venerdì, 3 Maggio 2024
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Il Regno Unito annuncia un piano per aumentare il commercio estero

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Il piano britannico Sold To The World ha lo scopo di aiutare le aziende a cogliere nuove opportunità nei mercati globali.

L’anno scorso, il Regno Unito ha esportato circa 600 miliardi di sterline in beni e servizi, ma solo un’azienda britannica su dieci opera all’estero. Il Ministro per il Commercio Internazionale britannico, Anne-Marie Trevelyan, ha affermato che è vitale per le aziende «liberare il loro pieno potenziale di esportazione». Nei 12 punti del piano, le agenzie governative, come UK Export Finance, offriranno nuovi servizi per sostenere gli esportatori del Regno Unito ad assicurarsi nuovi affari. Inoltre, ci sarà un programma fieristico per aiutare le aziende britanniche nell’esposizione dei loro prodotti, in occasione di eventi internazionali.

Il corrispondente per il Commercio globale della BBC, Chris Morris, afferma che tali obiettivi erano stati fissati in precedenza ma non sono stati raggiunti, mentre in altri Paesi le esportazioni si sono riprese più rapidamente dalla battuta di arresto dovuta al coronavirus. La causa principale «sembra essere la Brexit», ha aggiunto Morris. Infatti, secondo il britannico Office for National Statistics, le esportazioni di beni del Regno Unito verso l’UE sono scese del 40,7% (6,5 miliardi di euro), mentre le importazioni dall’UE al Regno Unito sono scese del 28,8% (7,7 miliardi di euro). Il commercio britannico, invece, con il resto del mondo è aumentato dell’1,7% (0,2 miliardi di euro), ma non è stato in grado di compensare il crollo con quello dell’Unione europea. Nel complesso, le esportazioni e le importazioni del Regno Unito sono diminuite di circa un quinto: si tratta della più grande contrazione del commercio britannico da oltre vent’anni.

Il previsore indipendente dell’Ufficio per la Responsabilità di Bilancio stima che in futuro le esportazioni verso l’UE saranno inferiori di circa il 15%. «Le aziende hanno affrontato a testa alta le sfide che la Brexit ha lanciato loro per la maggior parte degli ultimi cinque anni», ha dichiarato Emma Rowland, consulente politico presso l’Institute of Directors. «Sebbene vi sia un potenziale significativo per l’attività commerciale nel resto del mondo – ha aggiunto – il governo deve garantire una soluzione pragmatica alle sfide dell’esportazione verso l’UE. Solo allora l’export britannico sarà in grado di realizzare il suo pieno potenziale.»

Inflazione in America Latina: prezzi dei prodotti alle stelle

«Lo stipendio non basta», è diventata ormai la frase più pronunciata dalla maggioranza dei latinoamericani, visti gli alti livelli del tasso di inflazione annuale. Juan Carlos Martínez, professore di economia presso l’università IE Business School, afferma che: «L’America Latina quest’anno sarà la regione con l’inflazione più alta del pianeta». 

Essa si appresta a vivere un periodo estremamente delicato in un contesto globale di molta liquidità, di difficoltà nelle catene di approvvigionamento, dell’aumento del prezzo delle materie prime (in particolare il cibo e l’energia), del deprezzamento delle valute dell’America Latina e di una forte ripresa dei consumi.

Per comprendere perfettamente ciò che si sta verificando, è opportuno analizzare dettagliatamente alcuni dati che riguardano l’aumento del tenore di vita. Infatti, in Argentina il costo della vita è aumentato del 52,1%, in Brasile dell’11,1% e in Messico del 6,2% nel mese di ottobre, in relazione con lo stesso periodo dell’anno precedente.

Mano che simboleggia l’unione di tutti i Paesi dell’America Latina. Fonte: Wikimedia Commons

Questi sono i Paesi che occupano i primi posti della classifica in cui si è registrato un sostanziale aumento del costo della vita, ma non sono gli unici. Quest’ultimi sono seguiti nel ranking da Cile, Perù e Colombia, rispettivamente con il 6%, il 5,8% e il 4,5%. È possibile affermare che questo fenomeno non riguarda solo l’America Latina, ma anche altri Paesi come gli Stati Uniti, dove l’incremento si è attestato al 6,2% nel mese di ottobre, la cifra più alta registrata negli ultimi trent’anni. 

