In Sudan torna lo spettro della pulizia etnica, effetto della rivoluzione che ha portato i militari a spodestare il dittatore Omar al-Bashir nell’aprile 2019, che è stata seguita da un colpo di stato che ha rimosso i leader civili e poi, questa primavera, dallo scoppio della guerra tra l’esercito del Sudan e le forze paramilitari. A un ritmo incessante, lo scontro tra l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (RSF) del tenente generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, si è diffuso in tutto il paese. Si stima che finora siano state uccise più di 10.000 persone e 4,8 milioni sfollate all’interno del paese, mentre altri 1,2 milioni sono fuggiti nei paesi vicini. La coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per il paese, Clementine Nkweta-Salami, ha dichiarato che all’inizio di questo mese la violenza contro i civili è “al limite del male puro”. L’avidità di risorse e di potere, le rivalità e gli odi di lunga data, alimentano il fuoco. Si ritiene, infatti, che più di 1.000 membri della comunità Masalit siano stati uccisi ad Ardamta, nel Darfur occidentale, all’inizio di novembre dalle RSF e dalle milizie arabe alleate.
Quello che per alcuni mesi è sembrato uno stallo nella guerra più ampia si è trasformato con drammatici guadagni da parte delle RSF nelle ultime settimane in Darfur e altrove nell’ovest, e avanza nelle ex roccaforti dell’esercito. Funzionari statunitensi, europei e africani ritengono che le spedizioni di armi dagli Emirati Arabi Uniti e attraverso il Gruppo Wagner siano state fondamentali, anche se gli Emirati Arabi Uniti affermano di non equipaggiare nessuna delle due parti. Anche il sostegno dell’Egitto all’esercito sudanese, sebbene meno sostenuto, ha aggravato il conflitto. Come affermato dal Guardian, i governi occidentali dovrebbero fare pressione su Abu Dhabi e Il Cairo affinché si ritirino. Una prospettiva è che il Sudan possa effettivamente essere diviso in due zone, come è successo in Libia.
Anche il compito fondamentale di nutrire i rifugiati non è adeguatamente affrontato: l’ONU ha avvertito che il cibo, per il mezzo milione di persone che sono fuggite in Ciad, finirà il mese prossimo senza ulteriori finanziamenti. Funzionari e analisti avvertono della mancanza di impegno internazionale e dell’urgenza quando si tratta di trovare una via d’uscita da questo conflitto. Anche se entrambe le parti apparentemente volevano riprendere i colloqui a Jeddah, le speranze di una svolta sono basse. In mezzo a tutto questo, gli innocenti sono terrorizzati, e l’aspirazione a un governo civile sembra un sogno che si allontana. I generali, però, hanno dimostrato di non essere né adatti a governare il Sudan, né in grado di farlo.