sabato, 4 Maggio 2024
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Cactus peyote: minacciata la pianta usata nelle cerimonie indigene

All’inizio dell’autunno, i leader della Chiesa nativa americana del Nord America (Nacna) hanno compiuto un viaggio storico a Washington DC per incontrare legislatori, funzionari federali e rappresentanti dell’amministrazione Biden sulla necessità di proteggere il cactus peyote e, con esso, la fede di centinaia di migliaia di nativi.

Secondo quanto riporta The Guardian, il problema riguarderebbe enormi distese di terra, in un’area del Texas meridionale nota come i Giardini del Peyote, brutalmente cancellate dall’aratura massiccia delle radici che rimuove il cactus e distrugge la sua possibilità di ricrescita, mettendo in pericolo una pratica sacra indigena che risale ad almeno 6.000 anni fa.

Ciò che preoccupa gli esponenti della Nacna sull’habitat del peyote è il ruolo che il cactus svolge come medicina sacra. Viene consumato durante le cerimonie di preghiera di guarigione che durano tutta la notte all’interno di un hogan, un edificio tradizionale navajo. La cerimonia può essere indetta in seguito alla malattia di un membro della comunità e prevede canti e tamburi.

Sebbene sia una sostanza ampiamente vietata negli Stati Uniti per i suoi effetti allucinogeni, i nativi possono usare il peyote per scopi religiosi in base all’emendamento del 1994 all’American Indian Religious Freedom Act.

Negli ultimi 50 anni, tuttavia, le aree accessibili per la raccolta del peyote sono diminuite, in parte a causa dello sviluppo del Texas meridionale. Oggi, il cactus rotondo e verde-blu può essere trovato selvatico in una fitta macchia spinosa e sulle colline calcaree principalmente in quattro contee degli Stati Uniti, tutte nel sud del Texas.

Secondo Steven Van Heiden, presidente del Cactus Conservation Institute, «le piante rimaste sono minacciate dallo sviluppo urbano, dal pascolo e dagli sviluppi delle infrastrutture energetiche, come le turbine eoliche e i progetti per il petrolio e il gas».

La lista delle specie minacciate dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha classificato il cactus come vulnerabile a partire dal 2013, affermando che «è molto probabile che questa riduzione sia irreversibile, dato che le piante rimanenti vengono raccolte e sua la rigenerazione è improbabile, pertanto il peyote potrebbe non essere più accessibile ai nativi».

Il rischio riguarderebbe l’accesso alla pianta e non la sua estinzione, dal momento che potranno sempre sussistere luoghi sconosciuti in cui il peyote cresce.

I cactus hanno inoltre una crescita estremamente lenta: impiegano fino a 16 anni per maturare dai semi in natura. La pratica consigliata è aspettare almeno otto anni tra un raccolto e l’altro, in modo che abbiano il tempo per la fotosintesi e la ricostruzine delle riserve nei loro steli sotterranei.

Il Nacna non è l’unico gruppo che lavora per proteggere il peyote. L’Indigenous Peyote Conservation Initiative (IPCI) ha aperto l’anno scorso un vivaio nel Texas meridionale per coltivare il peyote.

In quest’ottica, Nacna ha avviato colloqui con i proprietari terrieri locali, sperando che i proprietari contribuiscano a proteggere l’habitat o almeno li contattino prima dell’aratura delle radici, in modo che i membri di Nacna possano prima raccogliere il peyote.

Summit USA-Africa: 49 leader africani a Washington

Tra il 13 e il 15 dicembre si è tenuto a Washington DC il summit USA-Africa, conferenza internazionale presieduta dal Presidente Joe Biden. Si è trattato di un summit fondamentale che ha visto protagonista l’Africa, rappresentata da 49 leader del continente.

La conferenza si è aperta con un discorso del Presidente americano che ha affermato come «l’Africa ridisegnerà il futuro, non solo per il popolo africano, ma per il mondo intero. Il successo dell’Africa è il successo del mondo».

Le parole altisonanti scelte da Biden descrivono appieno il crescente ruolo che l’Africa ha e avrà nello scenario internazionale: in primis, perché viene definito “il continente del futuro”, dato che entro il 2050 vi vivrà un quarto della popolazione mondiale con un’età media di 18 anni e, in secundis, per le prospettive di sviluppo economico e di potenzialità per la transizione ecologica.

