi anche a causa dei lavori di rinnovamento delle tratte in diverse regioni del paese.

I lavoratori coinvolti nello sciopero non sono solo i ferrovieri che si occupano di guidare i mezzi, ma anche tanti lavoratori che fanno parte dei rami del management della clientela, controlli, comunicazioni, sicurezza, previsione e gestione degli orari. Queste categorie sono fondamentali per il funzionamento della rete, che subirà quindi dei rallentamenti un po’ ovunque, da Penzance alle Midlands e dal Galles fino al nord del paese, includendo anche la Scozia.

I disagi hanno portato i rappresentati delle aziende dei trasporti, fra cui la principale Network Rail, a chiedere agli utenti di mettersi in viaggio “solamente in caso di necessità” invitandoli inoltre a controllare attentamente lo stato dei loro treni prima di presentarsi in stazione. Nei giorni precedenti, alcune stazioni hanno inoltre visto l’esplosione di proteste e disordini causati da passeggeri rimasti al freddo nell’attesa di treni cancellati o fortemente in ritardo.

I disagi non daranno tregua a molti viaggiatori britannici nemmeno a capodanno e, come annunciano le autorità, la situazione tornerà regolare solamente agli inizi di gennaio. Il 2023 si prepara inoltre ad essere un anno costellato di scioperi a causa della forte inflazione e all’aumento generale del costo della vita.

Nigeria: Boko Haram semina terrore nella regione del nord-est

Sabato 24 dicembre si è verificato l’ennesimo attacco terroristico da parte di Boko Haram, gruppo jihadista nigeriano che controlla parte del nord-est del Paese. L’ultimo attacco è avvenuto nel villaggio rurale di Airamne, nel distretto di Mafa, dove sono morti almeno 17 pastori.

Secondo le dichiarazioni di Babakura Kolo, leader di una milizia locale, riferite da Africa News, i pastori hanno opposto resistenza, ma alla fine hanno prevalso i combattenti di Boko Haram perché meglio equipaggiati. Il gregge dei pastori è poi finito nelle mani dei jihadisti.

I jihadisti hanno organizzato l’attacco facilmente, in quanto nell’ultimo periodo hanno guadagnato terreno nella regione del nord-est, occupando i campi intorno alla foresta Gajiganna.

Per gli abitanti, soprattutto pastori e agricoltori, la situazione è insostenibile. Essi sono l’obiettivo privilegiato dei gruppi jihadisti locali, perché facilmente vulnerabili e ricattabili. Se si rifiutano di pagare una tassa per il pascolo nel territorio controllato dalle milizie jihadiste, rischiano la morte. Inoltre, vengono spesso considerati spie dell’esercito nigeriano o dei gruppi armati locali.

Il controllo governativo dell’area è a rischio, di fatti si verificano spesso scontri tra Boko Haram e lo Stato Islamico dell’Africa occidentale, branca jihadista distaccatasi da Boko Haram nel 2016 e diventata il gruppo più potente nella regione.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la violenza jihadista ha ucciso oltre 40 mila persone e provocato oltre 2 milioni di profughi nella regione del nord-est della Nigeria a partire dal 2009. Gli scontri tra i due gruppi terroristici hanno esacerbato la crisi securitaria nel Paese e non solo. Infatti, le violenze si sono diffuse anche in Ciad, Niger e Camerun.

Da parte sua, l’esercito nigeriano fatica ad adottare delle strategie efficaci di contro insorgenza e ad acquisire credibilità per la popolazione. La pubblicazione di un report di Reuters su un programma di aborti forzati nei confronti delle vittime di Boko Haram getta un’ombra negativa proprio sull’esercito nigeriano, in quanto sembrerebbe il responsabile del progetto.

In base al report, si sarebbero verificate almeno 10 mila interruzioni forzate di gravidanza dal 2013. L’esercito, tuttavia, ha dichiarato di non avere nulla a che fare con questo programma, definendolo «illegale e abominevole» e aggiungendo che il «compito dei soldati è quello di proteggere le vite, non eliminarle».

Al momento il governo nigeriano non ha rilasciato dichiarazioni, per cui l’apertura di un’inchiesta non sembra probabile. Inoltre, il 25 febbraio si terranno le elezioni per eleggere un successore all’attuale Presidente Muhammadu Buhari, ormai al termine dei suoi due mandati.

Elezioni in Tunisia: astensionismo e impasse democratica

Il 17 dicembre si sono svolte le elezioni politiche in Tunisia. Con un’affluenza ai minimi storici, il Paese africano ha partecipato all’appuntamento elettorale stabilito dall’agenda del Presidente della Repubblica Kais Saied.

Obiettivo della prima tornata elettorale – la seconda è prevista per i primi di febbraio del 2023 – era quello di eleggere una parte dei nuovi rappresentanti in Parlamento i cui poteri risultano congelati dal 25 luglio 2021. Infatti, il Presidente aveva assunto i pieni poteri con un “colpo di forza”, esautorando primo ministro, Assemblea del Popolo e, in seguito, anche limitando le funzioni della magistratura.

L’appuntamento elettorale, pertanto, avrebbe dovuto riportare la Tunisia sul cammino della transizione democratica iniziata dopo la rivoluzione della Primavera Araba e la cacciata del dittatore al potere Ben Ali.

Secondo Farouk Bouasker, Presidente dell’Autorità superiore indipendente per le elezioni (Isie) non si sono verificati brogli elettorali e i tunisini hanno seguito le procedure internazionali per elezioni libere e giuste. Inoltre, si è trattato del primo ciclo elettorale organizzato dopo l’entrata in vigore della Costituzione fortemente autoritaria voluta da Saied.

Ma allora come mai le elezioni sono state un fallimento? In primis per la nuova legge elettorale, contenuta nel decreto presidenziale del settembre 2022, che riduce il numero di seggi e vede una parte del Parlamento – il Consiglio nazionale delle Regioni – non eletta direttamente dal popolo. In secundis per l’elevato tasso di astensionismo, infatti ha votato solo l’11,22% degli aventi diritto secondo i risultati dell’Isie.

Le ragioni dell’astensionismo sono numerose. È importante sottolineare, come riportato da France24, che la maggior parte dei candidati era sconosciuta all’opinione pubblica, trattandosi di volti nuovi provenienti dal mondo della scuola o della pubblica amministrazione. I politici di mestiere, infatti, sono stati perlopiù epurati dal Presidente Saied a seguito del luglio 2021.

Altro elemento rilevante è stato l’invito al boicottaggio da parte dell’opposizione al regime ultra-presidenziale di Saied. Il partito di opposizione per eccellenza, Ennahda, ha invitato il Presidente della Repubblica a dimettersi, in quanto privo del supporto elettorale. Da parte sua, Saied ha affermato che il buon esito delle elezioni si vedrà dopo la seconda tornata elettorale.

L’opposizione, però, molto divisa e variegata al suo interno, non è riuscita a costruire un fronte unico contro il regime. Per questo motivo, l’astensionismo sarebbe il sintomo della perdita di fiducia dei tunisini nelle istituzioni, le quali non trovano soluzioni ai problemi dei cittadini.

La crisi economica nel Paese, con l’inflazione al 10% e la penuria di beni di prima necessità, hanno infatti generato manifestazioni di protesta in tutta la Tunisia grazie al supporto del sindacato locale UGTT. Se il prossimo ciclo elettorale non soddisferà gli investitori internazionali, le trattative con il Fondo Monetario Internazionale rimarranno in sospeso, con conseguenze drammatiche per la tenuta sociale del Paese africano.

Sparatoria a Parigi: fermato l’attentatore

Secondo quanto riporta la BBC, un uomo è stato immediatamente fermato dopo aver sparato diversi colpi in un centro culturale curdo e prendendo di mira le persone in strada, uccidendone tre e ferendone altre tre, due di queste sarebbero in condizioni gravi. L’uomo, di 69 anni, è già noto alle forze dell’ordine e sarebbe uscito recentemente di prigione.

Il movente non è ancora stato spiegato dall’assalitore, ma le autorità hanno motivo di credere che l’uomo sia stato mosso dall’odio razziale anche considerando il suo trascorso dell’8 dicembre 2021, quando aveva tentato un attacco armato di spada ad alcune tende in un centro migranti a Bercy.

Le autorità hanno bloccato l’accesso a rue d’Enghien, la strada piuttosto frequentata dove si è consumata la tragedia, invitando inoltre i cittadini ad evitare la zona per il momento.

Una rappresentante del centro preso di mira ha lamentato la mancanza di controlli da parte delle forze dell’ordine nella zona e ha criticato il comune di Parigi per aver lasciato indifesa la comunità curda. Alcune ore dopo l’accaduto, si sono sviluppati dei tafferugli fra protestanti curdi e polizia francese. I manifestanti hanno lanciato oggetti e sedie contro gli agenti, che hanno riposto con il lancio di lacrimogeni. Alcuni gruppi curdi in Francia hanno annunciato altre manifestazioni per domani al centro di Parigi.

Secondo la ricostruzione di molti, l’uomo sarebbe entrato nel centro culturale dove avrebbe esploso alcuni colpi, per poi uscire in strada e sparare ancora verso un ristorante curdo e un parrucchiere. Le vittime erano di etnia curda. L’uomo è stato braccato sul luogo dagli agenti francesi e portato prima in ospedale e poi in carcere. Il ministro degli interni francese Gérald Darmanin si è recato sul luogo per rispondere alle domande dei giornalisti e avere un quadro più chiaro sulla vicenda.

Il patrimonio culturale africano: aggiunti alla lista UNESCO harissa, raï e Kalela

0

I primi di dicembre si è riunito a Rabat, in Marocco, un comitato UNESCO allo scopo di esaminare l’importanza di alcuni elementi del patrimonio culturale africano. Tra questi, il comitato ha inserito nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità l’harissa tunisina, la musica raï algerina e la danza zambiana Kalela.

L’inserimento di queste tradizioni africane nella lista UNESCO non è stato privo di dibattito. In particolare l’aggiunta della danza Kalela ha inizialmente trovato l’obiezione del Burkina Faso che ha richiesto una disamina più approfondita delle sue origini.

La danza Kalela è nata durante l’epoca coloniale nella provincia di Luapula, in Zambia (allora Rhodesia settentrionale). Venne messa in pratica per la prima volta dai minatori africani e utilizzata a scopo di intrattenimento durante le occasioni più importanti, tra cui funerali, feste del raccolto e altre celebrazioni tradizionali.

È una tradizione che si rifà al fenomeno del “tribalismo urbano”, una commistione tra l’importante ruolo della tribù nella società zambiana e della modernità del modo di vivere occidentale. Ancora oggi il ballo è un elemento presente nelle rappresentazioni teatrali e nella cultura locale.

Per quanto riguarda invece gli altri due beni immateriali, l’harissa e la musica raï, il loro inserimento nella lista UNESCO non ha generato dubbi data la loro storia centenaria.

L’harissa è una salsa piccante, fiore all’occhiello della cucina tunisina, in quanto viene utilizzata da sola o come ingrediente dei piatti tradizionali del Paese africano. Deriva da peperoncini fatti seccare al sole – i migliori si trovano nella regione mediterranea di Cap Bon – i quali, uniti insieme a spezie e olio d’oliva, formano il prodotto finale.

L’influente peso dell’harissa nella cultura tunisina, frutto di pratiche e ricette che si tramandano di famiglia in famiglia, è stato sottolineato dal Festival dell’harissa tenutosi a Nabeul l’ottobre scorso. Esportata in tutto il mondo, la popolarità della salsa potrà solo aumentare a seguito del suo inserimento nella lista UNESCO.

Stesso discorso vale per la musica raï, genere popolare algerino, ancora di tendenza grazie alla celebre canzone “Disco Maghreb” di Dj Snake, rapper franco-algerino. Tuttavia, la musica raï nasce già negli anni ’30 del secolo scorso sotto la dominazione francese. Il vero boom di questo genere musicale avviene tra gli anni ’80 e ’90, grazie all’introduzione di nuove tecniche musicali dei Chebs, come si facevano chiamare allora i giovani algerini.

I cantanti rappresentativi di questo genere sono stati Cheb Hasni, Cheb Khaled e Cheb Mami, originari della cittadina di Oran, considerata l’epicentro della musica raï. I temi trattati nelle loro canzoni riguardavano l’amore, la libertà e il rinnovamento della società. Proprio per questo motivo, Cheb Hasni venne ucciso durante la guerra civile algerina da un estremista islamico. Ancora oggi nei bar di Algeri risuonano i suoi componimenti.

Con l’inserimento di questi beni immateriali al patrimonio dell’umanità, l’UNESCO ha pertanto riconosciuto formalmente la ricchezza culturale del continente africano.

L’Olanda chiede ufficialmente scusa per lo schiavismo, ma non convince tutti

Dal XVII al XIX secolo l’Olanda è stata uno dei paesi europei più prosperi e attivi nel commercio globale grazie ai suoi mercanti e alle sue eccellenze, ma si stima che una fetta importante degli introiti della potenza commerciale fu generata dalla tratta degli schiavi.

Secondo il Guardian, si stima che più di 600 mila schiavi perlopiù originari dell’Africa occidentale vennero brutalmente tradotti nelle colonie asiatiche e sudamericane controllate dall’Olanda, fra le quali la più importante il Suriname, al tempo un territorio interamente coperto di piantagioni che richiedevano una massiccia forza lavoro.

Questo lunedì il premier olandese Mark Rutte ha pubblicamente chiesto scusa per gli orrori dello schiavismo causati dallo stato olandese, una posizione già presa in passato da vari delegati e rappresentanti di Amsterdam nelle ex colonie. A seguito della condanna è stato annunciato un piano di riparazioni che ammonta a 200 milioni di euro che verranno investiti nell’istruzione e per la creazione di un museo sull’epoca dello schiavismo.

Nonostante le scuse del premier, una parte dei rappresentanti delle ex colonie ha lamentato il fatto che non vi siano state discussioni su questo tema con il governo olandese. Il governo caraibico di Sint Maarten ha difatti rifiutato le scuse finché la questione non verrà adeguatamente sviluppata e discussa insieme ai rappresentanti del governo di Amsterdam.

Altri rappresentanti delle comunità discendenti dagli schiavi hanno rincarato la dose criticando la decisione olandese definendola come uno stratagemma per mostrarsi interessati alla questione di condanna dello schiavismo, venuta a galla a livello globale solamente dopo la vicenda di George Floyd. Secondo le parole di molti attivisti l’Olanda non avrebbe mai veramente abbandonato una certa mentalità razzista e, secondo alcuni report, le minoranze nere in Olanda subirebbero ancora un trattamento di serie b, ricevendo in media uno stipendio più basso e vivendo una qualità della vita inferiore rispetto alla media delle persone.

Furto del secolo: ritrovati gioielli rubati di Dresda

Secondo la BBC, 31 gioielli trafugati nel 2019 da Dresda, sono tornati nel loro luogo di conservazione originale, pronti per le opportune analisi sulle loro innumerevoli pietre preziose. Il valore dei pezzi si attesta attorno ai 113 milioni di euro.

I gioielli, che includono ordini militari ed accessori eccezionalmente preziosi provenienti da svariate parti d’Europa, fanno parte della collezione composta nel 1723 dal principe di Sassonia, Augusto II. Fra i pezzi più importanti vi è l’ordine polacco dell’aquila bianca tempestato di diamanti e una spada del XVII sec., anch’essa coperta da dozzine di diamanti di alta caratura. A mancare all’appello rimangono ancora alcuni oggetti fra i quali una pietra preziosa soprannominata “diamante bianco di Dresda”.

