Il governo argentino guidato da Javier Milei ha recentemente emanato un decreto che reintroduce termini obsoleti e offensivi per classificare la disabilità intellettiva, scatenando una vasta ondata di critiche.
Secondo quanto riportato da El País, la normativa, pubblicata il 14 gennaio, utilizza espressioni come “idiota”, “imbecille” e “debole mentale” per descrivere diversi gradi di disabilità.
Questa classificazione, basata su un decreto del 1998 firmato dall’allora presidente Carlos Saúl Menem, suddivide la disabilità intellettiva in categorie considerate superate e discriminatorie. Il decreto definisce “idiota” chi non ha sviluppato il linguaggio, non sa leggere né scrivere, non riconosce il denaro e non è autonomo nelle funzioni basilari; “imbecille” chi, pur non sapendo leggere e scrivere, è in grado di soddisfare bisogni elementari e svolgere compiti rudimentali; e “debole mentale” chi possiede un vocabolario limitato e può eseguire operazioni semplici.
L’indignazione non si è fatta attendere. L’uso di questa terminologia ha scatenato una valanga di proteste: sette organizzazioni argentine per i diritti umani, guidate dall’Associazione Civile per l’Uguaglianza e la Giustizia (ACIJ), hanno chiesto all’esecutivo di abrogare questa normativa, sostenendo che rappresenta un significativo passo indietro nei diritti delle persone con disabilità, tornando a un modello medico obsoleto.
Come sottolineato da La Capital, diverse organizzazioni hanno denunciato il decreto come un passo indietro nei diritti delle persone con disabilità e una violazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Argentina nel 2008. Anche l’Associazione Provinciale di Istituzioni per Persone con Disabilità di Santa Fe (Apridis) ha espresso forte preoccupazione, temendo che dietro la reintroduzione di questi termini vi sia una visione più ampia di ridimensionamento delle politiche di sostegno, con possibili tagli ai finanziamenti e minore tutela per le persone fragili.
Inoltre, si teme che l’inasprimento dei criteri per l’ottenimento delle pensioni di invalidità possa escludere molte persone che necessitano di supporto economico, aumentando la loro vulnerabilità e rendendo più difficile la loro piena inclusione nella società.
La pressione sociale ha costretto il governo a intervenire. L’Agenzia Nazionale per la Disabilità (ANDis), attraverso un comunicato ufficiale pubblicato sui social media, ha riconosciuto che l’uso di tali termini è stato un “errore” e ha assicurato che la normativa verrà rivista, promettendo di apportare al più presto modifiche su di essa al fine di allinearla agli standard internazionali e adottare una terminologia più rispettosa.
Tuttavia, molti attivisti ritengono che questa marcia indietro non sia sufficiente. Come evidenziato da El País, il problema non è solo lessicale: il linguaggio adottato riflette un’idea antiquata della disabilità, che rischia di tradursi in politiche pubbliche meno inclusive e in un arretramento nella tutela dei diritti.
Se il governo manterrà la promessa di correggere il decreto, il problema immediato potrebbe essere risolto, ma per molti il vero interrogativo è un altro: questa vicenda è solo un incidente di percorso o il sintomo di una politica più ampia che rischia di compromettere anni di conquiste sui diritti delle persone con disabilità?