Dato l’emergente peso geopolitico del gli Stati Uniti non possono esimersi dall’intrattenere rapporti con i Paesi africani. La forte ingerenza in Africa di attori come Cina e Russia ha sicuramente spinto l’amministrazione Biden a cercare di rafforzare i legami con un’area del globo non considerata tra le priorità strategiche nazionali.

Il primo partner commerciale dell’Africa, infatti, è proprio la Cina, la quale sta tessendo un’importante rete di infrastrutture portuali, ferroviarie ed energetiche per dare vita ad una Via della Seta africana. Inoltre, iniziative come l’annullamento del debito sovrano di alcuni Stati africani o la fornitura di elettricità e dispositivi digitali ha accresciuto il soft power cinese.

D’altra parte, anche gli accordi militari stabiliti tra alcuni Paesi africani – specialmente nell’area del Sahel – con la Russia hanno visto il ritiro di forze occidentali nella regione, a scapito dunque della presenza americana. Gli USA continuano a mantenere il controllo dei cosiddetti “colli di bottiglia”, punti nevralgici del traffico commerciale mondiale, ma questo non basta per mantenere rapporti proficui con il continente.

Alla luce delle nuove minacce, pertanto, il Presidente Biden ha affermato che offrirà 55 miliardi di dollari all’Africa nei prossimi tre anni. Più nello specifico, sono stati previsti all’interno del Business Forum USA-Africa ingenti investimenti da parte delle compagnie americane in settori critici come sanità, energia, agricoltura, reti stradali e digitale. Inoltre, saranno previsti dei supporti finanziari ai membri della diaspora africana residenti negli Stati Uniti, in modo tale da aumentare l’ammontare delle rimesse dei migranti.

Altre tematiche affrontate dal summit riguardano invece la promozione dei diritti umani e della democrazia in Africa. In un incontro a porte chiuse con i capi di stato africani che terranno elezioni politiche nel 2023, Biden ha sottolineato la necessità di tenere elezioni libere e democratiche affinché il continente raggiunga gli standard internazionali.

Nel terzo giorno di summit, invece, si è discusso dell’importanza di assicurare la sicurezza alimentare in tutta l’Africa, mitigando gli effetti del cambiamento climatico e delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina.

Tuttavia, l’Africa sta cercando di emergere come attore internazionale indipendente dalla competizione delle superpotenze, per cui l’intervento americano potrebbe essere arrivato troppo tardi.

Scandalo Qatar-Ue: parlamentari accusati di corruzione

La Procura Federale belga ha arrestato, martedì 13 dicembre, diverse figure di spicco del Parlamento europeo accusate di corruzione, riciclaggio di denaro e partecipazione ad un’organizzazione criminale per conto del Paese del Golfo.

L’organizzazione, secondo i magistrati di Bruxelles, si sarebbe infiltrata nel cuore del Parlamento europeo e avrebbe tentato di influenzare le decisioni economiche e politiche dell’Ue.

L’inchiesta è stata condotta dalla magistratura belga, in seguito al sospetto che «terzi in posizioni politiche e\o strategiche all’interno del Parlamento europeo abbiano ricevuto ingenti somme di denaro o offerto doni sostanziali per influenzare le decisioni del Parlamento», riporta il Time.

Tra la mattina di venerdì’ 9 dicembre e il giorno 12 dicembre, la polizia belga ha effettuato almeno 20 irruzioni in case e uffici parlamentari, sequestrando 1,5 milioni di euro in contanti, oltre a computer e telefoni.

Ad essere coinvolti nell’inchiesta sono, nello specifico, i politici dell’ala socialdemocratica del Parlamento. Tra i nomi di spicco vi sono la vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili e l’eurodeputato Marc Tarabella.

Eva Kaili è stata fin da subito sospesa dal ruolo e arrestata, nonostante l’immunità parlamentare, in quanto sono state rinvenute nel suo appartamento alcune centinaia di migliaia di euro, che sarebbero stati ricevuti dal Qatar per influenzare la reputazione del paese in Europa.