Chiaramente, i comparti che più stanno soffrendo gli aumenti inflazionistici risultano essere quelli del cibo, del petrolio, del gas e dell’energia elettrica. In aggiunta, essendo considerati beni di prima necessità, sono le famiglie più vulnerabili a subire gli effetti più duri dell’aumento del costo della vita. 

Fornendo esempi più concreti, in Messico, il prezzo dell’olio da cucina è salito vertiginosamente del 32% rispetto allo scorso anno. In Brasile, i settori più colpiti sono stati quelli del cibo, dell’energia elettrica e dell’abbigliamento, raggiungendo i valori più alti negli ultimi 19 anni. In Cile, addirittura il servizio di trasporto aereo è salito del 79,5% e l’inflazione nel Paese ha raggiunto il livello massimo negli ultimi 13 anni. Facendo un paragone, a livello globale, il prezzo del petrolio e quello del grano sono saliti del 69% e il prezzo dell’olio di soia è salito alle stelle, raggiungendo persino un aumento del 100%. 

Come si stanno comportando I Paesi dell’America Latina per reagire a questa crisi?

Vi sono diverse reazioni e modi di agire: ad esempio, il Brasile e il Cile, stanno agendo in maniera abbastanza aggressiva sui tassi di interesse. Altri, al contrario, preferiscono aspettare per adottare le misure più adeguate. Ad ogni modo, i forti aumenti dei prezzi avranno un effetto di rallentamento economico, motivo per cui è doveroso che ogni Paese trovi un equilibrio per bilanciare e riprogrammare le sfide future. 

Yunior García, il leader della protesta anticastrista in corso a Cuba

Yunior García è ad oggi il simbolo della protesta attualmente in corso a Cuba, poiché è diventato di fatto il portavoce del desiderio di cambiamento dell’isola.

Il drammaturgo di 39 anni è stato il promotore della marcia pacifica che avrebbe avuto luogo lunedì 15 novembre per le strade dell’Avana, se non fosse stato lui stesso bloccato dagli agenti della Sicurezza di Stato e disposto agli arresti domiciliari.

Parliamo di un personaggio controcorrente, che, seppur formatosi nel contesto influenzato dal regime, ha comunque sviluppato forti inquietudini che l’hanno poi indotto a mettere in discussione tutto quanto il sistema, con la ferma convinzione che questo si scagli contro chiunque dimostri dissidenza e polemicità.

Yunior García è nato ad Holguín (Cuba), una città nota per i propri abitanti valorosi e agguerriti, che nel corso della storia si sono opposti prima all’egemonia della Corona spagnola e in seguito alla dittatura di Fulgencio Batista.

Il drammaturgo si è dedicato sin dall’infanzia all’arte dello spettacolo, e all’età di 17 anni è stato ammesso alla Scuola Nazionale delle Arti di Cuba (ENA), dove ha studiato recitazione. È stato proprio qui che ha iniziato ad interrogarsi non soltanto sulla cultura, ma anche sul regime e su quanto questo influisca persino in qualcosa di così “libero” come l’arte. È diventato quindi, e continua ad esserlo tutt’oggi, a distanza di anni, uno dei più importanti rappresentanti di quella generazione che esige il cambiamento.

Protesta a Cuba. Fonte: Wikimedia Commons

In seguito alla protesta di 300 giovani artisti di fronte al Ministero della Cultura del 27 novembre 2020, l’uomo ha creato la piattaforma Archipiélago, che riunisce interi gruppi di artisti che attraverso i social richiedono un cambiamento politico e una maggior apertura da parte del Governo cubano.

«È uno spazio pluralista nel quale coesistono idee diverse», ha spiegato García in merito al suo progetto. «Ma nel rispetto della diversità, della possibilità che l’altro abbia la sua parte di verità, cosicché possa venirne fuori una verità collettiva, diciamo, senza che vengano annullate quelle differenze che ci caratterizzano».