Le autorità tedesche hanno trovato la refurtiva a Berlino dopo esser stati contattati dagli avvocati di sei membri appartenenti alla banda autrice del grande furto. Un furto eseguito in maniera molto professionale, come anche riconosciuto dalla stessa polizia tedesca, che ha visto la banda irrompere nella “Grünes Gewölbe” (la volta verde) dove erano esposti i preziosi, dopo aver disattivato i sistemi elettronici e luci in tutta l’area circostante appiccando un incendio in una vicina centralina. Altro dettaglio impressionante è stato il fatto che tutta la vicenda sia durata meno di 10 minuti. Il furto, avvenuto il 25 novembre 2019 era poi stato definito da molti “furto del secolo” a causa del valore esorbitante dei beni rubati.

Il processo ai sei uomini, appartenenti al clan criminale “Remmo” e già noti per aver preso di mira altri gioielli di valore, è iniziato a gennaio e riprenderà martedì 20 dicembre, gli investigatori attendono ulteriori sviluppi che potrebbero portare al rinvenimento degli ultimi gioielli mancanti.

Summit USA-Africa: 49 leader africani a Washington

Tra il 13 e il 15 dicembre si è tenuto a Washington DC il summit USA-Africa, conferenza internazionale presieduta dal Presidente Joe Biden. Si è trattato di un summit fondamentale che ha visto protagonista l’Africa, rappresentata da 49 leader del continente.

La conferenza si è aperta con un discorso del Presidente americano che ha affermato come «l’Africa ridisegnerà il futuro, non solo per il popolo africano, ma per il mondo intero. Il successo dell’Africa è il successo del mondo».

Le parole altisonanti scelte da Biden descrivono appieno il crescente ruolo che l’Africa ha e avrà nello scenario internazionale: in primis, perché viene definito “il continente del futuro”, dato che entro il 2050 vi vivrà un quarto della popolazione mondiale con un’età media di 18 anni e, in secundis, per le prospettive di sviluppo economico e di potenzialità per la transizione ecologica.

Dato l’emergente peso geopolitico del gli Stati Uniti non possono esimersi dall’intrattenere rapporti con i Paesi africani. La forte ingerenza in Africa di attori come Cina e Russia ha sicuramente spinto l’amministrazione Biden a cercare di rafforzare i legami con un’area del globo non considerata tra le priorità strategiche nazionali.

Il primo partner commerciale dell’Africa, infatti, è proprio la Cina, la quale sta tessendo un’importante rete di infrastrutture portuali, ferroviarie ed energetiche per dare vita ad una Via della Seta africana. Inoltre, iniziative come l’annullamento del debito sovrano di alcuni Stati africani o la fornitura di elettricità e dispositivi digitali ha accresciuto il soft power cinese.

D’altra parte, anche gli accordi militari stabiliti tra alcuni Paesi africani – specialmente nell’area del Sahel – con la Russia hanno visto il ritiro di forze occidentali nella regione, a scapito dunque della presenza americana. Gli USA continuano a mantenere il controllo dei cosiddetti “colli di bottiglia”, punti nevralgici del traffico commerciale mondiale, ma questo non basta per mantenere rapporti proficui con il continente.

Alla luce delle nuove minacce, pertanto, il Presidente Biden ha affermato che offrirà 55 miliardi di dollari all’Africa nei prossimi tre anni. Più nello specifico, sono stati previsti all’interno del Business Forum USA-Africa ingenti investimenti da parte delle compagnie americane in settori critici come sanità, energia, agricoltura, reti stradali e digitale. Inoltre, saranno previsti dei supporti finanziari ai membri della diaspora africana residenti negli Stati Uniti, in modo tale da aumentare l’ammontare delle rimesse dei migranti.

Altre tematiche affrontate dal summit riguardano invece la promozione dei diritti umani e della democrazia in Africa. In un incontro a porte chiuse con i capi di stato africani che terranno elezioni politiche nel 2023, Biden ha sottolineato la necessità di tenere elezioni libere e democratiche affinché il continente raggiunga gli standard internazionali.

Nel terzo giorno di summit, invece, si è discusso dell’importanza di assicurare la sicurezza alimentare in tutta l’Africa, mitigando gli effetti del cambiamento climatico e delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina.

Tuttavia, l’Africa sta cercando di emergere come attore internazionale indipendente dalla competizione delle superpotenze, per cui l’intervento americano potrebbe essere arrivato troppo tardi.

Ancora tensioni nei Balcani: barricate dei serbi in Kosovo e spari nella notte

Riprendono le tensioni tra i serbi e gli albanesi in Kosovo.

Secondo quanto riporta euronews, il motivo dietro alle nuove proteste dei serbi sarebbe stato l’arresto risalente a sabato scorso di un ex poliziotto serbo che svolgeva servizio nelle forze di sicurezza kosovare. La popolazione di etnia serba ha infatti posto delle barricate nel nord del Kosovo composte da camion e autobus in segno di protesta. Nella notte si sono uditi spari ed esplosioni riconducibili a petardi.

Il presidente serbo, Aleksandar Vučić ha convocato in via d’emergenza il consiglio di sicurezza nazionale, sottolineando di essere fiero dell’esercito e della polizia serba in questo difficile periodo e aggiungendo: «la Serbia cercherà di preservare la pace in un milione di modi». Ha inoltre proposto l’idea di dispiegare le forze dell’ordine a difesa dell’etnia serba nel nord del Kosovo, decisione che verrà proposta sia alla missione Nato per la pace in Kosovo (KFOR) sia alla missione civile europea per la sicurezza (EULEX).

Dall’altra parte, Albin Kurti, primo ministro del Kosovo, ha definito «bande criminali» coloro che hanno organizzato le proteste ed ha accusato Belgrado di perseguire delle politiche chiaramente ostili e collegate al passato turbolento degli anni 90’, azioni che sempre secondo Kurti, favorirebbero gli interessi di Russia e Cina nella regione. Il premier ha dato un ultimatum ai serbi, intimandoli a rimuovere le barricate per evitare che sia la polizia kosovara a doverlo fare.

La Federazione Russa intanto sarebbe effettivamente pronta a intervenire a fianco della Serbia in caso di un conflitto armato, fornendo supporto tecnico, economico, politico e anche militare, lo afferma il giornale russo pravda.

La situazione rimane tesa mentre l’Europa invita alla calma e a una nuova de-escalation delle tensioni.

Schengen: ok a Croazia, rimangono fuori Bulgaria e Romania

Dal gennaio 2023 i cittadini croati non avranno più la necessità di essere controllati alla dogana per l’ingresso della zona Schengen: al loro paese è stato infatti dato l’ok per diventare un membro effettivo del trattato di libera circolazione.

Si leva tuttavia una voce di insoddisfazione da parte dei due paesi esclusi e da alcune cariche europee che invece vedevano la Romania e la Bulgaria, membri della Ue dal 2007, ugualmente pronte ad essere accettate nel sistema.             

A porre un veto, sufficiente a bloccare la pratica per quest’anno, solamente due paesi: Austria e Olanda. Come riporta la BBC, l’Austria si è mostrata particolarmente intransigente nei confronti dei due paesi balcanici, sottolineando la loro eccessiva morbidezza nell’applicare le norme anti-immigrazione. L’Olanda ha invece votato solamente contro l’ingresso di Sofia, sostenendo che fosse troppo presto e che la Bulgaria avrebbe dovuto impegnarsi di più per sradicare la presunta corruzione nel suo governo.

Bulgaria e Romania hanno promesso di ripresentare la loro candidatura anche per il prossimo anno, insistendo che la situazione sul fronte della migrazione è sotto controllo e, come enfatizzato dalla Romania, che la posizione dell’Austria risulta così inflessibile soprattutto per motivi politici.

In questa disputa sembra che l’Austria e l’Olanda siano isolate: i ministri di diversi paesi europei hanno accolto il veto con una certa contrarietà, incluso il ministro degli esteri tedesco Baerbock e il commissario europeo per gli affari interni Johansson. L’ingresso nella zona Schengen dei due paesi è stato rimandato in diverse occasioni, ma secondo molti paesi della zone euro, le condizioni necessarie per ricevere l’approvazione sarebbero presenti già dal 2011.

Sudan: firmato accordo di transizione tra militari e rappresentanti politici

Lunedì 5 dicembre i generali Abdel-Fattah Burhan e Mohammed Hamdan Dagalo, de facto governanti del Sudan, hanno incontrato i leader delle Forze per la Democrazia e il Cambiamento, il più grande partito politico sudanese pro-democrazia.

L’incontro, tenutosi presso il palazzo presidenziale di Kharthum, si è concluso con la stipulazione di un primo accordo di transizione democratica. Esso prevede una transizione di governo guidata dai civili, della durata di due anni, con l’obiettivo di giungere ad elezioni libere e democratiche e porre fine al regime militare instauratosi dopo il golpe dell’ottobre 2021.

In base al testo dell’accordo, per prima cosa verrà limitato lo strapotere dei militari. Per ristabilire parzialmente lo stato di diritto, verrà istituito un Consiglio di difesa e sicurezza sotto la guida del primo ministro. Inoltre, verranno unificate le forze militari sudanesi in un unico esercito nazionale e saranno implementati controlli e sanzioni sulle compagnie militari private.

La comunità internazionale ha accolto favorevolmente questo primo accordo di transizione democratica. In particolare, Stati Uniti, Norvegia, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno avuto un ruolo determinante nell’esito delle trattative. Con un comunicato del Dipartimento di Stato, gli americani hanno dichiarato che l’accordo è «la base su cui poggiare un rinnovamento politico che includa tutti i cittadini del Sudan».

Tuttavia, l’accordo di transizione ha sollevato numerose critiche e perplessità da buona parte della società civile sudanese. In seguito alla firma dell’accordo, infatti, sono scoppiate violente proteste nella capitale. Le manifestazioni popolari, organizzate dal Comitato per la Resistenza, gruppo democratico dell’opposizione, sono state sedate con la forza.

Secondo quanto riportato da Al-Jazeera, i membri dell’opposizione ritengono che l’accordo di transizione non porterà a nessun cambiamento. Il mancato riferimento nell’accordo alla giustizia di transizione e alla riforma del settore securitario farebbe pensare ad un’impunità dei golpisti attualmente al potere. Il governo militare, infatti, avrebbe ucciso più di 100 civili dall’entrata in carica.

In risposta alle manifestazioni post-accordo, il generale Mohamed Hamdan Dagalo ha affermato che si impegnerà a tutelare il processo di transizione e si è scusato pubblicamente per «la violenza e gli errori verificatisi nella recente storia del Sudan». Dal canto loro, i manifestanti chiedono «giustizia per i martiri, processo per i militari e stato di diritto per tutte le comunità».

La sfida in Sudan non riguarda esclusivamente la democrazia, ne va della tenuta sociale stessa del Paese. Se l’accordo di transizione non verrà implementato, il Paese africano non potrà beneficiare dei prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, entrate necessarie per risollevare la critica situazione economica.

Per la stabilità del Sudan e della regione, è dunque urgente superare la crisi securitaria e istituzionale.

Price cap: arriva l’intesa, ma le polemiche rimangono

0

La contorta vicenda del price cap, ovvero il tetto da applicare al prezzo del petrolio russo, è stata risolta lunedì 5 dicembre, stabilendo il prezzo a 60 dollari al barile.

La misura è stata proposta dalla Commissione europea già agli inizi delle ostilità fra Russia e Ucraina, ma per mesi è stata rimandata fra ostruzionismi, polemiche e ripensamenti vari. Lo scopo principale è di far sì che il Cremlino non possa ricavare dalle vendite di petrolio i fondi necessari per alimentare la sua macchina da guerra in Ucraina.

Come riportato dalla BBC, la Russia è il secondo produttore mondiale di petrolio, che è la sua fonte primaria di ricavi insieme al gas.

La contromisura che il Cremlino ha minacciato di applicare a seguito delle proposte di applicazione del price cap è la sospensione completa di rifornimenti per tutti quei paesi che aderiranno alla misura. Ora che la misura è stata posta in essere, Mosca afferma di stare lavorando ad una risposta adeguata e il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, sottolinea che il tetto al prezzo del petrolio non influenzerà l’operazione militare portata avanti dalla Russia.

In Europa, come in altre parti del mondo, l’effetto immediato è stato un leggero aumento dei prezzi del carburante, che secondo molti analisti è destinato a salire ancora nelle prossime settimane. Le piazze asiatiche invece sembrano correre, con Hong Kong in testa. L’Asia è infatti il mercato al quale la Russia si è rivolta per vendere le sue materie prime, con Cina e India che si confermano le più grandi acquirenti di petrolio e gas russo, pronte a colmare il vuoto lasciato dagli importatori europei.

Intanto da Kiev la decisione viene incontrata con poco entusiasmo, venendo bollata come “poco seria” e “debole” dall’ufficio di Volodymyr Zelensky, che aveva incoraggiato misure ancora più forti per bloccare gli introiti del Cremlino.

Twitter: nuove regole da rispettare per rimanere in Europa

L’avventura di Elon Musk con il suo nuovo acquisto giunge ad un nuovo capitolo a seguito dei licenziamenti e delle dimissioni delle scorse settimane: stavolta il patron di Tesla e nuovo proprietario di Twitter dovrà fare in modo da soddisfare la legislazione europea in materia di disinformazione e moderazione generale dei contenuti.

Appena completata l’acquisizione del social, Elon Musk ha infatti eseguito un taglio del personale, lasciando intendere anche che alcuni contenuti potranno essere pubblicati più liberamente. Tutto ciò ha sollevato non pochi dubbi in merito al nuovo ruolo della sorveglianza online che si immagina il multimiliardario per la sua piattaforma.

Come riporta il Guardian, fra i piani pensati per il nuovo twitter ci sarebbe un allentamento sulla censura dei post che potrebbero essere ritenuti disinformativi per quanto riguarda l’emergenza covid19, altra cosa che ha spinto Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, a contattare direttamente Musk e invitarlo a fare di più per implementare la nuova normativa proposta dalla Ue.

La riunione si è rivelata costruttiva ed Elon Musk si è dimostrato pronto a collaborare, ma come sottolinea Breton, rimane ancora molto lavoro da svolgere.

Quello che rischia Twitter se non rispetterà le normative del nuovo DSA (Digital Services Act) in vigore dal 16 novembre, è una multa pari al 6% dei profitti globali che quindi ammonterebbe a circa 500 milioni di dollari. Nel caso in cui le sanzioni non dovessero sortire alcun effetto e vi fossero dei comprovati pericoli per la sicurezza e la vita delle persone, si procederà al blocco temporaneo della piattaforma in Europa.

Musk ha tempo fino agli inizi del 2023 per “mettersi in regola”, periodo in cui si prevede uno stress-test per capire se Twitter avrà effettivamente applicato tutte le regole previste dal DSA.

Burkina Faso: scuole chiuse per il pericolo jihadista

In Burkina Faso le scuole – di ogni ordine e grado – non rispettano il calendario accademico. Almeno un quinto degli edifici scolastici è chiuso o inutilizzato a causa della crisi securitaria nel Paese, con danni enormi per i bambini e il tasso di alfabetizzazione.

In particolare, la regione più soggetta alla chiusura scolastica è quella confinante con Mali e Niger, Stati in cui la presenza jihadista e il traffico di armi sono grave fonte di destabilizzazione.

Forte della distanza dalla capitale Ouagadougou e dal governo centrale, la regione orientale del Burkina Faso è diventata “terra di nessuno”, contesa tra milizie locali e gruppi terroristici affiliati ad al-Qaeda o allo Stato Islamico (Daesh).

A seguito del golpe militare in Burkina Faso del settembre scorso, la nuova giunta aveva posto come priorità nell’agenda politica l’attività anti-terroristica e il ristabilimento di adeguate condizioni di sicurezza. Nonostante le dichiarazioni di principio, la situazione è peggiorata specialmente per bambini e insegnanti che sono impossibilitati a recarsi negli edifici scolastici a causa delle incursioni dei gruppi terroristici.