Il Qatargate, soprannominato così dalla stampa internazionale, vede coinvolti anche quattro italiani: l’ex eurodeputato Antonio Panzeri, il segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati Luca Visentini, il direttore della Ong “No peace without justice” Niccolò-Figà Talamanca e Francesco Giorgi, assistente parlamentare.

Antonio Panzeri è inoltre sospettato di essere intervenuto per influenzare decisioni dell’Eurocamera non solo a favore del Qatar ma anche del Marocco, accusa che aggraverebbe non di poco la posizione dell’ex eurodeputato, sospeso dopo lo scandalo.

Secondo quanto affermato dagli esperti legali belgi, gli imputati rischiano fino a 15 anni di carcere per i crimini di cui sono accusati.

L’operazione di corruzione, secondo l’inchiesta, sarebbe servita tra le altre cose a difendere l’integrità della Coppa del Mondo, affinché venissero evidenziati i progressi del Paese del Golfo sui diritti umani e sulle condizioni di lavoro dei migranti.

Difatti, le accuse nei confronti del Qatar arrivano in un momento davvero importante: il paese è appena entrato nella sua ultima settimana dei Mondiali, evento che per il governo rappresenta solo un traguardo da celebrare ma che ancora una volta rischia di essere rovinato dalle critiche internazionali.

Per di più, l’Unione Europea, che stava considerando di permettere ai cittadini qatarioti di viaggiare nella zona Schengen senza visto, ha sospeso i suoi lavori con il Paese e rinviato la votazione sulla questione.

Lo scandalo, che si sta ripercuotendo a livello globale, potrebbe rappresentare un vero problema per il Paese del Golfo, che nonostante tutto ha negato le accuse dichiarando che: «qualsiasi associazione del governo del Qatar con le affermazioni riportate è priva di fondamento e gravemente disinformata», secondo quanto riportato dal Time.

Iran: prime due condanne a morte per le proteste contro il regime

Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard: si chiamavano così i due giovani giustiziati in Iran, a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro.

Dall’inizio delle proteste antigovernative nel Paese, si tratta delle prime due esecuzioni di manifestanti, entrambi precedentemente arrestati poiché chiedevano maggiori libertà in Iran a seguito della morte di Masha Amini.

Mohsen Shekari, 23 anni, era stato dichiarato colpevole di “guerra contro Dio”. Secondo l’accusa, da parte di un tribunale che lo aveva giudicato senza un regolare dibattito pubblico, il ragazzo avrebbe bloccato una strada di Teheran con l’intento di creare disordini e uccidere, ferendo con un’arma da taglio un agente del Basji, il corpo militare di sicurezza iraniano.

Shekari, secondo la versione degli organi di stampa ufficiali iraniani, avrebbe confessato le proprie responsabilità, permettendo alla Corte Suprema di confermare la sua condanna a morte.

Allo stesso modo, Rahnavard era stato arrestato con l’accusa di “guerra contro Dio” e di omicidio di due Basji. La Mizan, agenzia di stampa della magistratura iraniana, precisa che l’esecuzione del giovane è avvenuta in pubblico e «nel luogo in cui aveva commesso il crimine».

Analogamente al processo di Shekari, quello di Rahnavard è stato celebrato a porte chiuse, in modo tale che l’imputato non potesse avere al suo fianco un avvocato. Difatti, l’Organizzazione per i diritti Iran Human Rights ha accusato il governo di aver condotto dei processi ingiusti.

In seguito alla seconda esecuzione, l’Organizzazione ha poi ribadito il suo appello alla comunità internazionale dichiarando che: «è necessario agire in maniera urgente poiché in assenza di misure serie per dissuadere la Repubblica Islamica dall’esecuzione di altri manifestanti, dovremo affrontare crimini ancora più orribili e aspettarci l’esecuzione di massa dei prigionieri politici», aggiungendo che i condannati alla pena capitale attualmente detenuti sono almeno 28.

In risposta all’appello, l’alto rappresentate della politica estera Josep Borrell ha annunciato che: «l’Unione Europea intraprenderà qualsiasi azione possibile per sostenere le giovani donne e i manifestanti pacifici», aggiungendo che verrà approvato un nuovo pacchetto di sanzioni molto duro contro Teheran.