Un’attivista, insomma, che crede fermamente nei propri principi, e che non si è tirato indietro neanche quando il Governo ha dichiarato la sua Marcia Civile per il Cambiamento illegale, tacciandola di “provocazione destabilizzante”. Il drammaturgo aveva infatti comunicato a tutti tramite il proprio account Twitter che avrebbe marciato da solo, con gli abiti bianchi ed una rosa anch’essa bianca tra le mani, «in rappresentanza di tutti i cittadini ai quali il regime ha tolto il diritto di manifestare».

È stata proprio questa la ragione per cui è stato immediatamente messo in isolamento nel proprio appartamento all’Avana. Ma ciò non è bastato ad affievolire la potenza della sua voce, che continua ad avere una risonanza internazionale.

Algeria: la chiusura del gasdotto Gme crea disagi in Spagna

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Il gasdotto Maghreb-Europa (Gme) è una delle principali fonti di gas naturale per la penisola iberica. Inaugurato nel 1996, l’infrastruttura trasporta gas naturale per 1.400 km dall’Algeria alla Spagna meridionale, attraversando l’Africa nord-occidentale e 540 km di territorio marocchino. Tuttavia, a causa del deterioramento delle relazioni tra Algeria e Marocco, Algeri ha annunciato che non ci sarà il rinnovo dell’accordo, durato 25 anni.

La Spagna riceve il gas naturale anche da un secondo gasdotto algerino, Medgaz, inaugurato dieci anni fa, sotto il controllo dello Stato algerino (51%) e della compagnia energetica spagnola Naturgy (49%). Tuttavia, si teme che Medgaz non sia in grado di colmare il deficit causato dalla chiusura di Gme, e una carenza di gas sarebbe un duro colpo in questo periodo, poiché i consumatori spagnoli stanno riscontrando problemi anche con gli elevati prezzi dell’elettricità e del carburante, utilizzati per il riscaldamento nelle case.

Mentre altri membri dell’UE, come la Germania, dipendono dalla società russa Gazprom, la Spagna importa dall’Algeria quasi la metà di tutto il gas naturale che consuma in un anno, ma non ha bisogno del gas solo per l’industria e per gli impianti di riscaldamento. Infatti, quasi un terzo di tutta l’elettricità spagnola è prodotta da centrali a ciclo combinato, che sfruttano gas naturale. Questi impianti sono un supporto fondamentale alle energie rinnovabili: quando non c’è sole e vento, l’approvvigionamento elettrico ricade soprattutto sulla combustione del gas naturale e sulle centrali nucleari.

Pertanto, quali alternative ci sono? Due soluzioni possono aiutare nel recupero di 6 miliardi di m3 di gas naturale, che ogni anno raggiungono la Spagna attraverso il gasdotto Gme. Si potrebbe aumentare la capacità del gasdotto Medgaz, che fornisce un quarto del gas naturale che raggiuge la penisola iberica dai giacimenti di gas di Hassi R’Mel, in Algeria, fino ad Almeria, città sud-orientale spagnola. L’Algeria si è impegnata ad aumentare la sua capacità da 8 miliardi a 10 miliardi di m3 annuali di gas, ma la Spagna avrebbe ancora bisogno di circa 4 miliardi di m3 in più per coprire il proprio fabbisogno. Ciò potrebbe essere possibile portando gas naturale liquefatto sulle navi da asporto, ma sarebbero necessarie 50 navi per il trasporto dei metri cubi di gas indispensabili alla Spagna per sopperire al deficit causato dalla chiusura di Gme, una numero di navi non accessibile a Medgaz. Inoltre, il processo di liquefazione del gas e il successivo ritorno allo stato gassoso è molto più costoso rispetto al semplice incanalarlo attraverso una conduttura.

Nella situazione presentata, tuttavia, non solo la Spagna è in difficoltà. Per il Marocco, il gasdotto Gme ha rappresentato una fonte di reddito significativa: fino a 200 milioni di euro in un anno produttivo e 50 milioni di euro in un anno sfavorevole. Di conseguenza, la sua contesa diplomatica con l’Algeria sul territorio conteso del Sahara-occidentale potrebbe portarlo ad una crisi energetica.