Secondo i dati delle Nazioni Unite attualmente ci sarebbero circa 5709 scuole chiuse, circa 1000 in più rispetto alle ultime statistiche dell’ottobre 2022. Inoltre, la chiusura delle scuole ha colpito 1 milione e 800 mila studenti come riporta Benoit Delsarte, direttore locale di Save the Children.

Il mancato accesso a scuola rende i bambini più vulnerabili e possibili vittime di abusi: da una parte le bambine, costrette a sposarsi in giovane età e dall’altra i bambini, indotti ad arruolarsi nei gruppi armati.

Da parte sua, il governo burkinabè ha cercato di risolvere il problema trasferendo alcuni bambini in altre scuole del Paese. Resta però da affrontare la difficile integrazione di centinaia di migliaia di studenti senza dimora e accesso ai servizi essenziali.

Education Cannot Wait, ong locale specializzata nelle cure per l’infanzia, ha rilevato i limiti di questa misura. Secondo quanto dichiarato ad Al Jazeera, servirebbe almeno 1 miliardo di dollari mentre le risorse impiegate ammonterebbero a 23 milioni.

Serve dunque un’azione multilaterale e condivisa per poter permettere ai bambini di godere dei propri diritti fondamentali.

Difese aeree: la proposta di Varsavia che infastidisce Berlino

Dopo la caduta di un missile antiaereo in territorio polacco che ha causato due morti, la Germania ha ritenuto necessario rafforzare le capacità di difesa aerea polacche proponendo il trasferimento dalla Germania di alcuni sistemi di difesa MIM-104 patriot.

Come riporta NFP, dopo aver inizialmente accettato di buon grado l’aiuto, vi è stato un quasi immediato cambio di piani da parte di Varsavia, che ha lasciato intendere che questi sistemi sarebbero più efficaci in mano ucraina piuttosto che in Polonia.

La proposta sarebbe partita da Jarosław Kaczyński, influente leader del partito populista di destra PiS che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento del paese. Il leader del partito ha affermato che ciò consentirebbe agli ucraini di difendersi in maniera più efficace da una vasta tipologia di attacchi, e in aggiunta «mostrerà che i tedeschi hanno cambiato davvero il loro atteggiamento invece di agire solamente per scopi propagandistici».

Alcune ore dopo la proposta, Thomas Bagger, l’ambasciatore tedesco in Polonia, ha spiegato che la proposta tedesca è in buonafede ed è pensata esclusivamente in chiave difensiva per il territorio polacco, poiché potenzialmente in pericolo, aggiungendo che «la controproposta polacca risulta difficile da comprendere».

Il sistema patriot è un sistema di difesa altamente avanzato di missili terra-aria, prodotto negli Stati Uniti ed utilizzato anche da alcuni paesi europei (Spagna, Grecia, Svezia e appunto Germania e Polonia) come previsto dall’accordo di difesa integrata dei paesi dell’alleanza atlantica. E’ il sistema più avanzato di cui dispongono sia gli Stati Uniti che gli altri paesi della Nato ed il costo di una singola batteria si aggira attorno al miliardo di dollari.

Proprio perché l’Ucraina non è un membro della Nato, la proposta polacca risulta impossibile da mettere in pratica e, come ribadito dall’ambasciatore tedesco, la Germania sta comunque fornendo una gran quantità di aiuti militari a Kiev che includono gadget da difesa personale, veicoli, sistemi di ricognizione e sistemi di difesa aerea, fra cui il più moderno è l’iris-T.

La francofonia in Tunisia: il 18esimo summit OIF a Jerba

Tra il 19 e il 20 novembre si è tenuto il 18esimo summit della francofonia presso l’isola tunisina di Jerba. Il summit ha visto protagonisti numerosi capi di stato e di governo, membri dell’Organizzazione internazionale della francofonia (OIF).

L’organizzazione riunisce 88 Stati, che rappresentano ufficialmente la comunità globale francofona. Nello specifico, in questi Stati membri il francese è lingua madre o lingua ufficiale o una percentuali rilevante della popolazione parla francese o ancora c’è una forte influenza della cultura francese per legami storici e/o coloniali.

L’Organizzazione internazionale della francofonia ha come missione principale quella di diffondere la lingua e la cultura francese nel mondo. I principi ispiratori sono invece democrazia, diritti umani e sviluppo economico.

Le strategie dell’organizzazione vengono elaborate all’interno dei summit periodici organizzati a turno da ogni Stato membro. Quest’anno il compito è spettato alla Tunisia, uno dei Paesi con la più forte eredità culturale francese a livello amministrativo, politico e scolastico.

La Segretaria generale dell’OIF, la ruandese Louise Mushikiwabo, ha dichiarato che la francofonia avrà un ruolo determinante nella risoluzione di crisi politiche e conflitti. L’influenza della lingua e della cultura francese, infatti, permetteranno all’organizzazione di fare da «mediatrice» e rispondere alla «sfida della cittadinanza» in Africa.

In tal senso, al centro del dibattito sono stati i golpe militari in Africa occidentale, in particolare in Mali e Burkina Faso – dove il soft power francese ha perso terreno – e il riemergere delle tensioni tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda.

Altro elemento chiave affrontato dal summit di Jerba è stata la posizione africana in merito alla guerra russo-ucraina. Il Presidente francese Macron avrebbe chiesto ai rappresentanti africani di schierarsi a favore dell’Ucraina, ma ci sarebbero state resistenze a causa del nuovo posizionamento internazionale del continente. Tuttavia, il contenuto di questa discussione – inserita in una dichiarazione allegata a quella ufficiale del summit – non è ancora stato reso pubblico.

Per quanto riguarda gli aspetti economici, invece, come riporta France24, saranno elargiti fondi specifici per lo sviluppo e la diffusione della lingua francese negli Stati membri. Inoltre, sono previsti periodi di formazione per 250 mila giovani africani, insieme a prestiti agevolati per le imprenditrici locali.

Questo piano di investimenti ha già dato i suoi frutti in Vietnam e Cambogia, dove 200 operatori economici hanno ideato progetti di sviluppo nel Sud-est asiatico francofono.

Il Presidente tunisino Kais Saied ha accolto favorevolmente i progetti di sviluppo, in quanto produrranno benefici per la Tunisia e per l’Africa intera.

Il nuovo focus sul continente africano non è casuale: «la francofonia dell’avvenire» sarà proprio in Africa, date le prospettive di crescita demografica (e non solo). Si stima infatti che l’attuale numero di francofoni – pari a 321 milioni – raddoppierà da qui al 2050 proprio a causa del boom demografico che si verificherà nel continente del futuro.

Guerra delle targhe in Kosovo: escalation disinnescata, ma non senza qualche dubbio

La Serbia e il Kosovo, dopo aver tenuto con il fiato sospeso l’Europa, sono riuscite a trovare un punto d’incontro soddisfacente per quanto riguarda la disputa sulle targhe.

L’agenzia euronews riporta il commento di Petar Petković, capo negoziatore della parte serba:  «La cosa importante è che il dialogo continui, perché ci permette di muoverci verso la normalizzazione delle nostre relazioni e delle vite delle persone comuni». Il diplomatico sottolinea così il sollievo delle parti coinvolte ma anche quello della Ue.

Josep Borrell ha infatti accolto con entusiasmo il nuovo accordo dopo che il primo incontro di otto ore a Bruxelles non aveva generato alcun risultato e anzi aveva visto le due parti agli antipodi.   

La discussione del 23 novembre ha dato i suoi frutti, anche se le proposte erano pressoché le stesse della precedente, ma a favorire l’accordo è stato il pressing americano ed europeo, oltre al timore dell’escalation violenta dietro l’angolo.

L’accordo include la promessa del Kosovo di annullare le sanzioni pecuniarie e di fermare il piano di reimmatricolazione dei veicoli con targa serba in cambio dello stop da parte di Belgrado dell’assegnazione di nuove targhe serbe con le sigle di città appartenenti al territorio kosovaro.

La Serbia sembra uscirne più soddisfatta rispetto al Kosovo, che invece fino a pochi giorni prima era quasi irremovibile sulla decisione di sanzionare tutti i guidatori con targa serba. La replica del Kosovo delinea una parziale soddisfazione ma anche l’intenzione di includere di più gli Stati Uniti nei negoziati futuri.

I due paesi si impegneranno per implementare l’accordo raggiunto, anche se il problema di fondo rimane una questione irrisolta, che prima o poi dovrà essere affrontata in un clima collaborativo se i due paesi vorranno diventare membri della comunità europea.

La corsa dell’Europa al diesel fra ban e scioperi

0

Con la decisione del blocco sulle importazioni di diesel dalla Russia che entrerà in vigore il prossimo febbraio, molti paesi della UE ne stanno ordinando forniture ingenti per l’anno successivo.      

Come cita reuters, nonostante le sanzioni, la Russia rimane ancora il primo fornitore della Ue in materia di carburanti lavorati, in primis diesel. Grazie al prezzo relativamente basso e agli impianti con cui viene trasportato, è l’opzione più accessibile per molti paesi, consistendo nel 44% del totale delle importazioni europee.

Una volta entrato in vigore il blocco per il diesel, i paesi europei dovranno bussare alle porte di Stati Uniti, medio oriente e India.

I prezzi sono destinati a salire a causa della scarsità globale di questa materia, di quanto ancora non è chiaro, ma in alcune parti del mondo il costo della preziosa miscela che serve a tenere in vita parti importanti delle economie (dai veicoli passando per le grandi industrie e arrivando al riscaldamento delle case) è aumentato anche del 50%.

A creare un’ulteriore problema logistico per l’Europa ci si mettono anche i lavoratori di BP, azienda olandese che detiene la raffineria più grande del continente: uno sciopero parziale dei lavoratori è stato indetto a seguito del mancato aumento di salario per far fronte all’inflazione.

Come riporta bloomberg, la compagnia BP aveva promesso che la raffineria di Rotterdam sarebbe dovuta ripartire già nell’ultima settimana di novembre, cosa che non è accaduta a causa della protesta dei lavoratori. Le conseguenze iniziano a farsi sentire anche in altri paesi, soprattutto in Francia, dove una parte delle raffinerie è rimasta senza idrocarburi olandesi da lavorare. L’Europa cerca di mediare per risolvere i dissidi contattando l’azienda e i sindacati dei lavoratori, ma nonostante i tentativi, la situazione  dell’approvvigionamento di diesel nel vecchio continente rimane tesa.

Austria, Serbia e Ungheria a Belgrado unite per una rotta balcanica invalicabile

I dati delle ultime settimane sembrano dar ragione alle proteste dei tre paesi balcanici per quanto riguarda i flussi fuori controllo: quest’anno più di 100.000 persone sarebbero entrate in Europa attraverso i Balcani, un numero da record. L’Ungheria parla inoltre di 250.000 persone fermate dalla polizia magiara lungo la frontiera serba solamente nell’ultimo anno.

Mentre Vienna denuncia un numero folle di richieste d’asilo, il premier ungherese Orbán rincara la dose e come riportato da euronews, dichiara che “Non c’è bisogno di gestire la migrazione, c’è bisogno di fermarla”, insomma una posizione molto forte alla quale fanno eco anche da Belgrado.

Ed è proprio a Belgrado che i tre paesi hanno firmato un memorandum per impegnarsi nella lotta alle rotte clandestine e soprattutto ai trafficanti di esseri umani, che pare siano diventati molto più violenti e spietati con chi si mette in viaggio nella speranza di un futuro migliore.

A fornire alcuni dettagli su come si intende procedere è stato il presidente serbo Vučić: la “prima linea” contro la rotta sarà la frontiera serbo-macedone, lungo la quale verranno dispiegati agenti dai tre paesi che potranno inoltre usufruire di nuove tecnologie come droni e telecamere termiche per avere un controllo ancora più completo lungo il confine. Chi riuscirà ad eludere questa prima linea dovrà tuttavia fare i conti con altre nuove recinzioni lungo la frontiera con l’Ungheria e poi con l’Austria. Sono inoltre previste nuove regole che renderanno le espulsioni ancora più veloci.

Si preannuncia quindi una svolta drammatica per chi intraprenderà la rotta balcanica, poiché si dovranno scegliere terreni più difficili, che potrebbero diventare potenzialmente mortali durante l’inverno, soprattutto durante le piogge (il momento migliore per i trafficanti per mettersi in marcia ed essere più difficili da individuare). Superare i monti e le fitte foreste della ex Jugoslavia non significherà aver avuto successo: in caso di contatto con le autorità serbe, chi non avrà una richiesta d’asilo ritenuta valida non potrà comunque rimanere nel paese (che finora ha ospitato in via provvisoria gran parte dei migranti economici). Ungheria e Austria prevedono infatti di prestare i loro aerei per rimpatriare i migranti che saranno fermati in Serbia.

In tutto questo il messaggio di Vienna, Belgrado e Budapest è chiaro: le iniziative di Bruxelles riguardanti la rotta balcanica non sono sufficienti e bisogna correre ai ripari affidandosi alla collaborazione con i propri vicini.

Egitto: il padiglione “Mediterraneo” alla COP27

La 27esima Conferenza sul clima, con sede in Egitto dal 6 al 18 novembre, ha ospitato per la prima volta nella storia un padiglione “Mediterraneo”. Lo scopo fondamentale è di evidenziare le molteplici sfide climatiche che la regione deve affrontare.

Il padiglione, luogo di dibattito e di ricerca di soluzioni innovative, ha visto come protagonisti attori pubblici e privati (accademici, tecnici, politici, economisti e attivisti) provenienti dal bacino del Mediterraneo, uniti dall’esperienza comune nel campo dell’economia green e della transizione energetica.

L’iniziativa è stata realizzata grazie al supporto del Segretariato dell’Unione per il Mediterraneo, organizzazione intergovernativa con sede a Barcellona costituita da 43 Paesi dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. Inoltre, la presenza di un consiglio scientifico ad hoc ha dato maggior credibilità all’iniziativa stessa.

Sotto il patrocinio del programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, i partecipanti al padiglione hanno sottolineato le peculiarità dei problemi climatici del bacino del Mediterraneo. L’aumento delle temperature, la minaccia alla biodiversità, i numerosi eventi metereologici eccezionali come la siccità hanno ripercussioni drammatiche sulle condizioni di vita della popolazione locale.

Si stima infatti che la catastrofe climatica, da qui al 2050, sarà la prima causa di migrazione nella regione. In primis per un problema di sicurezza alimentare e di mancato accesso ai beni di prima necessità e, in secundis, per l’insostenibilità delle temperature elevate in alcune aree del Mediterraneo.

Secondo l’ultimo report sul clima dell’IPCC – Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico – il Mediterraneo è la seconda regione del pianeta le cui temperature aumentano più velocemente (+20%). La calda estate dei Paesi dell’Europa meridionale ne è un esempio. Tuttavia, le aree più sottoposte al cambiamento climatico si trovano nella sponda sud del Mediterraneo, dove le disuguaglianze socio-economiche sono largamente diffuse.

Non è un caso, dunque, che la COP27 in Egitto abbia ospitato il padiglione “Mediterraneo”. La COP27, definita anche “la COP africana” per via del sito della Conferenza e dell’importante ruolo assunto dai Paesi africani, ha messo in luce come la lotta al cambiamento climatico debba essere una priorità globale, altrimenti le conseguenze saranno devastanti per tutti.

L’Africa in “Festival”: le potenzialità del cinema africano

0

Nel corso dei mesi di ottobre e novembre il continente africano è stato teatro di due importanti Festival cinematografici, il primo a Cartagine e il secondo a Marrakesh. La realizzazione di questi due eventi, insieme alla larga partecipazione di spettatori nazionali e internazionali, hanno mostrato la capacità attrattiva dell’industria cinematografica africana.

Tra il 29 ottobre e il 5 novembre si è tenuta la 33esima edizione del Festival del cinema di Cartagine. Si tratta di un evento simbolico, in quanto al Festival partecipano pellicole e registi provenienti da tutto il continente.