In seguito al Consiglio Ue Esteri sulla situazione in Iran, i ministri hanno affermato che:«L’unione Europea condanna fermamente l’uso diffuso, brutale e sproporzionato della forza da parte delle autorità iraniane contro manifestanti pacifici, che ha portato alla perdita di centinaia di vite», invitando le autorità iraniane a porre immediatamente fine alla pratica di imporre condanne a morte, riporta Al-Jazeera.

Attualmente, Teheran non sembra preoccuparsi delle nuove sanzioni annunciate da Bruxelles.

Al contrario, ha dichiarato di voler sanzionare diverse personalità politiche ed entità europee. Nella lista del paese compaiono politici e militari tedeschi che hanno denunciato recentemente le azioni del regime e anche il settimanale satirico Charlie Hebdo, che nei giorni scorsi ha indetto una competizione internazionale per vignettisti chiedendo la migliore caricatura di Ali Khamenei, leader della Repubblica Islamica.

Ancora tensioni nei Balcani: barricate dei serbi in Kosovo e spari nella notte

Riprendono le tensioni tra i serbi e gli albanesi in Kosovo.

Secondo quanto riporta euronews, il motivo dietro alle nuove proteste dei serbi sarebbe stato l’arresto risalente a sabato scorso di un ex poliziotto serbo che svolgeva servizio nelle forze di sicurezza kosovare. La popolazione di etnia serba ha infatti posto delle barricate nel nord del Kosovo composte da camion e autobus in segno di protesta. Nella notte si sono uditi spari ed esplosioni riconducibili a petardi.

Il presidente serbo, Aleksandar Vučić ha convocato in via d’emergenza il consiglio di sicurezza nazionale, sottolineando di essere fiero dell’esercito e della polizia serba in questo difficile periodo e aggiungendo: «la Serbia cercherà di preservare la pace in un milione di modi». Ha inoltre proposto l’idea di dispiegare le forze dell’ordine a difesa dell’etnia serba nel nord del Kosovo, decisione che verrà proposta sia alla missione Nato per la pace in Kosovo (KFOR) sia alla missione civile europea per la sicurezza (EULEX).

Dall’altra parte, Albin Kurti, primo ministro del Kosovo, ha definito «bande criminali» coloro che hanno organizzato le proteste ed ha accusato Belgrado di perseguire delle politiche chiaramente ostili e collegate al passato turbolento degli anni 90’, azioni che sempre secondo Kurti, favorirebbero gli interessi di Russia e Cina nella regione. Il premier ha dato un ultimatum ai serbi, intimandoli a rimuovere le barricate per evitare che sia la polizia kosovara a doverlo fare.

La Federazione Russa intanto sarebbe effettivamente pronta a intervenire a fianco della Serbia in caso di un conflitto armato, fornendo supporto tecnico, economico, politico e anche militare, lo afferma il giornale russo pravda.

La situazione rimane tesa mentre l’Europa invita alla calma e a una nuova de-escalation delle tensioni.

Ue-Cile: firmato un nuovo accordo commerciale

Lo scorso venerdì 9 dicembre la Commissione europea ha compiuto un significativo passo avanti nella sua politica di avvicinamento all’America Latina. In occasione dell’ incontro tra il Commissario europeo per il commercio Valdis Dombrovskis, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza politica Josep Borrell, e la ministra cilena degli Esteri Antonia Urrejola, dopo cinque anni si sono conclusi i negoziati sull’Accordo Quadro Avanzato Ue-Cile.

L’accordo permette all’Ue un maggiore accesso a materie prime e combustibili puliti, quali litio, rame e idrogeno, fondamentali per la transizione ecologica e digitale, e apre le porte a quasi il 100% delle esportazioni europee che raggiungeranno il Paese sudamericano senza l’imposizione di dazi. Come riportato da El País, Dombrovskis ha dichiarato: «Il Cile è uno dei maggiori fornitori di litio al mondo. Questo materiale è molto importante per la mobilità elettrica e per il raggiungimento degli obiettivi ambientali europei. È chiaro che ne abbiamo bisogno per il Green Deal e per ridurre le dipendenze, come quella dal gas russo».

A seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Accordo rappresenta un’importante mossa politica e strategica che permette all’Unione europea di reinserirsi in una regione dove sia Russia che Cina negli ultimi anni hanno guadagnato un sempre maggiore peso politico ed economico.

Per questo motivo, l’Ue sta preparando un’offensiva commerciale e diplomatica per il prossimo anno, in cui il passo compiuto venerdì è una prima pietra miliare: l’agenda di Bruxelles prevede la modernizzazione dell’accordo con il Messico e il completamento dell’accordo raggiunto con il Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale), bloccato dalla Francia che chiede al Brasile un impegno contro la deforestazione.

Per Borrell il rafforzamento delle relazioni con l’America Latina è sempre stato una priorità e, durante la presentazione dell’accordo, ha sottolineato che il patto raggiunto «trascende la sfera commerciale», facendo riferimento al fatto che il testo tocca anche tematiche quali la parità di genere, il rispetto dell’ambiente e la possibilità di rompere unilateralmente l’accordo in caso di violazione dei principi democratici.

L’accordo si compone di due parti: una parte provvisoria che entrerà in vigore una volta ratificata dal Cile e dalle istituzioni dell’Ue, e una parte definitiva che entrerà in vigore una volta approvata dai parlamenti di tutti gli Stati membri dell’Unione.

Come riportato da El País, il vice capo delegazione presso la delegazione dell’Ue in Cile, Quentin Weiler, ha aggiunto: «Ora inizia un processo burocratico di verifiche legali e di traduzione del testo, che richiederà dai sei ai nove mesi prima di poter essere firmato». Secondo le previsioni di Bruxelles, la firma potrebbe avvenire nell’autunno del 2023.

Congo, attacco del gruppo M23: almeno 131 morti

Tra il 29 e il 30 novembre nei villaggi di Kishishe e Bambo i ribelli dell’M23 hanno ucciso almeno 131 civili come parte di una campagna di omicidi, stupri, rapimenti e saccheggi, secondo quanto riportato dalla missione MONUSCO, la missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo.

In seguito ad un’indagine sul massacro, la missione MONUSCO ha poi dichiarato che: «102 uomini, 17 donne e 12 bambini sono stati uccisi arbitrariamente con proiettili e altre armi», condannando con la massima fermezza l’indicibile violenza, riporta France24.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, la MONUSCO avrebbe anche richiesto l’accesso ai villaggi per poter dare assistenza umanitaria ai sopravvissuti. Tuttavia, per motivi di sicurezza, l’accesso a Kishishe e Bambo al momento non è possibile.

Dato il rischio elevato di rappresaglie contro i sopravvissuti ancora presenti nella zona, anche per gli investigatori è stato impossibile recarsi nei villaggi colpiti. Di conseguenza, sono stati intervistati circa 50 testimoni e altre fonti di un villaggio vicino, Rwindi, dove sono riusciti a rifugiarsi alcuni dei sopravvissuti.

I testimoni hanno riferito che membri del gruppo M23 hanno saccheggiato proprietà, bruciato case nei villaggi e sparato ai civili.

Il gruppo di ribelli M23, ovvero il Movimento del 23 marzo, è uno degli ultimi movimenti ribelli sostenuti da Ruanda e Uganda. È composto da ex ribelli del Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP), principalmente Tutsi, reintegrati nell’esercito congolese a seguito di un accordo di pace con Kinshasa firmato il 23 marzo 2009.

Il movimento, che era stato precedentemente sconfitto militarmente nel 2013 dalle Forze armate della Repubblica Democratica del Congo, è riapparso nel corso di quest’anno ed è ora al centro di tutti i dibattiti del paese.

L’M23, già accusato di numerose violenze contro la popolazione civile in diverse città vicino i confini di Rwanda e Uganda, ha negato la responsabilità degli omicidi e chiesto un’indagine completa.

«Il numero delle vittime fornito dalla missione MONUSCO è falso. Abbiamo chiesto che ci fossero ulteriori indagini a Kishishe ma le Nazioni Unite non sono mai arrivate», ha affermato il portavoce del movimento ribelle, Lawrence Kanyka, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters.

Nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo, operano più di cento gruppi armati diversi, che stanno devastando la regione da circa tre decenni. 

Per questo motivo, diversi paesi hanno inviato truppe nella Repubblica come parte di una task force della Comunità dell’Africa orientale (EAC) per cercare di disarmare i gruppi e portare pace nell’area.

Tuttavia, le trattative di pace tra il governo congolese e il Movimento M23 sembrano ancora non aver trovato una direzione univoca.

Schengen: ok a Croazia, rimangono fuori Bulgaria e Romania

Dal gennaio 2023 i cittadini croati non avranno più la necessità di essere controllati alla dogana per l’ingresso della zona Schengen: al loro paese è stato infatti dato l’ok per diventare un membro effettivo del trattato di libera circolazione.

Si leva tuttavia una voce di insoddisfazione da parte dei due paesi esclusi e da alcune cariche europee che invece vedevano la Romania e la Bulgaria, membri della Ue dal 2007, ugualmente pronte ad essere accettate nel sistema.             

A porre un veto, sufficiente a bloccare la pratica per quest’anno, solamente due paesi: Austria e Olanda. Come riporta la BBC, l’Austria si è mostrata particolarmente intransigente nei confronti dei due paesi balcanici, sottolineando la loro eccessiva morbidezza nell’applicare le norme anti-immigrazione. L’Olanda ha invece votato solamente contro l’ingresso di Sofia, sostenendo che fosse troppo presto e che la Bulgaria avrebbe dovuto impegnarsi di più per sradicare la presunta corruzione nel suo governo.

Bulgaria e Romania hanno promesso di ripresentare la loro candidatura anche per il prossimo anno, insistendo che la situazione sul fronte della migrazione è sotto controllo e, come enfatizzato dalla Romania, che la posizione dell’Austria risulta così inflessibile soprattutto per motivi politici.

In questa disputa sembra che l’Austria e l’Olanda siano isolate: i ministri di diversi paesi europei hanno accolto il veto con una certa contrarietà, incluso il ministro degli esteri tedesco Baerbock e il commissario europeo per gli affari interni Johansson. L’ingresso nella zona Schengen dei due paesi è stato rimandato in diverse occasioni, ma secondo molti paesi della zone euro, le condizioni necessarie per ricevere l’approvazione sarebbero presenti già dal 2011.

Perù: Dina Boluarte nomina il nuovo governo dopo il fallito colpo di stato di Castillo

Lo scorso mercoledì 7 dicembre, Pedro Castillo ha tentato di sciogliere il Congresso e decretare un governo di eccezione, ma i deputati sono rimasti al loro posto in aula e hanno approvato con voto di maggioranza il suo decadimento dalla carica di presidente.

Castillo, il maestro di scuola che seppe approfittare della crisi politica per imporsi alle elezioni presidenziali del 2021, ha iniziato la sua presidenza acclamato nelle piazze dalle folle come l’uomo umile venuto a rappresentare coloro che non avevano mai governato in Perù, ma nel corso del suo breve mandato non è mai riuscito ad ottenere il sostegno dell’establishment. 

Arrivato al potere come il portavoce del cambiamento, ha inaugurato il suo governo con politici moderni, femministi, colti e prestigiosi, ma il suo progetto è stato presto abbandonato e si è circondato di persone ultraconservatrici e cospiratrici. Nell’anno e mezzo in cui è stato a capo del governo ha cambiato mezzo centinaio di ministri e ha nominato cinque governi.

Il colpo inferto da Castillo all’ordine costituzionale è durato circa tre ore, il tempo necessario ai militari per emettere un breve comunicato in cui annunciavano di non appoggiare il golpe. Accompagnato in questura dalla sua stessa guardia del corpo, oltre alle condanne che potrebbe subire per i casi di corruzione, Castillo deve ora affrontare un’accusa di ribellione che potrebbe costargli dai 10 ai 20 anni di reclusione.

La vicepresidente Dina Boluarte ha condannato il tentativo di golpe ed ha assunto la presidenza dopo la destituzione di Castillo, diventando così la prima donna a ricoprire la carica di presidente del Perù, e lo scorso sabato 10 dicembre ha nominato il nuovo governo.  