Italia: multa per Apple e Amazon

Dopo sedici mesi di indagini, e svariati controlli da parte dell’antitrust, sarebbe stato appurato che le due note multinazionali Amazon e Apple avrebbero collaborato ad azioni volte alla restrizione del mercato, violando in questo modo le disposizioni dettate dalle norme dell’Unione Europea in merito alla libera concorrenza.

Apparentemente ci sarebbe stato un accordo risultante in una limitazione operata nei confronti del mercato italiano, ad esclusivo beneficio di alcuni rivenditori selezionati e, per tanto, contraria alle normative che evitano questo tipo di concorrenza indiscriminata.

I due brand avrebbero svolto azioni causanti l’esclusione dal mercato di tutti quei rivenditori non affiliati ad Apple, riservando la vendita dei marchi Apple e Beats alla stessa e ad alcuni rivenditori autorizzati (circa 20 complessivamente). Tutti quei rivenditori considerati quindi “indipendenti” sono stati per tanto bloccati.

L’indagine cominciò il 14 Luglio 2020, scaturita da una denuncia da parte di uno degli esclusi, che ha destato sospetti ed ha portato quindi a tali riscontri.

Il risultato finale delle indagini per Apple è stata quindi una multa da $ 151,32 milioni e per Amazon ulteriori $ 77,29 milioni, seguiti dall’intimazione di terminare immediatamente le restrizioni operate e di concedere agli altri rivenditori un accesso “non discriminatorio” al mercato.

Entrambe le multinazionali hanno presentato ricorso, sostenendo che l’importo della multa sia sproporzionato e aggiungendo inoltre che non viene tratto vantaggio alcuno in quanto il modello di business implementato fino ad ora è del tutto imparziale e non è stata svolta alcuna azione negativa a danno di altri, le uniche azioni svolte sarebbero state pensate per limitare la contraffazione dei prodotti e quindi la circolazione di falsi.

Apple affermerebbe inoltre che solamente con una simile solida collaborazione venga aumentata la sicurezza del cliente finale in quanto maggiore la garanzia di autenticità dei prodotti stessi.

In un mondo globalizzato, nel quale spesso è difficile verificare l’autenticità di un prodotto, c’è un costante lavoro di produzione e di verifica della produzione, per garantire al cliente un acquisto sicuro e valido.

L’antitrust italiana non ha ritenuto fondate le argomentazioni difensive poste da entrambe le multinazionali, e ha valutato quindi l’accordo contrario alle norme europee in quanto limitante anche nel commercio tra Stati Uniti e Ue, ancora più pesante visto il contesto pandemico attuale.

Obbligatorio quindi il non ripresentarsi di tale situazione in futuro, intimato dalla stessa autorità che ha svolto il controllo, a tutela dei consumatori italiani.

Cina: il caso Peng Shuai

Il 2 novembre poco dopo le 22, fuso orario di Pechino, la campionessa di tennis, Peng Shuai, aveva pubblicato su Weibo, un sito di microblogging che si può definire come un ibrido tra Facebook e Twitter, un post, di 1600 parole, in cui accusava l’ex vicepremier Zhang Gaoli di averla costretta, tre anni fa, ad avere rapporti sessuali in casa sua.

Il post è stato cancellato dopo 30 minuti, il suo profilo personale è stato bloccato, non sospeso, dalla barra di ricerca della piattaforma ed in più sono state chiuse tutte le sezioni dei commenti dei suoi post precedenti. 

Secondo il nascente movimento cinese #MeToo, il governo cinese ha applicato un livello di censura senza precedenti: si è arrivato a bloccare i commenti di una pagina di discussione di tennis su Weibo ed a censurare una pagina di Douban, un sito web cinese di recensione di film, relativa alla serie coreana “Primo ministro ed io” su cui gli utenti, nella sezione “revisione”, avevano iniziato a discutere del caso Peng.

Nonostante la censura applicata, la notizia è riuscita a circolare grazie al fatto che il profilo di Weibo della Peng aveva, ed ha, più di 500 mila followers: infatti, una volta cancellato il post sono iniziati a circolare gli screenshots dello stesso.