Come affermato da Baba Diop, critico cinematografico senegalese, il Festival tunisino rappresenta l’unione culturale africana perché «collega Nord e Sud Africa, insieme al mondo arabo e all’Africa subsahariana, molto spesso dimenticata». La vittoria al Festival del film tanzaniano “Tug of War” evidenzia appunto questo legame.

Il Festival di Cartagine, inoltre, è sovvenzionato dal Ministero tunisino della Cultura. Infatti il Festival dà ampio spazio a donne e giovani appassionati che possono beneficiare delle possibilità occupazionali derivanti dall’organizzazione di eventi cinematografici.

Il Festival Internazionale del cinema di Marrakesh, invece, è simbolo della possibilità di esportare il cinema africano all’estero. Il Festival, apertosi l’11 novembre, è un’occasione fondamentale per lo Stato marocchino e la reputazione della monarchia di Mohammed VI. L’evento ha richiamato a Marrakesh numerose personalità del mondo dello spettacolo internazionale, tra cui il regista italiano Paolo Sorrentino che è stato nominato capo della giuria.

In seno al Festival è stato realizzato l’Atlas Workshop, un programma di formazione e finanziamento per artisti emergenti provenienti da Marocco, mondo arabo e Africa.

Secondo un report dell’UNESCO attualmente almeno 5 milioni di africani lavorano nell’industria cinematografica che contribuisce a 5 miliardi del PIL del continente. La Nigeria detiene il primato di profitti, contribuendo da sola alla creazione di più di 2500 film all’anno.

L’organizzazione di festival e l’interesse suscitato nel continente e all’estero potrebbero avere un impatto positivo sull’economia africana. L’UNESCO prevede che l’industria cinematografica possa creare oltre 20 milioni di posti di lavoro e contribuire fino a 20 miliardi al PIL africano.

Rimangono però dei problemi da risolvere affinché il cinema africano si sviluppi senza intoppi. Il primo di questi riguarda la mancanza di accesso uniforme alla tecnologia e alla luce elettrica. Inoltre, lo streaming online e la pirateria digitale potrebbero delegittimare le pellicole indipendenti e il loro finanziamento.

Come sottolineato da Audrey Azoulay, Direttore Generale dell’UNESCO, è necessario dunque rafforzare la cooperazione internazionale per permettere lo sviluppo equo dell’industria culturale e cinematografica nei Paesi africani.

Gran Bretagna: un biennio cupo alle porte

0

La Bank of England prevede un biennio molto impegnativo per l’economia britannica a seguito dell’aumento dei prezzi su ogni cosa e soprattutto sul cibo, carburante ed energia, facendo intendere che la fine della crisi è ancora lontana.                    

Come sottolineato dalla BBC l’aumento dei prezzi ha scoraggiato i consumatori inglesi ed ha portato l’economia a contrarsi dello 0,2% negli ultimi 3 mesi: ci sono tutti gli indicatori per prevedere un’incombente recessione, che secondo molti esperti potrebbe essere la più lunga mai registrata a partire dal 1920.  

L’inflazione che attanaglia anche l’euro fa ancora più male alla sterlina e l’effetto più devastante è osservabile sugli affitti: un vero e proprio salasso che sfocia in una ridotta propensione dei britannici a spendere in beni di consumo, altro dato che va a pesare sulle previsioni economiche. La situazione drammatica ha inoltre indebolito la borsa di Londra, facendole perdere il primato di mercato azionario più importante d’Europa. A prenderne il posto vi è il mercato azionario francese con un valore di 2823 miliardi di euro, con quello britannico che ora ne possiede “solamente” 2821. Complici del cambio della guardia non sarebbero solo le previsioni negative ma anche la Brexit e l’andamento più stabile dell’economia francese.

Il cancelliere dello scacchiere (antico modo per indicare il ministro delle finanze) Jeremy Hunt, ha comunicato di star lavorando ad un piano per rendere la recessione più blanda e più breve possibile, ma per fare ciò sarà necessario prendere delle decisioni molto difficili.

La linea sarà quasi sicuramente improntata sull’austerity e dovrà portare l’inflazione a livelli accettabili, la  riduzione del debito pubblico e una crescita stabile. Intanto i ristoranti e i pub iniziano a correre ai ripari: in un quinto delle attività ha optato per la chiusura anticipata in modo da ridurre i costi delle bollette, mentre un quarto si ritrova a dover alzare i prezzi sui prodotti e servizi.

Sahel: Macron ufficializza la fine dell’operazione Barkhane

Il 9 novembre, in occasione di una cerimonia presso il porto di Tolone, il Presidente francese Emmanuel Macron ha ufficializzato la fine dell’operazione Barkhane, missione militare che vedeva impiegate le truppe francesi nella regione del Sahel.

Tale decisione è da ascrivere nel nuovo Piano strategico nazionale, documento ufficiale che descrive le priorità strategiche e militari della Francia fino al 2030. In base al nuovo piano, le missioni militari all’estero in Sahel subiranno delle riforme strutturali: avranno priorità l’addestramento e la formazione delle truppe locali rispetto alle attività svolte strettamente sul campo dai soldati francesi.

La necessità di rivedere la strategia in Sahel è la diretta conseguenza del fallimento della più ingente missione militare all’estero dell’Eliseo, l’operazione Barkhane. Questa operazione, ideata nel 2013, aveva lo scopo principale di combattere la presenza jihadista e di contribuire alla stabilità securitaria e politica della regione saheliana.

Il lascito coloniale francese nella regione, insieme ad una scarsa conoscenza delle dinamiche socio-culturali locali, hanno determinato la scarsa efficacia dell’operazione. Il Mali rappresenta un caso emblematico. Il Paese africano, a seguito dei due colpi di stato militari verificatisi tra il 2020 e il 2021, ha nei fatti “scacciato” la Francia che ha così deciso di ritirare la metà dei soldati già nell’estate 2021.

Il deterioramento delle relazioni tra Parigi e Bamako è stato anche favorito dalla campagna di disinformazione di Cina e Russia, entrambe interessate ad avere un ruolo in Africa. In particolare, la Russia, grazie alla presenza in loco dei mercenari della compagnia Wagner, ha allacciato delle relazioni militari con i Paesi saheliani a discapito della Francia.

Tuttavia, il Presidente Macron, durante il suo discorso a Tolone, ha affermato che «il nostro sostegno militare proseguirà, ma con delle modalità che decideremo insieme ai Paesi del Sahel e dell’Africa dell’ovest».

L’esercito francese è attualmente impiegato in Niger, Ciad, Burkina Faso e dispone di basi militari o di forze speciali in Costa d’Avorio, Senegal, Gabon e Gibouti. La collaborazione militare sarà sostenuta da una campagna di soft power, volta a rilegittimare la presenza francese nella regione.

Le nuove missioni in Africa dovranno comunque essere limitate nel tempo per evitare che si verifichi una nuova Barkhane. Inoltre, determinante sarà aprire un dialogo tra società civile e istituzioni in Sahel e investire per migliorare le condizioni socio-economiche degli abitanti. Solo così si potranno avere degli effetti di lungo periodo con benefici per la Francia e per l’Africa.

Migrazione: l’Italia rinnova il Memorandum d’intesa con la Libia

Il 2 novembre l’Italia ha rinnovato – per altri 3 anni – il Memorandum d’intesa sulla migrazione con la Libia. Il Memorandum, in realtà, consta di una serie di tematiche più ampie, ma la questione migratoria è l’elemento chiave.

L’accordo italo-libico è stato siglato il 2 febbraio 2017 dall’allora Presidente del Consiglio italiano Gentiloni e dal Presidente del Governo di Accordo Nazionale libico al-Serraj. In base all’accordo, le parti firmatarie si impegnano a cooperare nel campo dello sviluppo economico e della sicurezza, nella lotta all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani.

Nello specifico, l’Italia ha l’onere di finanziare e addestrare la Guardia costiera libica che ha il compito di sorvegliare il Mediterraneo centrale – in primis la rotta verso l’Italia – ed eventualmente, di respingere i migranti e i trafficanti di esseri umani in Libia.

Le autorità libiche e in alcuni casi le milizie operanti sul territorio trattengono in seguito i migranti respinti nei centri di accoglienza. L’Italia supporta con ulteriori fondi i centri per migranti e le aree depresse della Libia.

L’obiettivo principale del Memorandum d’intesa è quello di porre un argine all’ondata migratoria proveniente dalla sponda sud del Mediterraneo. Il crollo del regime di Muammar al-Gheddafi e il successivo scoppio della guerra civile in Libia avevano infatti reso i confini africani porosi.

In effetti l’accordo sembra aver ridotto buona parte delle partenze illegali dal Paese africano. Tuttavia, la controversia in seno all’accordo – far gestire i flussi migratori da parte di un’autorità costiera di uno Stato in guerra civile – ha destato molte critiche, specialmente dalle ong per il soccorso in mare e dalla società civile.

La prima problematica insita nel Memorandum sarebbe la violazione dei diritti umani dei migranti detenuti nei centri. Numerose organizzazioni non governative come Amnesty International testimoniano torture e trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei migranti.

Inoltre, il respingimento in mare da parte della Guardia costiera libica sarebbe in aperta violazione del principio di non refoulement, base del diritto internazionale dei migranti come sancito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Il governo italiano ha deciso di rinnovare il Memorandum, privilegiando gli interessi securitari dell’Italia.

Nel Mediterraneo e in generale a livello europeo, si è dunque riaperto il dibattito sulla questione migratoria. Tuttavia, finché non si creerà una comune politica migratoria europea, nella più ampia cornice di una politica estera unica, il problema resterà ancora aperto.

Incidente aereo in Tanzania: 19 morti e 24 sopravvissuti

Il 6 novembre un velivolo commerciale della compagnia Tanzania Precision Air ha effettuato un atterraggio di emergenza nel Lago Vittoria, a circa 150 metri dall’aeroporto di Bukoba, luogo previsto per lo sbarco dei passeggeri.

A bordo c’erano in tutto 43 persone tra cui 39 passeggeri, 2 piloti e 2 assistenti di volo. Secondo un comunicato rilasciato dalla compagnia aerea la sera del 6 novembre, il bilancio dell’incidente sarebbe di 19 morti e 24 sopravvissuti.

Il primo ministro tanzaniano Kassim Majaliwa ha affermato che le autorità competenti hanno recuperato tutti i corpi presenti all’interno dell’aereo, ma l’identificazione delle vittime non è ancora terminata.

Il volo era partito circa alle 6 del mattino, ora locale, dall’aeroporto di Dar es Salaam e il suo atterraggio era previsto alle 8.30 circa presso la città di Bukoba. Tuttavia, secondo quanto riportato dal Presidente della compagnia aerea Patrick Mwanri, alle 8:53 il centro operativo di controllo della compagnia non aveva ancora ricevuto la comunicazione dell’atterraggio. Solo in seguito, dunque, sarebbe scattato l’allarme e sarebbero cominciati i tentativi di ricerca del velivolo.

In base alle interviste dei sopravvissuti, rilasciate al giornale tanzaniano The Citizen, il velivolo avrebbe allungato la rotta aerea giungendo fino al confine con l’Uganda, per poi virare vicino a Bukoba, nei pressi del Lago Vittoria.

La causa principale dell’incidente sembrerebbe il maltempo improvviso: Makame Mbarawa, ministro tanzaniano dei trasporti, ha dichiarato alla CNN che le condizioni metereologiche intorno alle 8 del mattino erano favorevoli, ma in seguito, un fortissimo temporale e delle raffiche di vento di 43-45 chilometri orari, avrebbero ridotto la visibilità del pilota. Di qui la decisione di effettuare un atterraggio di emergenza nel Lago Vittoria.

In seguito all’incidente aereo, il Presidente Samia Suluhu Hassan ha richiamato alla calma i cittadini e ringraziato i soccorritori per la repentinità e l’efficacia del loro lavoro. Inoltre si è rivolto ai parenti e familiari delle vittime facendo loro le più sentite condoglianze. Il primo ministro, invece, ha affermato che l’incidente aereo non mina la credibilità e la sicurezza di Tanzania Precision Air che sta facendo tutto il possibile per recuperare gli averi dei passeggeri.

La compagnia aerea ha infatti istituito un centro informativo per i parenti delle vittime volto a trasmettere tempestivamente ulteriori comunicazioni. Le autorità competenti, invece, apriranno un’indagine sul caso.  

Belgrado e Pristina di nuovo ai ferri corti: dimissioni di massa dei funzionari serbi

L’obbligo di adottare una targa appartenente allo stato del Kosovo quando ci si trova nel suddetto territorio non piace né ai cittadini serbi né tantomeno al loro governo, che decide di non riconoscere e implementare tale regola anche per ribadire la propria posizione politica avversa a riconoscere l’esistenza del Kosovo come stato indipendente.

Come riporta euronews, dopo l’avviso delle imminenti sanzioni pecuniarie per chi utilizzerà una targa serba sul territorio del Kosovo, i serbi residenti nel nord del paese hanno deciso di manifestare il loro dissenso con un’ondata di dimissioni fra le fila dei funzionari pubblici (giudici e forze dell’ordine in particolare) che si sono poi riuniti in una grande manifestazione nella località Mitrovica, dove i serbi sono la maggioranza dei residenti.

La disputa sulle targhe è solo l’ennesimo motivo di frizioni fra i due governi e fra i vari popoli della regione: nel nord del paese la presenza dei serbi ortodossi non è trascurabile e la convivenza con kosovari e albanesi di fede islamica non è mai stata facile. Secondo i residenti serbi, oltre alle tensioni sociali vi è la chiara intenzione del governo di Pristina di privare i serbi dei loro diritti con il fine ultimo di indurli a lasciare il paese.

Dopo le proteste di Mitrovica, che hanno anche visto alcuni momenti di tensione, il politico serbo Goran Rakić (dimissionario anche lui dalla carica di ministro per la comunità e il ritorno dei profughi) ha rincarato la dose ribadendo con forza che i serbi non si arrenderanno alle richieste delle autorità kosovare.

Pristina intanto non sembra voler cambiare le regole ed i kosovari si appellano al contingente della KFOR in caso di un inasprimento delle tensioni e di possibili rivolte più gravi.

Dall’Europa arriva il tentativo di calmare le acque con il consiglio per entrambi i paesi di evitare decisioni unilaterali e di cercare una soluzione a livello europeo, per evitare di vanificare anni di lavoro fatti per stabilizzare le relazioni.

Al via la COP27 sul clima in Egitto: tra aspettative e realtà

Il 6 novembre si è aperta a Sharm el Sheikh, località turistica sul Mar Rosso, la 27esima Conferenza delle Parti (COP27) sul clima. La conferenza vede protagonisti leader mondiali, politici, scienziati, esperti e attivisti di questioni climatiche, tutti uniti da un unico obiettivo: trovare delle soluzioni condivise per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici.

La conferenza sul clima, a cadenza annuale, riunisce i rappresentanti di tutti gli Stati firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, entrata in vigore 30 anni fa. Data l’ampia adesione al trattato contro la crisi climatica, è prevista una grande partecipazione alla COP27 in Egitto.

Tra il 6 e il 7 novembre sono infatti giunti nel Paese africano i principali capi di Stato o di governo mondiali, tra cui anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La conferenza si è aperta con l’invito del presidente della COP27, il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, a non mettere in secondo piano la crisi climatica, in quanto «riguarda il nostro presente e il nostro futuro».

La cerimonia di apertura è poi proseguita con un video-messaggio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che, come riporta la BBC, si è mostrato preoccupato per gli scenari evidenziati dal report sullo stato globale del clima del 2022. Ha inoltre invitato i leader globali ad assumersi le loro responsabilità e a cooperare per trovare dei compromessi «efficaci» e «urgenti».