Boluarte Presidente

Dati i casi di corruzione che hanno coinvolto i leader politici susseguitisi nel corso della storia del Paese, e a causa della più recente avventura golpista di Castillo, come riportato da El País, il giuramento che Boluarte ha fatto con ogni ministro conteneva una frase che fino ad oggi non faceva parte del protocollo: «Giuri su Dio e su questi santi vangeli di svolgere lealmente e fedelmente, senza commettere atti di corruzione, la carica di ministro di Stato che ti affido?».

Nonostante quasi l’87% della popolazione chieda che vengano indette elezioni anticipate per poter eleggere democraticamente il nuovo leader del Paese, di fronte alle proteste la Presidente ha invitato alla calma. Secondo quanto riportato da El País, sebbene la sua intenzione sia quella di governare fino al 2026, quando scadrebbe il suo attuale mandato, Boluarte ha dichiarato di non escludere un’elezione anticipata: «Quando due giorni fa è stato prestato il giuramento, il mandato prevedeva una durata fino al 2026. Tuttavia, se la società e la situazione lo giustificano, anticiperemo le elezioni dialogando con le forze politiche e democratiche del Congresso».

Sudan: firmato accordo di transizione tra militari e rappresentanti politici

Lunedì 5 dicembre i generali Abdel-Fattah Burhan e Mohammed Hamdan Dagalo, de facto governanti del Sudan, hanno incontrato i leader delle Forze per la Democrazia e il Cambiamento, il più grande partito politico sudanese pro-democrazia.

L’incontro, tenutosi presso il palazzo presidenziale di Kharthum, si è concluso con la stipulazione di un primo accordo di transizione democratica. Esso prevede una transizione di governo guidata dai civili, della durata di due anni, con l’obiettivo di giungere ad elezioni libere e democratiche e porre fine al regime militare instauratosi dopo il golpe dell’ottobre 2021.

In base al testo dell’accordo, per prima cosa verrà limitato lo strapotere dei militari. Per ristabilire parzialmente lo stato di diritto, verrà istituito un Consiglio di difesa e sicurezza sotto la guida del primo ministro. Inoltre, verranno unificate le forze militari sudanesi in un unico esercito nazionale e saranno implementati controlli e sanzioni sulle compagnie militari private.

La comunità internazionale ha accolto favorevolmente questo primo accordo di transizione democratica. In particolare, Stati Uniti, Norvegia, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno avuto un ruolo determinante nell’esito delle trattative. Con un comunicato del Dipartimento di Stato, gli americani hanno dichiarato che l’accordo è «la base su cui poggiare un rinnovamento politico che includa tutti i cittadini del Sudan».

Tuttavia, l’accordo di transizione ha sollevato numerose critiche e perplessità da buona parte della società civile sudanese. In seguito alla firma dell’accordo, infatti, sono scoppiate violente proteste nella capitale. Le manifestazioni popolari, organizzate dal Comitato per la Resistenza, gruppo democratico dell’opposizione, sono state sedate con la forza.

Secondo quanto riportato da Al-Jazeera, i membri dell’opposizione ritengono che l’accordo di transizione non porterà a nessun cambiamento. Il mancato riferimento nell’accordo alla giustizia di transizione e alla riforma del settore securitario farebbe pensare ad un’impunità dei golpisti attualmente al potere. Il governo militare, infatti, avrebbe ucciso più di 100 civili dall’entrata in carica.

In risposta alle manifestazioni post-accordo, il generale Mohamed Hamdan Dagalo ha affermato che si impegnerà a tutelare il processo di transizione e si è scusato pubblicamente per «la violenza e gli errori verificatisi nella recente storia del Sudan». Dal canto loro, i manifestanti chiedono «giustizia per i martiri, processo per i militari e stato di diritto per tutte le comunità».

La sfida in Sudan non riguarda esclusivamente la democrazia, ne va della tenuta sociale stessa del Paese. Se l’accordo di transizione non verrà implementato, il Paese africano non potrà beneficiare dei prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, entrate necessarie per risollevare la critica situazione economica.

Per la stabilità del Sudan e della regione, è dunque urgente superare la crisi securitaria e istituzionale.