Nel post, Peng ha affermato di aver avuto rapporti intimi con Zhang per la prima volta più di 10 anni fa, quando Zhang era il capo del Partito Comunista di Tianjin, una città costiera a sud-est di Pechino. 

Zhang Gaoli, 2013 San Pietroburgo. Fonte wikimedia commons.

Successivamente, però, secondo il post, Zhang ha interrotto i contatti dopo essere stato promosso al Comitato permanente del Politburo a Pechino.

Poi, una mattina di circa tre anni fa, nel 2018, dopo che Zhang si era ritirato, Peng dice di essere stata improvvisamente invitata da lui a giocare a tennis a Pechino. 

In seguito, scrive nel post, Zhang e sua moglie hanno riportato Peng a casa loro, dove Peng ha affermato di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con Zhang dopo che aveva cenato in compagnia dei coniugi.

L’ex vicepremier, andando in pensione nel 2018 e ritirandosi a vita privata, non ha ribattuto alle accuse: secondo la CNN, l’ex primo ministro e sua moglie Kang Jie rimangono strettamente protetti dal governo e non possono essere raggiunti per un commento.

Peng conclude il suo post dicendo che anche se sa che il vicepremier Zhang Gaoli non ha paura delle conseguenze, lei continuerà a dire la verità su di loro nonostante possa essere “come un uovo che colpisce la pietra”

Covid-19 in Austria: proteste a Vienna contro la vaccinazione obbligatoria

Il Cancelliere austriaco Alexander Schallenberg ha affermato che il lockdown si protrarrà almeno per 20 giorni, aggiungendo che sarà obbligatorio vaccinarsi entro il 1 febbraio del nuovo anno. Queste misure sono state adottate a seguito dell’aumento della curva di contagio nel Paese ed entreranno in vigore a partire dal prossimo lunedì 22 novembre, poiché l’Austria è la Nazione con la più bassa percentuale di vaccinati in Europa Occidentale.

«Non vogliamo una quinta ondata», ha detto Schallenberg dopo essersi riunito con i governatori delle nove province del Paese in una località turistica situata nell’ovest. Stando alle ultime cifre riportate, si è registrato un vertiginoso aumento dei casi: 15.000 contagi giornalieri nell’ultima settimana in un Paese di circa nove milioni di abitanti. Pertanto, la situazione non deve essere affatto sottovalutata. 

Al fine di ridurre la curva dei contagi, gli austrici dovrebbero tornare a lavorare da casa in modalità di smart working, i negozi che non vendono beni di prima necessità chiuderanno e le scuole resteranno aperte solamente nel caso in cui è previsto un tipo di apprendimento riservato ai più piccoli. Queste sono le misure che resteranno in vigore in Austria fino al 12 di dicembre, ma che potrebbero subire un prolungamento a seguito di dovute valutazioni del caso. 

In Europa, altri Paesi stanno via via emanando delle disposizioni volte al miglioramento della situazione epidemiologica: l’Estonia ha annunciato allo stesso modo un lockdown per i non vaccinati a partire da lunedì 22 novembre, mentre, la Repubblica Ceca, l’Olanda e la Germania hanno predisposto delle misure restrittive più leggere e limitate solo ad alcune fasce della popolazione. 

Nel frattempo, non hanno dato segni di cedimento le rivolte che si sono verificate a Vienna (Austria) e a Rotterdam (Paesi Bassi). In particolar modo, nell’ultima città, la polizia locale ha sparato e ferito gravemente due persone durante una manifestazione di protesta contro il governo, che ha emanato delle disposizioni volte a proibire l’uso dei fuochi d’artificio nell’ultima notte dell’anno ed imposto l’obbligo di un certificato verde vaccinale. 

In totale, risultano essere sette i feriti durante le varie manifestazioni di protesta e come minimo venti persone sono state arrestate durante la notte che è stata poi definita dal sindaco di Rotterdam come «un’orgia di violenza». 

Come risultato di questi eventi di violenza, la città si trova in uno stato di emergenza e la stazione dei treni principale è attualmente chiusa. 