Il 7 novembre le parti convenute sono giunte ad una prima intesa per dare il via ai negoziati sui finanziamenti per coprire i danni causati da eventi metereologici straordinari, tematica discussa già durante la precedente COP26 di Glasgow.

La richiesta di finanziamenti per danni (e la rinegoziazione del loro ammontare) è sentita particolarmente dal continente africano che subisce gli impatti climatici più gravi rispetto al resto del mondo, nonostante produca meno del 4% delle emissioni globali di gas serra.

La COP27 vede in primo piano le necessità del continente, che, però potrebbero allontanare il raggiungimento degli obiettivi previsti dall’agenda climatica: l’abbassamento della temperatura terrestre, la riduzione delle emissioni di gas serra e l’impiego di energie rinnovabili.

La scelta dei rappresentanti africani verso la difesa dell’energia fossile – riaffermata durante la pre-COP presso la Repubblica Democratica del Congo – sarebbe infatti contestata sia dai leader dei paesi industrializzati che dagli attivisti. Tuttavia, come affermato da Amani Abou-Zeid, commissaria dell’Unione africana per le infrastrutture e l’energia, «l’Africa ha il diritto di realizzare sistemi produttivi competitivi e industrializzati».

La divergenza sull’impiego del fossile, ancora la risorsa energetica primaria soprattutto a seguito della guerra tra Russia e Ucraina, potrebbe essere dunque un fattore di frizione tra gli Stati partecipanti alla COP.

Inoltre, il mancato coinvolgimento e in molti casi la repressione – come riportato da Human Rights Watch – degli ambientalisti egiziani minerebbe il fondamentale legame che dovrebbe esistere tra ambiente e giustizia sociale.

Europa ed emergenza climatica: le temperature sono salite il doppio rispetto al resto del mondo

Il 2 novembre, la WMO (organizzazione meteorologica mondiale) ha pubblicato dei dati sul riscaldamento globale in vista della COP27: le temperature medie in Europa sono salite ad un ritmo doppio rispetto al resto del mondo e gli eventi atmosferici estremi (bombe d’acqua, ondate di calore, incendi, inondazioni) sono sempre più frequenti in tutto il continente, anche nelle zone in cui prima erano considerati fenomeni eccezionalmente rari.

Come riportato sul sito ufficiale della World Meteorological Organization, l’aumento della temperatura è stato di 0,5 gradi per decennio: un numero preoccupante di cui le conseguenze sono già visibili anche sui ghiacciai alpini, che si sono ritirati di ben 30 metri dal 1997.

Nel solo anno 2021 vi sono state centinaia di morti soprattutto a causa di tempeste e alluvioni, danni stimati in circa di 50 miliardi dollari e disagi per milioni di persone. Le previsioni non sono rosee: il 2022 è stato uno degli anni più caldi di sempre ma in futuro potrebbe essere ricordato come uno dei più freschi. 

Nessuna società avanzata sembra essere al sicuro da tali eventi e ciò che è accaduto in Europa è un avvertimento di quel che potrebbe accadere anche in altre parti del mondo.

Nonostante ciò, la mitigazione di alcuni fenomeni atmosferici sarebbe avvenuta con successo grazie alle politiche ambientali e climatiche adottate a partire dagli anni 90. L’Europa è sulla strada giusta per diventare il primo continente a zero emissioni e potrebbe quindi aprire la strada per gli altri continenti tra cui l’Asia, dove India e Cina sono le due economie più inquinanti in assoluto.      

Rimane comunque molto difficile convincere tutti i governi del mondo a cooperare per ridurre le emissioni. Parte delle condizioni causate dal cambiamento climatico sarebbero ormai irreversibili e l’obiettivo finale è quello di rallentare più possibile il processo di riscaldamento piuttosto che fermarlo del tutto, ipotesi al momento irrealistica a causa degli interessi diversi di ogni paese e dei costi elevati.

Algeria, l’inglese verrà insegnato fin dalle scuole primarie

0

Il Presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ha deciso, durante una riunione governativa dello scorso giugno, di inserire l’insegnamento della lingua inglese nei programmi scolastici delle scuole primarie. In questo modo, l’inglese sarà considerato come seconda lingua nel Paese alla pari del francese.

La decisione del Presidente è stata accolta con entusiasmo dall’opinione pubblica algerina. I partiti e le associazioni culturali nel Paese, infatti, premevano già da tempo le istituzioni affinché la lingua inglese fosse insegnata già agli studenti delle scuole primarie. Opinione condivisa anche da genitori e insegnanti, in quanto ritengono che la lingua inglese possa dare più opportunità lavorative e accademiche ai giovani algerini rispetto al francese.

Il nuovo ruolo affidato alla lingua inglese in Algeria e in generale nella regione è sostenuto anche da numerosi islamisti arabi, tra cui spicca Tareq Al-Suwaidan che, in occasione di una conferenza all’università marocchina di Temara nel 2016, ha incoraggiato gli studenti marocchini ad abbandonare la lingua francese e ad adottare quella inglese, descritta come «la lingua della scienza, della civiltà e del commercio».

L’invito a superare «l’egemonia culturale francese» è stato recepito in maniera significativa dall’Algeria sia dai vertici istituzionali che dalla società civile, spinti dal desiderio di tagliare i rapporti con la Francia, ex potenza coloniale. Emblematiche in tal senso sono state le parole del Presidente Tebboune – riportate da Middle East Monitor – che ha definito la lingua francese «bottino di guerra» e «inutile».

Secondo un sondaggio effettuato dal ministero dell’educazione e della ricerca scientifica, circa il 94% della popolazione è d’accordo con la sostituzione del francese con l’inglese sia a scuola che nell’amministrazione.

Esistono delle esigue resistenze da parte delle vecchie generazioni, abituate ormai all’utilizzo del francese nel settore commerciale ed imprenditoriale. Ma le cose stanno cambiando in quanto, l’apertura dell’Algeria al commercio internazionale, specialmente per la vendita di risorse energetiche, sta spingendo le aziende nazionali ad utilizzare l’inglese per le trattative.

Inoltre, anche in ambito diplomatico la lingua inglese ha assunto maggior influenza, i comunicati ufficiali sono infatti redatti in arabo e inglese. In occasione della visita in Algeria del Presidente francese Macron, il posto d’onore riservato a Macron era indicato con la scritta “French Presidency”. L’assenza della lingua francese durante il ricevimento ha sorpreso gli ambasciatori presenti che non si aspettavano un’azione del genere da parte dell’Algeria.

La decisione del Presidente Tebboune di inserire l’inglese nei programmi scolastici fin dalla primaria, dunque, è la rappresentazione di una nazione «stanca del francese», come dichiarato da un’insegnante intervistata da Africanews, e aperta a nuove opportunità a livello locale e internazionale.

Kiev rimane al buio

Negli ultimi giorni si sono susseguite numerose segnalazioni da parte dei residenti nella zona settentrionale di Kiev, i quali hanno lamentato prolungate interruzioni di corrente: «Non c’è luce, non c’è connessione internet né linea telefonica. Io e mio figlio eravamo seduti nel corridoio e senza sapere che l’allarme era ormai terminato da quattro ore. Siamo dovuti correre fuori per scoprire cosa stesse succedendo», racconta un intervistato residente a Kiev.

Secondo varie testimonianze di questo tipo, raccolte dalla BBC Russian News, nella zona residenziale a nord di Kiev, a Obolon, nessun operatore di telefonia mobile risulterebbe operativo, mentre la connessione internet è praticamente scomparsa. L’unico luogo in cui sembra esserci un po’ di campo è nel passaggio sotterraneo in cui tutti si riuniscono, rendendo il luogo a tutti gli effetti un punto di ritrovo. Per strada, le persone trasportano acqua in bottiglia ad altri che non riescono a rimediarla, parlano al telefono, cercano di aggiornarsi sulle notizie. Come racconta un’altra donna intervistata, trovare un punto in cui è possibile connettersi. nel centro della città è meno complicato:  «Il lunedì mattina è iniziato senza corrente ne connessione internet, ho fatto colazione al suono delle esplosioni e dei missili che volavano sulla città. Per pubblicare questo post, sono dovuto andare in centro, dove c’era almeno un po’ di connessione internet».

I servizi di telefonia mobile e internet dipendono da una fornitura stabile di elettricità e gli attacchi degli ultimi giorni da parte della Russia, continuamente rivolti alle infrastrutture energetiche, non fanno che peggiorare la situazione. Kyivstar che, fornendo una copertura del 99% del paese, rappresenta il più grande operatore di telefonia in Ucraina, ha dichiarato a più riprese di lavorare e fare del suo meglio per garantire il funzionamento delle comunicazioni mobili anche durante le prolungate interruzioni di corrente. In questo momento di estrema difficolta, in cui viene quotidianamente ostacolata la possibilità di garantire il servizio, l’azienda è costretta spesso a utilizzare generatori diesel mobili. parte delle stazioni sono dotate di alimentatori autonomi che, a seconda del carico della rete, possono funzionare autonomamente per tre o quattro ore.

Come riportato dall’agenzia RBK-Ukraina, i dipendenti di Kyivstar hanno dato spiegazioni circa il malfunzionamento o, in alcuni casi, la totale assenza di internet, sottolineando il fatto che queste apparecchiature richiedano molta energia, la quale non può essere sempre ottenuta dalle centraline d’emergenza, predisposte invece per dare la priorità alla stabilità delle linee telefoniche.

Poco dopo l’inizio della guerra, gli operatori di telefonia mobile ucraini Vodafone, Kyivstar e Lifecell hanno lanciato un servizio di “roaming nazionale”, nel tentativo di limitare quelli che ormai sono disagi quotidiani: nel caso in cui la rete di un operatore non sia disponibile, è possibile passare ad altri operatori. Sulla falsa riga di iniziative simili, il Ministro ucraino per la Trasformazione Digitale Mykhaylo Fyodorov ha dichiarato che il governo ha in programma di creare reti Wi-Fi pubbliche alimentate da Tesla Powerwall e terminali Starlink. Il primo di essi dovrebbe entrare in funzione già nella prima metà di novembre.

Rimedi indispensabili per disagi con i quali gli ucraini vivono da mesi.

Lega Araba ad Algeri: l’unità araba contro le crisi in Africa e Medio Oriente

L’1 e il 2 novembre si sono incontrati ad Algeri re, presidenti, emiri, primi ministri e alti rappresentanti internazionali in occasione del 31esimo summit della Lega Araba. Obiettivo dichiarato è stato quello di far fronte comune contro le antiche e nuove crisi in Africa e Medio Oriente.

La riunione della Lega Araba, organizzazione internazionale costituita da 22 Stati membri (la cui maggioranza della popolazione è di etnia araba), è avvenuta dopo 3 anni dalla precedente. Causa principale del rinvio del summit è stato lo scoppio della pandemia di COVID-19 che ha ridotto gli spostamenti non necessari. Per questo motivo, l’attuale incontro ad Algeri si è caricato di aspettative e di entusiasmo.

Gli unici due Stati assenti alla riunione sono stati l’Arabia Saudita a causa dei problemi di salute del principe ereditario Mohammed bin Salman, e la Siria di Bashar al-Assad, per la situazione di crisi interna al Paese.

All’apertura della conferenza è intervenuto per primo il Presidente algerino Tebboune che ha insistito sull’importanza di ideare un’azione araba collettiva per fronteggiare le sfide contemporanee del mondo arabo.

Tra queste spicca la crisi alimentare ed energetica in alcuni Stati arabi, soprattutto Egitto, Libano e Tunisia, sorta a seguito dello scoppio della guerra tra Russia e Ucraina. Il blocco del passaggio di grano e carburante attraverso il Mar Nero ha determinato una diminuzione delle importazioni di questi beni nella regione, il che a sua volta ha provocato crisi economica (con aumento dei prezzi e inflazione) e forti tensioni sociali.

Una situazione altrettanto drammatica a causa della carenza di derrate alimentari si riscontra in Siria, dove sono stati rilevati casi di colera, in Yemen, in cui i 2/3 della popolazione necessitano dell’assistenza umanitaria e in Somalia, oggetto di una siccità senza precedenti.

Un’azione diplomatica congiunta degli Stati arabi, insieme alla neutralità di fronte alla guerra russo-ucraina, permetterebbe di risolvere il problema alimentare e di acquisire legittimità sul piano politico. Legittimità che passa anche attraverso la risoluzione dei conflitti e la stabilità nei principali archi di crisi del mondo arabo: Yemen e Siria in guerra civile, la Somalia per la presenza jihadista sul territorio, il Libano per la crisi finanziaria ed istituzionale, la Libia per la minaccia securitaria e, infine, le frizioni diplomatiche in Maghreb.

Un altro punto all’ordine del giorno, come riporta France24, è stato quello della questione israelo-palestinese che il Presidente algerino ha definito «la madre di tutte le questioni». Nonostante alcuni Stati arabi abbiano ormai normalizzato le relazioni con Israele, l’Algeria ha riaffermato l’importanza di supportare la causa palestinese e la formazione di uno Stato indipendente. Traguardo al momento impossibile a causa dei «metodi coercitivi di occupazione israeliana».

Nonostante le dichiarazioni di principio, in merito anche alla crisi climatica che attanaglia la regione, non sono però stati proposti meccanismi o iniziative volte a realizzare progetti risolutivi.

Polonia: Varsavia continua la sua guerra al passato abbattendo altri monumenti sovietici

Durante la scorsa settimana, con l’ausilio di martelli e gru, sono stati smantellati 4 monumenti nelle località di Głubczyce, Bobolice, Mokre e Byczyna. 

Le statue erano risalenti agli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e furono erette per commemorare i soldati dell’armata rossa caduti durante la liberazione della Polonia dalle truppe naziste.                                                            

Tali monumenti sono abbastanza comuni in Polonia: a commemorare più di 400mila soldati sovietici caduti vi sono diverse centinaia di targhe commemorative, statue e mezzi corazzati di guerra trasformati in monumenti.                                                                                                                                   

Dal 1989 i vari governi di Varsavia si sono prodigati nella rimozione di tali monumenti per separarsi una volta per tutte dal passato sotto l’ombra dell’Urss, ritenuto da molti una pagina di storia triste e dolorosa.

Come riportato da euronews, Karol Nawrocki, il presidente dell’Istituto storico nazionale polacco, afferma che quella sovietica più che una liberazione è stata una colonizzazione della Polonia che ha causato la morte di moltissimi polacchi.  

Ogni anno in Polonia vengono rimosse decine di monumenti risalenti all’epoca della guerra fredda e ora, con l’inizio del conflitto in Ucraina, il governo di Varsavia ha deciso di accelerare tali operazioni anche per manifestare il proprio dissenso verso le azioni della Russia.                    

Secondo quanto riportato da reuters, Dimitri Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha reagito definendo le parole di Nawrocki come “una menzogna mostruosa, poiché migliaia di cittadini sovietici hanno dato la vita per liberare la Polonia” e “un altro tentativo di ingannare la gioventù polacca, menzogne per fomentare l’odio verso la Russia”.  Inoltre, per le leggi della Federazione Russa gli atti di vandalismo e la distruzione dei monumenti dedicati alla memoria e alla cultura russa sono punibili con una multa o con la reclusione, anche per i reati che avvengono all’estero.

La questione dei monumenti dedicati al passato sovietico è da sempre stata un motivo di discordia nella relazioni russo-polacche, già tese da diversi anni. Molti polacchi sembrano condividere l’idea della rimozione dei monumenti, per evitare che quel passato doloroso venga celebrato, mentre una minoranza sostiene che si tratti comunque della storia del paese e che in  quanto tale vada preservata nonostante le visioni politiche.