Tra le varie misure preventive emanate dal governo locale per ridurre il numero dei contagi, vi sono la chiusura anticipata dei ristoranti e dei negozi e la chiusura al pubblico durante gli eventi sportivi. 

Ritrovato acquedotto in Armenia risalente all’Impero Romano

Durante gli scavi dell’antica città di Artašat (capoluogo della provincia di Ararat, Armenia), gli archeologi hanno rinvenuto tracce dell’acquedotto più orientale dell’Impero Romano. Parliamo di una costruzione risalente agli inizi del II secolo d.C., periodo di massimo splendore per l’Impero.

In seguito ad un’attenta analisi del carbonio prelevato da campioni di quel suolo, gli esperti sono giunti alla conclusione che la realizzazione dell’acquedotto sia iniziata negli ultimi anni del regno di Traiano. L’Armenia, infatti, divenne per la prima volta una delle tante province dell’Impero nel 114, comprendendo i territori dell’attuale Turchia orientale, dell’Armenia moderna, della Georgia, dell’Azerbaigian e una piccola parte dell’Iran nord-occidentale. Roma aveva già tentato ripetutamente in precedenza di occupare la Grande Armenia, ma i re della dinastia egli Arsacidi d’Armenia (Arshakuni) mantennero a lungo la loro indipendenza, finché Traiano non conquistò il loro territorio.

L’acquedotto è rimasto incompiuto, ma qualora fosse stato completato, la sua lunghezza sarebbe stata di 30 chilometri, e avrebbe separato la città di Artašat dalla fonte d’acqua più vicina, ovvero la sorgente del fiume Vedi.

«Non è stato completato a causa del ritiro dall’Armenia dell’imperatore Adriano dopo la morte di Traiano, nel 117», ha spiegato Torben Schreiber, uno degli autori degli scavi, ricercatore presso l’Università di Munster. Tuttavia, ciò non ci impedisce di ammirare comunque l’impegno e la maestria con i quali venivano costruite le infrastrutture romane. 

Modello dell’antica città di Artašat. Fonte: Wikimedia Commons

Artašat nell’antichità era sia la capitale che uno dei più grandi centri commerciali e militari della Grande Armenia. Per trovare i possibili confini dell’antica città, gli scienziati si sono serviti di lettori geomagnetici dell’aria, che hanno permesso loro di scoprire una moltitudine di elementi portanti nascosti nella valle dell’Ararat – situati ad eguali distanze l’uno dall’altro ed allineati su una retta lunga 400 metri.

Studiando ed analizzando molti di questi, è emerso che rappresentano le fondamenta degli archi di questo acquedotto romano incompiuto, e le loro caratteristiche (come, ad esempio, la forma e la struttura) indicano che gli archi in questione siano stati costruiti da ingegneri e legionari romani.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica in lingua tedesca Archäologischer Anzeigerm, specializzata nel campo dell’archeologia.

Covid-19 in Russia: record di morti dall’inizio della pandemia

Il totale dei nuovi contagiati su tutto il territorio della Federazione Russa ammonta a 36.626, stabilendo così il record dallo scoppio della pandemia pari a 9.182.538. È stato reso noto dai giornalisti della sede operativa federale per la lotta contro le malattie. In concreto, l’indice di contagio è salito dello 0,4%.

La curva dei contagi appare piuttosto diversificata in base alla posizione geografica. In particolare, a San Pietroburgo si sono registrati 2.793 nuovi casi.

Al contrario, nella regione di Samara così come nella Repubblica di Crimea, nella regione di Nižhnij Novgorod e in quella di Voronež, si è verificato il fenomeno opposto. Rispettivamente, il divario tra numero di contagiati e numero di guariti è diminuito di 1.1785, 867, 778 e 747 unità. Pertanto, il numero di persone attualmente positive che necessitano di cure mediche, per la prima volta dal 9 settembre, si è ridotto a 1.040.618. 

Cattedrale di San Basilio, Mosca (Russia), fonte Wikimedia Commons.

La situazione epidemiologica in Russia rimane stabile: ciò nonostante, il record del numero di morti è aumentato lievemente passando da 1.247, dato registratosi il 16 novembre, a 1.240 del giorno precedente.

In termini assoluti, il precedente primato in negativo di 1.241 morti a causa del virus si era verificato il 13 novembre. Secondo quanto è stato riportato dalla sede operativa federale per la lotta contro le malattie, il tasso di mortalità è pari allo 2,82%. Concretamente, nell’arco della giornata del 16 novembre sono stati registrati 84 casi letali a San Pietroburgo, 58 nella regione di Krasnodar, 44 nella regione di Stavropol, 40 nella regione di Nižhnij Novgorod e 37 nella regione di Volgograd e nella regione di Perm.

Si è altresì registrato un nuovo record in positivo: il numero di guariti nell’arco di una giornata. 

Il totale è pari a 36.388 nuove guarigioni, cifra che rappresenta per l’appunto il nuovo primato dall’inizio della pandemia. In altre parole, secondo quanto è stato reso noto dalla sede operativa federale, il totale dei guariti dallo scoppio della pandemia da Covid-19 è salito a 7.882.836 unità, cifra che rappresenta l’85,8% dei pazienti non più affetti dal virus.

Nello specifico, risultano essere 2.573 i guariti a San Pietroburgo, 988 nella Repubblica Di Saсha (Jacuzia), 978 nella regione di Samara, 866 nella Repubblica di Crimea e 814 nella regione di Brjansk.

Atene rivuole i marmi del Partenone, ma il British Museum non ci sta

Durante la 41ª Conferenza Generale dell’UNESCO tenutasi a Parigi, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha rivendicato il diritto della Grecia di riavere indietro i marmi del Partenone. Sono infatti attualmente in possesso del British Museum, che però non sembra intenzionato ad effettuarne la restituzione.

«I monumenti emblematici connessi intrinsecamente all’identità di una nazione dovrebbero appartenere a quella nazione» ha insistito Mitsotakis, dopo aver sottolineato la rilevanza simbolica di queste sculture. Parliamo di una parte significativa del patrimonio culturale mondiale, rappresentante una sorta di filo invisibile che unisce i greci contemporanei ai propri antenati. La volontà quindi del primo ministro greco è quella di far tornare le statue al Museo dell’Acropoli di Atene, dove le attendono le restanti opere del Partenone.

Inoltre, la Grecia celebrerà quest’anno il 200° anniversario della Guerra d’Indipendenza, e secondo quanto detto dal rappresentante del paese, «quale miglior momento per riunire la sezione mancante delle sculture del Partenone al suo luogo di nascita in Grecia».

Tuttavia, il primo ministro britannico Boris Johnson ha respinto questa richiesta, affermando che il legittimo proprietario dei marmi è il Regno Unito. A differenza di quanto dichiarato da Mitsotakis, secondo lui non sono stati infatti «rubati nel XIX secolo», ma sono stati «ottenuti legalmente da Lord Elgin, in ottemperanza alle leggi vigenti in quell’epoca, per poi diventare proprietà legale degli amministratori fiduciari del British Museum».

Lotta tra centauro e lapite, Metopa del Partenone. Fonte: Wikimedia Commons

«Non può esserci un dialogo tra le nazioni senza un dialogo tra le culture», è stata la pronta risposta del rappresentante ellenico di fronte all’evidente riluttanza inglese.

Ad intervenire nella disputa è stato anche il Comitato Intergovernativo dell’UNESCO, che nel settembre del 2021 ha stabilito «l’obbligo del Governo britannico di rendere le sculture del Partenone al loro paese d’origine».

Nel corso dell’incontro tenutosi martedì 16 novembre tra Boris Johnson e Kyriakos Mitsotakis, quest’ultimo ha dichiarato anche che Atene sarebbe disposta a concedere in prestito persino altri reperti archeologici che fino ad oggi non hanno mai lasciato la nazione, come ad esempio la Maschera di Agamennone o il Cronide di Capo Artemisio, pur di riavere indietro le statue.

Pare però che Johnson abbia respinto tale richiesta, sollevando il proprio governo dalla responsabilità e delegando la decisione allo stesso British Museum, che fino ad ora sembra intenzionato ad opporsi duramente ad ogni genere di “baratto”.