Germania: gli affari di Scholz con la Cina che spaventano Bruxelles

0

Da alcune settimane il governo tedesco sta partecipando in alcuni negoziati con i rappresentanti dell’azienda statale cinese Cosco, che ha manifestato la sua volontà di acquistare la quota del 35% del terminal Tollerort del porto di Amburgo, sollevando dissensi da diversi ministeri tedeschi e da Bruxelles.

Le critiche mosse dai diversi ministeri riguardano la dipendenza dalle esportazioni cinesi: la Cina è già il primo partner commerciale della Germania e l’influenza del gigante asiatico è aumentata considerevolmente negli anni, tanto da diventare motivo di preoccupazioni.

La preoccupazione dei ministeri, e di diversi membri dello stesso partito di Scholz, è che la presenza cinese stia diventato ingombrante e che possa diventare troppo influente a livello politico ed economico, indebolendo così la sovranità tedesca.

L’avvertimento, come anche sottolineato dal presidente tedesco Steinmeier, è che gli scambi economici con i paesi esteri non rappresentano sempre un avvicinamento politico ed anzi possono essere utilizzati come strumenti impropri di pressione politica, basti pensare ai recenti comportamenti della Russia nei confronti dell’Europa dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina.

Come riportato da rainews.it, le polemiche dal mondo politico sembrano non aver modificato le intenzioni di Scholz, che ha deciso di mandare avanti le trattative, inserendo tuttavia delle limitazioni per calmare le acque: la quota sarà ridotta al 24.9% e vi sarà il divieto per la Cosco di nominare i manager, oltre alla limitazione sui diritti della compagnia di imporre veti riguardanti le decisioni strategiche.

Il porto di Amburgo è il terzo porto più importante d’Europa ed è quello più grande della Germania. La cinese Cosco, che si occupa di spedizioni e logistica, vi opera da più di 40 anni e ha l’ambizione di rendere il porto europeo un hub privilegiato per le sue rotte nel continente.

Forum internazionale di Dakar: al centro del dibattito la pace e la sicurezza in Africa

Tra il 24 e il 25 ottobre ha avuto luogo a Dakar il Forum internazionale sulla pace e sicurezza in Africa, evento ormai giunto alla sua ottava edizione. Lanciato in occasione del Vertice dell’Eliseo del 2013 in Francia, si tiene annualmente nella capitale senegalese, scelta proprio per la sua posizione geografica a cavallo tra gli archi di crisi principali.

Al forum hanno partecipato 40 centri di ricerca e organizzazioni non governative, 20 organizzazioni internazionali e oltre 40 Paesi e alti rappresentanti istituzionali o diplomatici. La maggioranza dei partecipanti, ovviamente, è rappresentata da capi di Stato o alti funzionari africani, proprio per le specificità delle istanze raccolte dal forum.

Il principale obiettivo del forum è trovare una soluzione condivisa, a livello africano e in parte internazionale, alle sfide che si trova a fronteggiare il continente africano, prima tra tutte quella della sicurezza. La risoluzione dei conflitti e la conseguente stabilità securitaria e politica sono infatti la precondizione per promuovere sviluppo e prosperità nell’Africa del domani, in cui i giovani giocheranno un ruolo fondamentale (il 50% della popolazione africana ha meno di 20 anni).

Come riporta Africanews, Macky Sall, presidente senegalese e dell’Unione Africana, in occasione dell’apertura della conferenza ha messo in luce l’importanza del multilateralismo a livello africano e internazionale per attuare delle strategie efficaci volte a risolvere la crisi securitaria. Si è parlato anche del ruolo dell’Africa nelle organizzazioni internazionali, ipotizzando una riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in modo da garantire una maggiore influenza del continente sulla scena mondiale.

Per fare ciò, è necessario accordarsi prima di tutto su un rappresentante univoco a livello internazionale. In un’intervista di France24, Niagalé Bagayoko, analista esperta in scienze politiche, ha affermato che nonostante le dichiarazioni di principio, ci sono ancora delle tensioni tra alcune grandi potenze africane (Algeria, Egitto, Nigeria, Sudafrica) che potrebbero ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo.

È invece stata rilevata all’unanimità l’importanza dell’ottenimento di una “sovranità securitaria” che permetta agli Stati africani di gestire tra di loro le crisi locali – emblematica quella terroristica nel Sahel e nell’Africa occidentale – senza interferenza di attori esterni. Il riferimento è alle missioni di mantenimento della pace o di repressione del terrorismo gestite dagli Stati europei, in particolare la Francia con l’operazione Barkhane. In questo progetto di ritrovata sovranità, gli attori internazionali dovrebbero solo assistere i Paesi africani con supporto logistico o finanziario, permettendo così una maggiore autonomia dell’Africa.

Algeria, le fazioni palestinesi firmano un accordo di riconciliazione

L’11 ottobre scorso, 14 gruppi politici palestinesi si sono riuniti ad Algeri per partecipare a un ciclo negoziale organizzato dallo Stato algerino. L’obiettivo dell’incontro era quello di riprendere un canale di dialogo tra le diverse fazioni palestinesi e dare nuovo slancio alla questione palestinese.

In queste circostanze il 13 ottobre si è arrivati alla firma della “Dichiarazione di Algeri”, un accordo di riconciliazione tra i gruppi politici palestinesi che prevede l’impegno a svolgere elezioni legislative e presidenziali nei Territori palestinesi entro un anno. Inoltre, si è sottolineata l’importanza di riformare la struttura dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), organizzazione fondata nel 1964 e legittima rappresentante di tutto il popolo palestinese (anche quello della diaspora).

La larga intesa raggiunta, merito anche della mediazione algerina, è di importante rilievo, in quanto potrebbe essere un primo passo verso la ricomposizione della frattura geografica, territoriale e politica dei Territori palestinesi.

Dal 2007, i Territori palestinesi sono divisi tra la Striscia di Gaza, controllata da Hamas – movimento radicale palestinese considerato un’organizzazione terroristica da numerosi Paesi occidentali e da Israele – e le enclave della Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in cui la prima forza politica risulta essere Fatah, storico partito di stampo laico e aperto al dialogo con lo Stato ebraico.

Come riporta Al Jazeera, il leader di Fatah ha dichiarato: “Noi siamo molto orgogliosi di essere qui presenti, insieme al Presidente algerino Tebboune. Vogliamo porre fine alla frattura politica e firmare questo accordo per liberarci del cancro che mina la causa palestinese”. Il rappresentante di Hamas, invece, ha mostrato meno ottimismo in merito alla firma dell’accordo, ma spera che la riconciliazione possa fare da apri via per una collaborazione duratura.

Non è la prima volta che le principali forze politiche palestinesi, Hamas e Fatah, firmano un accordo di riconciliazione (l’ultimo di essi nel 2021 sotto il patrocinio egiziano e saudita). Inoltre, le elezioni politiche e presidenziali previste per il maggio 2021 – uno degli impegni assunti dalle parti nell’ambito dell’accordo – sono state poi rinviate a data da destinarsi dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, decisione che ha minato la fragile intesa con il movimento Hamas.

Per queste ragioni, l’opinione pubblica palestinese ritiene che l’accordo non darà gli esiti sperati. Tra gli impegni presi, infatti, non c’è la creazione di un governo di unità nazionale che favorirebbe effettivamente un’unione di intenti in sede negoziale e un impegno più costruttivo nella creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Chi risulta essere il vincitore di questo ciclo negoziale è invece l’Algeria che vuole allargare la sua influenza nel mondo arabo, a seguito di un nuovo slancio nella sua politica estera. Il Paese ospiterà a novembre il summit della Lega Araba, organizzazione internazionale di Stati del Nord Africa e della penisola araba.

L’Algeria con queste mosse sta cercando di diventare una potenza regionale a tutto tondo, rappresentante quella parte di mondo arabo che non ha normalizzato le relazioni con Israele e che continua a sostenere la causa palestinese.

L’esercito russo costringe Kiev al buio

Tra la notte di venerdì 21 e l’alba di sabato 22 ottobre, l’esercito russo è tornato ad attaccare le infrastrutture energetiche ucraine nelle regioni centrali, meridionali e occidentali del Paese.

Stando a quanto riportato dalla Ukraïns’ka pravda, l’azienda Ukrenergo (operatore del sistema elettrico in Ucraina ed unico operatore delle linee di trasmissione ad alta tensione del paese) afferma che le conseguenze di questo bombardamento potrebbero essere altrettanto gravi, o addirittura peggiori, rispetto ai precedenti attacchi.
Tecnici e specialisti dell’azienda stanno lavorando con impegno al fine di ripristinare l’alimentazione elettrica il prima possibile, in particolare in quelle regioni rimaste totalmente senza corrente elettrica. Nel weekend, infatti, la società ucraina ha dichiarato che la fornitura di energia elettrica a Kiev, così come in altre città importanti sia ora ridotta e limitata al minimo indispensabile.

Nastojaščee Vremja, canale televisivo in lingua russa, riporta le parole del portavoce del presidente ucraino, Andrej Ermak, che definisce quanto avvenuto «un altro attacco missilistico da parte di terroristi che continuano ad attaccare infrastrutture e civili».
L’uomo ritiene il sogno dei russi, volto a fermare la liberazione del territorio ucraino, infantile, sottolineandone l’effetto che tali atti hanno sugli ucraini, rendendoli sempre più determinati e pronti a dare una risposta ancora più forte.

Il Comando dell’aeronautica delle Forze armate ucraine riferisce sul proprio portale quanto avvenuto nei dettagli: alle 7 di sabato, ora locale, è stato lanciato un massiccio attacco missilistico (per un totale di 33 missili) contro il territorio dell’Ucraina, con obiettivo le infrastrutture civili di primaria importanza. L’esercito russo ha schierato almeno 10 aerei strategici dal distretto di Volgodonsk della regione di Rostov, mentre altri 16 missili Kalibr sono stati lanciati da navi nel Mar Nero.

Nel tentativo di limitare i danni, le Forze armate ucraine affermano che l’aviazione, la contraerea e le unità missilistiche ucraine, così come le squadre di fuoco mobili, hanno distrutto 18 missili.

Il Ministero della Difesa russo non ha ancora commentato l’episodio.

Due settimane fa l’esercito russo ha lanciato il suo primo attacco su larga scala alle infrastrutture energetiche ucraine. Questo attacco è avvenuto poco dopo il bombardamento del ponte di Crimea, episodio che le autorità russe hanno definito “attacco terroristico”, attribuendolo all’Ucraina.

Come afferma la BBC Russian News, Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha prontamente negato il suo coinvolgimento con quanto avvenuto sul Ponte di Crimea, ha dichiarato questa settimana che «dal 10 ottobre il 30% delle centrali elettriche ucraine è stato distrutto, causando massicce interruzioni di corrente in tutto il Paese». «Non c’è più spazio per i negoziati con il regime di Putin», ha concluso in maniera perentoria il presidente ucraino.

Gran Bretagna alle prese con il disastro del suo governo più breve

È durato solamente 45 giorni l’esecutivo guidato dalla premier conservatrice: in poco tempo ha visto un’insurrezione del mercato e di diversi membri del suo stesso partito, per non menzionare dimissioni nel governo e un malcontento generalizzato fra la popolazione.

Sembra che le misure proposte dalla Truss siano da subito apparse impopolari, tanto da generare una serie di fluttuazioni sul mercato, già in difficoltà a causa della crisi causata dalla guerra in Ucraina. Tra i suoi piani più criticati vi è senz’altro quello di tagliare le tasse ai più ricchi, revocato quasi subito dopo aver causato un crollo della sterlina. In 6 settimane il lavoro svolto è stato minimo e gli aiuti tanto attesi dai privati e dalle aziende non sono mai arrivati.

Il 20 ottobre, poche ore dopo le dimissioni del ministro degli interni Braveman, è toccato alla Truss. Secondo quanto riportato da Skytg24, la decisione sarebbe arrivata a seguito del colloquio con sir Graham Brady, presidente del Commitee 1922 dei parlamentari conservatori.              

Le reazioni dal mondo sono state diverse: dall’Europa si alza l’unanime auspicio che la Gran Bretagna ritrovi presto la stabilità, mentre dagli Stati Uniti si ribadisce la forte alleanza fra i due paesi e la determinazione a collaborare con i governi futuri. Molto diversa invece la reazione della Russia, che attraverso i canali ufficiali del Cremlino sottolinea e ironizza l’imbarazzo della leadership inglese causato dal governo Truss, che aveva promesso di impegnarsi nell’ostacolare la Russia nella guerra in Ucraina.

A Londra intanto si pensa a chi prenderà il posto della premier uscente: in un primo momento molti tabloid hanno previsto con certezza l’ascesa di Rishi Sunak, mentre nelle ultime ore è tornato all’attenzione di tutti anche il nome di Boris Johnson, che secondo alcune voci sarebbe pronto a ricandidarsi.

Nonostante il terremoto politico, i Tories fanno sapere che entro una settimana sarà eletto il loro nuovo leader, il nome potrebbe essere reso noto ancora prima se vi sarà un solo candidato.

Sono tempi molto incerti per la Gran Bretagna, che afflitta dalla perdita della sua monarca più amata e dalla crisi energetica, si ritrova ora a dover fronteggiare anche una crisi politica.

L’accordo tra Libia e Turchia fa riemergere la competizione energetica nel Mediterraneo orientale

Il 3 ottobre scorso le delegazioni internazionali di Libia e Turchia hanno stipulato un’intesa energetica che prevede lo sfruttamento di idrocarburi nel suolo e nelle acque territoriali libiche.

Il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu, durante la cerimonia ufficiale per la stipulazione del partenariato energetico, ha affermato che l’accordo è solo il primo passo di una più ampia collaborazione economica con la Libia.

I dettagli dell’accordo non sono stati resi pubblici, ma quel che si sa è che saranno le compagnie energetiche dei rispettivi Paesi ad occuparsi dei ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale presenti in Libia e a ridosso delle sue coste, nell’ottica di favorire uno scambio di tecnologie e competenze settoriali.

L’intesa energetica ha provocato reazioni negative da parte degli altri Paesi mediterranei tra cui Israele, Cipro, Egitto e Grecia. Grecia ed Egitto, in particolare, interessati direttamente dalla competizione per le risorse (energetiche e non) nel Mediterraneo orientale, sarebbero gli Stati più danneggiati dal rinnovato legame tra Turchia e Libia.

Grecia ed Egitto hanno infatti stipulato nel 2020 un accordo per delimitare le loro zone economiche esclusive (ZEE), cioè le porzioni di mare adiacenti alle acque territoriali dove lo Stato che le possiede ha il diritto di sfruttare le risorse naturali (ittiche, energetiche e del fondale) ivi presenti. Il problema è che tali ZEE coincidono in parte con i confini delle zone economiche esclusive di Libia e Turchia, come stabilito dal loro patto firmato nel 2019.

Alla luce di queste considerazioni, si comprende come gli interessi strategici ed economici di Atene e Il Cairo siano completamente opposti a quelli di Ankara e Tripoli. Non sono tardate dunque le accuse da parte dei diplomatici greci ed egiziani nei confronti dell’intesa energetica, definita contraria al diritto internazionale del mare e per questo priva di valore.

Come riporta Reuters, il ministro degli esteri greco Nikos Dendias ha dichiarato che il Governo di Unità Nazionale (GNU) di Tripoli, presieduto da Dbeibah, non disporrebbe dell’autorità e della legittimità necessaria a stipulare accordi internazionali. In Libia, infatti, dal maggio scorso, vigono de facto due governi: quello di Tripoli, riconosciuto dalla Comunità internazionale e quello di Tobruk, il cui rappresentante è Bashagha.

Sono sorte obiezioni in merito all’intesa energetica anche nella stessa Libia. In primis è intervenuto Aguila Saleh, Presidente del Parlamento libico di Tobruk, affermando che Dbeibah non è più il premier legittimo, in quanto si sarebbe dovuto dimettere a seguito delle elezioni previste il dicembre 2021 (poi rinviate) in base alle indicazioni delle Nazioni Unite. Secondo North Africa Post, anche il Consiglio Presidenziale Libico avrebbe espresso le sue rimostranze, segnalando di non essere stato consultato previa stipulazione dell’accordo.

La partita nell’arena geopolitica del Mediterraneo orientale è dunque aperta. La Libia ancora una volta si trova ad essere teatro di tensioni che potrebbero degenerare sia al suo interno che nel resto della regione.

Epidemia di Ebola in Uganda, due distretti in lockdown

In base alle ultime disposizioni delle autorità competenti, bar, locali notturni, luoghi di culto e sale per spettacoli resteranno chiusi per tre settimane a seguito della diffusione del virus Ebola in Uganda. Entrerà in vigore il coprifuoco come ulteriore misura di contenimento.

Le restrizioni si applicheranno solo nei distretti di Mubende e Kassanda a causa dell’elevato numero di casi, ma il Presidente Yoweri Museveni, dapprima scettico verso l’introduzione di restrizioni alla libertà personale, non esclude la possibilità di estendere le misure ad altri distretti qualora la situazione peggiorasse.

Kampala ha registrato il primo caso ufficiale di Ebola lo scorso 20 settembre come riporta il ministero della salute ugandese. Il “paziente zero” sarebbe un ragazzo di 24 anni residente in un villaggio nel distretto di Mubende, epicentro dell’epidemia a 80 km dalla capitale. Il ragazzo presentava inizialmente una serie di sintomi non direttamente collegabili al virus, ma, successivamente, la comparsa di febbre emorragica avrebbe spinto i medici dell’ospedale della capitale a inviare le analisi del sangue all’Istituto di ricerca per le malattie infettive.

I referti dell’istituto hanno poi dimostrato che si tratta di una particolare variante di Ebola, ascrivibile al ceppo sudanese (SUDV), per il quale non sono previsti vaccini autorizzati. I sintomi dell’Ebola-SUDV comprendono vomito, diarrea, febbre, emorragia esterna o interna e, nei casi peggiori, possono portare alla morte. Il virus si trasmette attraverso il contatto diretto con fluidi corporei o sostanze contaminate.

Come riporta BBC Africa, il ministero della salute ugandese in data 17 ottobre ha registrato 58 casi confermati di Ebola, tra cui 17 morti. Il numero potrebbe essere sottostimato a causa delle lacune nel sistema di tracciamento nazionale.

L’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) in Africa ha dichiarato che la situazione è sotto controllo, ma è necessario un costante monitoraggio e una maggior collaborazione tra cliniche pubbliche e private. Da parte sua, il Presidente ugandese ha affermato di aver ordinato alla polizia di intervenire qualora i residenti dei distretti oggetto di lockdown non rispettino l’isolamento. Inoltre, ha interdetto ai guaritori tradizionali di gestire pazienti infetti da Ebola.

Il ricordo dell’epidemia di Ebola del 2011 è ancora molto presente nella memoria collettiva ugandese: allora, la variante dello Zaire aveva mietuto almeno 11 mila vittime solo in Uganda. Per evitare una possibile tragedia, dunque, si sono riuniti i ministri della salute di nove Stati africani (Burundi, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Liberia, Ruanda, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania e Uganda) per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed evitare che diventi transnazionale.

Durante l’incontro tenuto a Kampala, i ministri si sono accordati su una serie di misure comuni per migliorare il sistema di comunicazione e monitoraggio dei casi di Ebola SUDV, attraverso una cooperazione rafforzata di informazioni e di scambio di personale sanitario. Inoltre, hanno stabilito di implementare delle campagne di sensibilizzazione della popolazione per porre presto fine alla diffusione del virus.

Tunisia, proteste popolari contro il Presidente Kais Saied

Migliaia di tunisini si sono riversati nelle piazze della capitale al grido di “Giù il Presidente”, “Rivolta contro il dittatore”, “Saied a casa”, come riporta Jeune Afrique. I dimostranti imputano al Presidente della Repubblica la difficile situazione in cui versa il Paese, con una crisi economica e un’inflazione senza precedenti.

Le proteste non sono acefale, ma sono organizzate da due forze politiche ascrivibili all’opposizione al regime di Saied. La prima di queste si chiama Fronte di salvezza nazionale e il suo rappresentante è il partito di ispirazione islamista Ennahda (“rinascita”) che, nella scalata al potere di Saied, è stato oggetto di una dura repressione. La seconda invece è il partito Neo-Dustur (“nuova Costituzione”), anti-islamista, ma anche contrario all’autoritarismo di stampo populista del Presidente.

La stampa indipendente tunisina ha sottolineato con stupore la vitalità del fronte dell’opposizione, come dimostrato dalla larga partecipazione alle proteste. Infatti, a seguito del congelamento delle attività del Parlamento e della presa dei pieni poteri del Presidente Saied del luglio 2021, la stragrande maggioranza dell’opposizione è stata indagata o arrestata. Il timore di ulteriori repressioni aveva fatto sì che le precedenti proteste scoppiate nel Paese fossero di carattere spontaneo o in genere meno strutturate.

Neanche in occasione della votazione del referendum costituzionale dello scorso luglio –referendum popolare volto ad approvare la nuova Costituzione– erano scesi in strada così tanti cittadini. Saied godeva infatti del consenso di una maggioranza silenziosa, disillusa nei confronti del parlamentarismo post-Primavera araba e desiderosa di stabilità politica e, principalmente, di benessere economico.

Tuttavia, il benessere economico tanto sperato non è arrivato. Le difficoltà della Tunisia, in crisi economica da almeno 10 anni, sono aumentate a causa della pandemia globale da Covid-19 e delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina. La diminuzione delle importazioni di derrate alimentari e di idrocarburi, di cui la Tunisia è fortemente dipendente, ha provocato un aumento dell’inflazione (+9%). Il dialogo con il Fondo Monetario Internazionale è aperto, ma l’impronta autoritaria del Presidente, insieme alla scarsa affidabilità dei conti pubblici, fa rallentare i negoziati.

Se non si troverà una soluzione alla crisi politica ed economica tunisina, il dramma si riverserà in Unione europea e, soprattutto, in Italia: è notizia di pochi giorni fa il naufragio al largo delle coste tunisine di una nave carica di migranti –sia cittadini tunisini sia dell’Africa Subsahariana– partita dal porto di Zarzis come riporta Al Araby.

A Zarzis sono scoppiate in seguito forti proteste cariche di indignazione e rabbia nei confronti della Guardia costiera tunisina che non sarebbe intervenuta nel salvataggio dei migranti. Il malcontento, dunque, sembrerebbe diffuso e in crescita in tutto il Paese.

Premio Sakharov, Julian Assange fra i finalisti

Il premio Sakharov, pensato per premiare gli sforzi di organizzazioni o individui che si sono impegnati nella difesa dei diritti dell’uomo, potrebbe essere consegnato al fondatore di Wikileaks, detenuto dal 2019 in Gran Bretagna e a rischio di estradizione negli Stati Uniti dove rischierebbe di finire i suoi giorni in prigione.

Il giornalista, attivista ed informatico è diventato famoso nel 2010 dopo aver rivelato una serie di crimini di guerra americani compiuti in Afghanistan, di cui le prove furono pubblicate sul sito Wikileaks, che già da anni si occupava di pubblicare informazioni riservate su presunti crimini e abusi di potere da parte di governi e singoli capi di stato in tutto il mondo. Negli Stati Uniti su Assange pendono diversi capi di accusa, fra cui quella di spionaggio, che potrebbe risultare in una condanna a più di 100 anni di carcere.

La proposta di nominare Assange è partita dal movimento 5 stelle, che senza alcun appoggio da parte di altri partiti politici è riuscito a raccogliere 40 preferenze trasversali in tutto il parlamento europeo, garantendo così al candidato di apparire nella lista dei tre finalisti che includono anche il popolo ucraino (rappresentato dal presidente Zelensky) e la commissione Verità in Colombia.

La conferenza dei presidenti del Parlamento europeo deciderà il nome del vincitore verso la fine di ottobre ed è altamente probabile che la scelta ricada sul presidente Zelensky.

Come riportato da  europatoday.it, il premio verrà conferito il 14 dicembre, e l’auspicio dell’eurodeputata Sabrina Pignedoli, che ha proposto il nome di Assange per il premio, è quello di vedere il fondatore di Wikileaks da uomo libero in parlamento quando verrà annunciato il vincitore.

La presenza del padre di Wikileaks alle finali della selezione è già di per sé una vittoria per la sua famiglia e i suoi sostenitori poiché, nonostante si tratti di una vicenda di più di 10 anni fa, è ancora molto sentita a livello internazionale e attorno ad essa si sono concentrati molti dibattiti e proteste a favore della libertà di espressione.

Lesotho, il partito Rivoluzione per la Prosperità vince le elezioni politiche

Il partito Rivoluzione per la Prosperità (RPP) ha vinto le ultime elezioni legislative del Regno del Lesotho, a scapito dei principali partiti tradizionali. Il partito Unione dei Basotho, a capo della coalizione del governo uscente, ha infatti registrato la peggiore sconfitta degli ultimi anni, conquistando solamente 8 seggi.

Come riporta TV5 Monde, la ricerca di novità e cambiamento dei cittadini basotho ha premiato una nuova forza politica, il cui rappresentante è il ricco uomo d’affari Sam Maketane. Estraneo alle dinamiche politiche, è il classico prototipo del self made man: di umili origini, è riuscito a passare dall’allevamento di asini ad un settore redditizio come quello dei diamanti, che gli ha permesso a sua volta di disporre di un grosso capitale da investire in iniziative aziendali.

Tale biografia ha accresciuto il carisma di Maketane di fronte agli occhi dell’elettorato. È importante sottolineare che, il Lesotho, piccola enclave montagnosa del Sudafrica, è classificato tra gli Stati più poveri al mondo, con un terzo della popolazione che percepisce come reddito medio 1,90$ al giorno. Nell’immaginario collettivo, quindi, il milionario Maketane è fonte di ammirazione e di emulazione.

Inoltre, il programma politico del partito RPP ha come punti chiave lo sviluppo economico del Paese, la riduzione delle disuguaglianze e la lotta contro la corruzione del sistema politico. Obiettivi assolutamente prioritari per la riforma del Lesotho.

Tuttavia, il partito RPP, non è riuscito a ottenere i 61 seggi che gli avrebbero permesso di governare il Paese da solo. In Lesotho vige infatti una legge elettorale proporzionale, con un premio di maggioranza per il partito che riesce a ottenere i due terzi dei voti in Assemblea Nazionale.

Dopo un giorno di trattative, il partito di Maketane ha raggiunto un accordo per un governo di coalizione insieme a due partiti di centro-sinistra, Alleanza dei Democratici e Movimento per il Cambiamento Economico. Dato l’orientamento politico simile, si è giunti ad un compromesso in breve tempo.

Il nuovo governo sarà già operativo nelle prossime settimane. Durante la prima conferenza a seguito delle elezioni, come riporta il sito ufficiale del governo basotho, Makane ha dichiarato di essere pronto a cambiare il Lesotho. Per prima cosa verrà garantito a tutti l’accesso all’elettricità e all’acqua e, successivamente, verranno attuate le riforme economiche e i lavori infrastrutturali che permetteranno al Regno di svilupparsi.

Crisi energetica: Serbia e Ungheria pronte alla costruzione di un oleodotto “alternativo”

0

Come riportato da Reuters, il presidente serbo Vučić ed il premier ungherese Orbán hanno concordato la costruzione di un nuovo oleodotto in Ungheria che si allaccerà ai condotti del Druzhba, oleodotto russo che da anni rifornisce Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca.           

L’Ungheria di Viktor Orbán è stata fin ora il paese membro dell’Unione Europea più scettico in tema di sanzioni contro Mosca, sollevando spesso dei dubbi sulla loro efficacia, tanto da arrivare a parlare addirittura di un referendum che porti il popolo ungherese a decidere se applicarle o meno. Dal canto suo la Serbia, anch’essa interessata ad entrare nell’Unione, ha sempre rifiutato di supportare qualsiasi tipo di sanzioni mantenendo invece molto attivi i rapporti con Mosca. Nessuno dei due paesi è pronto a rinunciare alle risorse energetiche fornite a buon mercato dalla Russia.

Il piano sul tavolo dei due paesi è quello di costruire una nova infrastruttura per far arrivare gli idrocarburi dagli Urali direttamente in Serbia attraverso l’Ungheria, bypassando quindi l’oleodotto usato in territorio croato, che a detta del governo di Belgrado sarà presto difficilmente utilizzabile a causa delle sanzioni sempre più severe applicate nei confronti del Cremlino.

Il tutto sarà facilitato dalle temporanee esenzioni all’embargo Ue sul petrolio russo concesse al governo di Budapest, che negli ultimi anni ha rafforzato i contatti con la Russia soprattutto nel settore energetico, rendendo il paese largamente dipendente dalle risorse russe.

Secondo quanto citato da EuropaToday.it, il governo serbo avrebbe già pensato ad un piano da 12 miliardi di euro da investire per la connessione infrastrutturale all’Ungheria; un’altra parte dei fondi sarà invece utilizzata per il rinnovamento delle infrastrutture energetiche esistenti. Tali progetti verranno sicuramente supervisionati dalla NIS, l’unica compagnia petrolifera serba, di cui più di metà delle quote sono detenute dal gruppo Gazprom.

Oleodotto. Fonte: Piaxabay.

Somalia, ucciso il co-fondatore di al-Shabaab

Il governo somalo ha affermato che l’operazione militare di counter-insurgency contro il gruppo jihadista pro al-Qaeda ha avuto esito positivo. Abdullahi Nadir, co-fondatore e probabile futuro leader del movimento, è stato ucciso a seguito di un attacco aereo a Jibil, città del sud-ovest della Somalia.

Su Nadir, la cui biografia presenta contorni incerti, pendeva una taglia del valore di 3 milioni di dollari ed era sulla lista nera dei terroristi ricercati dagli Stati Uniti.

In base alle dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’informazione somalo, Mohamed Aden Sheikh, l’uccisione di Nadir rappresenta una grossa perdita per il gruppo armato del “Partito dei Giovani” (Ḥizb al-Shabāb). Il co-fondatore, dalla forte impronta carismatica, era infatti il volto dell’organizzazione in quanto capo della sezione mediatica.

La sua scomparsa potrebbe dunque minare il tenore dei militanti di al-Shabaab, come successe con l’uccisione di Osama bin Laden per al-Qaeda. Nonostante ciò, è necessario tenere in conto la struttura non verticistica delle organizzazioni terroristiche, suddivise in numerose cellule con una forte adattabilità e capacità di rinnovamento.

Per le istituzioni somale resta comunque un’importante vittoria simbolica, tenuto conto che fino a non poco tempo fa la Somalia era considerata uno Stato fallito.

Il raggiungimento di questo obiettivo è frutto di un’ampia e proficua collaborazione tra le forze di sicurezza somale, il supporto logistico e tecnologico statunitense e la missione di peace-keeping dell’Unione Africana.

Lo sforzo congiunto di queste tre realtà è iniziato già da un paio di mesi: lo scopo principale è quello di ridurre e, nel lungo periodo, sconfiggere la radicata presenza di al-Shabaab nel Paese. Da una parte, cercando di togliere ai jihadisti il controllo delle zone rurali e, dall’altra, di colpire bersagli ben precisi per minare la resistenza della sua leadership.

L’offensiva contro al-Shabaab si articola in due missioni. La prima è gestita dalle forze regolari somale e dal corpo ATMIS (African Transition Mission in Somalia) e opera a Hiran, nel sud del Paese; la seconda, invece, vede protagonisti i commandos di Danab, ramo dell’esercito somalo addestrato per operazioni speciali.

La buona riuscita delle missioni – come riporta France24 – è anche l’esito di un rinnovato impegno politico da parte del Presidente Hassan Sheikh Mohamud, eletto lo scorso maggio, il quale ha promesso di combattere strenuamente al-Shabaab e di riportare la pace e la riconciliazione nel Paese.

La reazione del gruppo terroristico non è tardata: a seguito dell’uccisione del futuro leader, sono stati effettuati tre attentati nella città di Beledweyne, in cui sono morte almeno 20 persone e molte altre ferite. Inoltre, è stata colpita la base militare governativa di Lama Galaay attraverso l’utilizzo di auto-bombe.

In risposta agli attentati, il commissario di polizia della provincia di Beledweyne ha rilasciato un comunicato, come riporta l’agenzia di stampa somala Garowe Online: “Siamo in lutto, ma non versiamo lacrime. Avremo la nostra rivincita su al-Shabaab”.

Burkina Faso: Ibrahim Traore è il nuovo capo di Stato

La TV di stato ha annunciato che Ibrahim Traore è il capo del nuovo governo militare che avrà come priorità la garanzia dell’indipendenza nazionale e della continuità dello Stato.

Traore, capitano dell’esercito burkinabé, è stato acclamato dalla folla a Ouagadougou dopo giorni di violenza che avevano portato al rovesciamento di Paul-Henri Damiba, anch’egli militare, accusato di non avere raggiunto gli obiettivi securitari accordati con l’esercito.

La presa del potere manu militari non è una novità in Burkina Faso – si tratta infatti del secondo golpe nel giro di un anno – e rappresenta uno schema assai diffuso nell’Africa occidentale.

In una regione in fermento, in cui il monopolio della forza legittima è diviso tra milizie locali, esercito e attori esterni, la presa di potere di Traore viene vista come ulteriore fattore di destabilizzazione.

Non sono mancate infatti le condanne da parte dell’Unione Africana e della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), i cui delegati sono giunti in Burkina Faso per intavolare trattative sulla transizione democratica.

Come riporta Reuters, l’ECOWAS terrà aperto il dialogo con i golpisti solo se si impegneranno a fissare le elezioni nel Paese entro due anni.

I burkinabé, tuttavia, sono ormai sfiduciati verso le istituzioni democratiche, considerate deboli e incapaci di garantire loro la sicurezza dai gruppi jihadisti e l’accesso alle risorse di base.

La scommessa sugli uomini forti, di cui Traore è l’emblema, è il motivo per cui la società civile ha approvato silenziosamente o in alcuni casi acclamato il nuovo governo militare sperando in un miglioramento della situazione securitaria.

La mancanza di fiducia verso la democrazia è frutto non solo di dinamiche endogene, ma, come sottolinea Jeune Afrique, della debolezza delle strategie di stabilizzazione e di sviluppo da parte delle potenze internazionali, prima tra tutte la Francia, il cui lascito coloniale ha lasciato una grande impronta nel Paese.

Proprio per queste ragioni, a seguito del golpe, un gruppo importante dei burkinabé filo-golpisti ha assaltato l’ambasciata francese e alcune attività commerciali, al grido di “fuori la Francia”.

Come riporta al-Jazeera, la nuova giunta militare ha accusato la Francia di supportare alcune proteste contrarie al nuovo regime scoppiate nella capitale. La ex potenza coloniale avrebbe accolto il Presidente Damiba, una volta deposto. La Francia, dal suo canto, nega la veridicità di queste informazioni e dichiara di non essere intervenuta negli scontri.

Il Presidente Damiba, scappato in Togo, avrebbe invece trovato un accordo con la giunta pochi giorni dopo il golpe. Damiba si sarebbe garantito l’incolumità in cambio della non interferenza nella leadership di Traore.

Speculazioni sull’interferenza di altri attori esteri, invece, sono state sollevate dagli Stati Uniti. La presenza di bandiere russe e gli slogan “Lunga vita alla cooperazione Russia-Burkina Faso” farebbero pensare ad una collaborazione tra l’esercito e il gruppo Wagner. Se così fosse, l’interventismo russo nel Sahel si allargherebbe anche al Burkina Faso, con il rischio di ulteriore destabilizzazione e autoritarismi nell’area.

Colombia in soccorso: Cuba lotta contro il crollo della produzione di uova

L’11 marzo 2024 alle ore 11:00 locali è partita dalla Colombia una spedizione di 518.400 uova diretta a Cuba. Come riporta El Tiempo, due container delle dimensioni di 40 piedi (circa 12.000 metri) contenenti la merce sono arrivati sull’isola dei Caraibi il 14 marzo 2024.

L’accordo per la spedizione è stato stipulato tra i due Paesi in occasione della trentanovesima edizione della Fiera Internazionale dell’Avana (FIHAV) che, come riporta il sito Cuba Business Report, è la fiera commerciale più grande e importante dell’America latina e dei Caraibi. L’evento si è svolto a novembre 2023 e ha dato la possibilità a commercianti e compratori di visionare e acquistare prodotti da tutto il mondo e ha permesso alle aziende di farsi conoscere nel panorama internazionale del commercio.

Stando a quanto riporta Ansa, le autorità cubane avrebbero dichiarato che, a partire dallo scorso anno, la produzione di uova a Cuba sia crollata del 50% e che l’allevamento di pollame dell’isola sia attualmente al 50% della capacità produttiva. Tutto ciò è avvenuto a causa di un’influenza aviaria e della malattia di Newcastle (un’infezione che colpisce i volatili). Tutto ciò ha portato ad un aumento dei prezzi sui prodotti avicoli. 

La malattia pare invece non aver colpito il pollame colombiano, come afferma Juan Fernando Roa Ortiz, direttore generale dell’Instituto Colombiano Agropecuario (ICA). Ciò ha permesso di concordare con il governo cubano una spedizione che, come riporta El Colombiano, lo stesso istituto ha dichiarato di voler rendere mensile per tutto l’anno.

Come riferisce El Nuevo Siglo, quest’esportazione ha segnato un primo riaggancio commerciale tra la Colombia e Cuba, tramite la partecipazione e l’impegno congiunto del Ministero del Commercio, dell’Industria e del Turismo della Colombia, di ProColombia, delle associazioni del settore agricolo e delle autorità cubane e colombiane, il tutto allo scopo di far ripartire l’economia dell’isola.

Tiktok: Sí della Camera USA al divieto

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un disegno legge per vietare l’utilizzo di Tiktok a livello nazionale. Riporta la BBC che all’azienda cinese ByteDance sono stati concessi sei mesi per vendere le sue quote e per evitare che la piattaforma venga messa al bando negli Stati Uniti. L’azienda con sede a Pechino, ha uffici in tutta Europa e negli Stati Uniti.

Anche se il disegno legge è stato approvato a larga maggioranza, deve essere ancora approvato dal Senato e deve essere firmato dal presidente per diventare legge. Riferisce la CNN, il presidente Joe Biden ha dichiarato che firmerà il disegno di legge se arriverà sulla sua scrivania.

Inoltre, secondo quanto riporta la CNN, i funzionari e i legislatori statunitensi hanno espresso la loro preoccupazione sui potenziali rischi di TikTok per quanto riguarda la sicurezza nazionale, inclusa la possibilità di condividere dati con il governo cinese o di manipolare i contenuti visualizzati sulla piattaforma. Tuttavia, TikTok ha respinto queste affermazioni.

Hakeem Jeffries, leader democratico della Camera ha accolto favorevolmente la proposta di legge in quanto la vendita della piattaforma diminuirebbe «la probabilità che i dati degli utenti di TikTok vengano sfruttati e la privacy minata da un avversario straniero ostile». Invece, l’ex presidente Donald Trump, che durante il suo mandato ha tentato di vietare l’utilizzo dell’app, ora si è espresso contro il disegno legge.

Inoltre, mercoledì scorso, molti sostenitori di TikTok si sono riuniti davanti alla Casa Bianca per protestare contro il disegno legge. Inoltre, vi sono alcune testimonianze di giovani che guadagnano tramite questa piattaforma. Una tra queste è Mona Swain, una creatrice di contenuti, che ha dichiarato alla BBC che i suoi guadagni tramite l’applicazione sono serviti a pagare il mutuo della madre e gli studi universitari dei fratelli. E, ha affermato che «essere lasciata fuori in un momento così folle della mia vita e di quella di molti altri creatori, è davvero, davvero spaventoso».

Secondo quanto riporta la BBC, la società ha già valutato il valore dell’applicazione che è di circa 268 miliardi di dollari. E, anche se la società cinese ByteDance dovesse ottenere l’approvazione per vendere le proprie quote, non è ancora chiaro se qualcuno dei suoi concorrenti abbia i fondi per lanciare un’offerta per l’acquisto della piattaforma.

È morto Paul Alexander, l’uomo dal polmone d’acciaio

Paul Alexander, soprannominato “the man in the iron lung” (l’uomo dal polmone d’acciaio) e “Polio Paul” si è spento all’età di 78 anni, l’11 marzo 2024 in un ospedale di Dallas, dove era stato ricoverato a causa del COVID-19. Come riporta il sito della BBC, Alexander è stato un sopravvissuto della poliomielite, malattia contratta nel 1952 all’età di 6 anni che lo ha lasciato permanentemente paralizzato dal collo in giù, precludendogli la possibilità di respirare autonomamente.

Secondo Euronews, per cercare di porre rimedio alla condizione di Alexander, i medici hanno deciso di inserirlo in un cilindro di metallo (chiamato, appunto, “polmone d’acciaio”) che, tramite un pompaggio meccanico dell’aria, gli permetteva di respirare. L’uomo ha vissuto per 70 anni nel polmone.

Come si può leggere sul sito di NBC News, la morte di Alexander è stata annunciata martedì 14 marzo 2024 tramite la sua pagina GoFundMe, tramite cui arrivavano le donazioni che l’uomo utilizzava per le spese quotidiane. 

Nello specifico, a dare la notizia della scomparsa è stato il fratello di Paul, Philip, che ha dichiarato: «Sono estremamente grato a chiunque abbia donato alla raccolta fondi per mio fratello, […] Gli ha permesso di vivere i suoi ultimi anni senza stress. Ci permetterà anche di pagare il suo funerale in questi tempi duri. È incredibile leggere i commenti e sapere che così tante persone sono state ispirate da Paul. Sono veramente grato».

Nonostante la condizione apparentemente limitante in cui Alexander si trovava, ciò non ha fermato l’uomo dal raggiungere diversi traguardi: come riporta CBS News, ha sensibilizzato la ricerca per la poliomielite, si è laureato in economia e in legge e ha passato l’esame di avvocatura a seguito del quale ha praticato la professione di avvocato a Dallas. Infine, nel 2014 ha vinto un Guinness World Record per essere il più longevo paziente con un polmone d’acciaio e, nel 2020, ha pubblicato un libro di memorie, intitolato Three Minutes for a Dog: My Life in an Iron Lung.

Aereo militare precipita in Russia: è il secondo in tre mesi

Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che martedì 12 marzo 2024 un aereo da trasporto militare si è schiantato nella regione di Ivanovo, a nord-est di Mosca. Secondo quanto riporta il The Moscow Times, sull’aereo erano presenti otto membri dell’equipaggio e sette passeggeri. Al momento non si hanno notizie certe sulle loro condizioni anche se, stando a fonti non confermate, nessuna delle quindici persone a bordo sembra sia sopravvissuta allo schianto.

Secondo quanto riportato da CBS News, durante la fase di decollo da una base militare, l’aereo da trasporto militare Ilyushin ll-76 sarebbe precipitato a causa di un malfunzionamento di uno dei quattro motori che avrebbe poi scatenato l’incendio. Il Ministro della Difesa russo ha dichiarato: «Secondo quanto riportano testimoni sulla scena, la causa del disastro è stata dovuta a un incendio avvenuto in uno dei motori durante il decollo dell’aereo».

Come riferisce il sito di TGLA7, il video dello schianto, ripreso da alcuni civili a terra che hanno assistito alla scena, è stato poi reso pubblico su X (l’ex Twitter).

Come riporta il sito di Internazionale, l’incidente dell’aereo da trasporto strategico Ilyushin Il-76 sarebbe il secondo nel giro di tre mesi: il 24 gennaio 2024 un aereo militare russo con a bordo 74 persone è precipitato al confine con il suolo ucraino, nella regione del Belgorod. Nello schianto sono morti 65 militari ucraini prigionieri di guerra. Secondo il governo russo, questo incidente sarebbe stato causato da un attacco delle forze ucraine, mentre Kiev ha prontamente smentito la notizia. Come riportato dalla CNN, i servizi segreti ucraini hanno dichiarato: «Ciò che è accaduto potrebbe indicare azioni deliberate da parte della Russia volte a mettere in pericolo la vita e la sicurezza dei prigionieri. L’atterraggio di un aereo da trasporto in una zona di combattimento di 30 chilometri non può essere sicuro e, in ogni caso, andrebbe discusso da entrambe le parti, perché mette a rischio l’intero processo di scambio [dei prigionieri, N.d.R.].».

I 5 punti chiave del discorso di Joe Biden al Congresso

Il 7 marzo 2024, l’attuale Presidente degli USA, Joe Biden, ha dato il via alla sua campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti con un discorso sullo Stato dell’Unione davanti al Congresso, i cui punti chiave sono stati la democrazia, l’Ucraina, l’aborto e la fecondazione assistita, l’economia statunitense e il conflitto a Gaza; non sono mancati inoltre rimproveri e critiche all’Amministrazione Trump, come riporta Il Sole 24 Ore.

Biden avrebbe voluto sensibilizzare il Congresso e l’intera popolazione americana, dichiarando: «La libertà e la democrazia non sono mai state sotto attacco quanto lo sono oggi […] sia nella nostra patria, sia all’estero».

Il primo punto toccato dal Presidente riguarda le azioni politiche e militari di Putin e il sostegno da parte della Casa Bianca a Zelensky. Inoltre, Biden ha dichiarato di voler continuare a fornire armi e protezione al popolo ucraino e, come riferisce la BBC, ha invitato il Congresso ad approvare il disegno di legge per i finanziamenti a Kiev.

Nel discorso, non sono mancate le critiche nei confronti dell’ex presidente americano Donald Trump, accusato di aver concesso alla Russia totale libertà di manovra. Nonostante il nome di Trump non sia mai stato fatto esplicitamente, i riferimenti all’ex Presidente parrebbero inequivocabili, stando a quanto riportato dalla CNN: per 13 volte Biden avrebbe citato “il mio predecessore” durante il discorso.

Il Presidente ha criticato Trump anche per essere stato tra gli autori del blocco alla fecondazione in vitro in molti Stati americani e per essersi opposto all’interruzione volontaria di gravidanza, dichiarando: «Molti di voi in quest’aula, come anche il mio predecessore, promettono di voler far passare un divieto nazionale sulla libertà riproduttiva». La promessa di Biden è stata quella di ristabilire il diritto all’aborto, come riferisce Sky TG24.

Biden si è poi soffermato molto sulla situazione economica statunitense, promettendo di riportare in auge l’economia del Paese a seguito della crisi economico-sanitaria causata dalla pandemia di COVID-19 del 2020. Inoltre, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha elogiato i traguardi lavorativi ed economici raggiunti dall’attuale Amministrazione e promesso riduzioni fiscali per permettere alla popolazione americana di usufruire di diversi servizi pubblici,in particolare, quelli sanitari, senza dover incorrere in tasse troppo elevate.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, sono stati espressi dall’amministrazione Biden posizioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese, tra cui il sostegno a Israele, l’intenzione di liberare gli americani presi in ostaggio da Hamas e la volontà di inviare aiuti umanitari a Gaza per i civili palestinesi feriti negli scontri. 

«Dio vi benedica. E che Dio protegga le nostre truppe» sono state le parole conclusive del discorso di Joe Biden al Congresso.