venerdì, 26 Aprile 2024
Home Blog Page 53

Perché c’è tensione tra Arabia Saudita e Stati Uniti

I leader dei paesi dell’OPEC+, organizzazione che riunisce i maggiori paesi esportatori di petrolio più la Russia, si sono riuniti a Vienna e hanno annunciato una riduzione significativa della produzione di petrolio pari a due milioni di barili al giorno.

La decisione, giustificata dalle prospettive di calo della domanda globale, rischia di rendere più difficile il contrasto al caro di energia in Occidente.

La mossa dell’OPEC+ è stata incoraggiata specialmente dall’Arabia Saudita, leader dell’organizzazione, che spera in questo modo di poter spingere al rialzo le quotazioni dopo il calo accusato negli ultimi tre mesi.

Lo scontento da parte Washington in seguito alla decisione dell’OPEC+ non tarda ad arrivare. Biden, preoccupato che a qualche settimana di distanza dalle elezioni di metà mandato il prezzo del petrolio salga troppo, ha chiesto all’Arabia Saudita di rinviare a dopo le elezioni il taglio della produzione petrolifera.

Dopo il rifiuto della proposta degli Usa da parte di Riad, le tensioni tra i due paesi si sono inasprite e la scelta dell’Arabia Saudita ha probabilmente rotto l’equilibrio in maniera definitiva, portando Biden ad affermare che «ci saranno conseguenze per il Regno».

Il presidente Usa, inoltre, accusa il Medio Oriente di un allineamento con la Russia. Secondo il Wall Street Journal, la diminuzione dell’offerta di petrolio da parte dell’OPEC+ porterà ad un aumento delle quotazioni a livello globale, effetto che aiuterà la Russia in quanto grande esportatore di greggio.

Per gli Stati Uniti, inoltre, la decisione ha contribuito all’innesco di numerosi problemi e temono che la decisione di imporre un price cap al petrolio presa dal G7 diventi inefficace davanti ad un nuovo aumento dei prezzi.

Il ministero degli esteri dell’Arabia Saudita ha però espresso rigetto per le dichiarazioni americane, ricordando che le decisioni dell’OPEC+ non sono basate sulla volontà di un singolo Paese, bensì vengono adottate attraverso il consenso della maggioranza. Queste decisioni sono basate su «considerazioni economiche che tengono conto dell’equilibrio tra domanda e offerta sui mercati petroliferi».

Mentre a Riad si cerca di spiegare la decisione presa dall’Organizzazione, dunque, a Washington si lavora per rivalutare le relazioni tra i due paesi.

La Casa Bianca, infatti, minaccia un congelamento di ogni tipo di cooperazione con i sauditi, compresa quella militare, da sempre di importanza primaria.

Nei prossimi giorni il quadro della situazione diventerà più chiaro.

In merito alle ultime dichiarazioni dell’America, tuttavia, il ministro degli Esteri saudita non ha esitato a sottolineare l’importanza della vendita di armi per la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente, oltre che per gli interessi dell’Arabia Saudita e degli stessi americani.

Tunisia, proteste popolari contro il Presidente Kais Saied

Migliaia di tunisini si sono riversati nelle piazze della capitale al grido di “Giù il Presidente”, “Rivolta contro il dittatore”, “Saied a casa”, come riporta Jeune Afrique. I dimostranti imputano al Presidente della Repubblica la difficile situazione in cui versa il Paese, con una crisi economica e un’inflazione senza precedenti.

Le proteste non sono acefale, ma sono organizzate da due forze politiche ascrivibili all’opposizione al regime di Saied. La prima di queste si chiama Fronte di salvezza nazionale e il suo rappresentante è il partito di ispirazione islamista Ennahda (“rinascita”) che, nella scalata al potere di Saied, è stato oggetto di una dura repressione. La seconda invece è il partito Neo-Dustur (“nuova Costituzione”), anti-islamista, ma anche contrario all’autoritarismo di stampo populista del Presidente.

La stampa indipendente tunisina ha sottolineato con stupore la vitalità del fronte dell’opposizione, come dimostrato dalla larga partecipazione alle proteste. Infatti, a seguito del congelamento delle attività del Parlamento e della presa dei pieni poteri del Presidente Saied del luglio 2021, la stragrande maggioranza dell’opposizione è stata indagata o arrestata. Il timore di ulteriori repressioni aveva fatto sì che le precedenti proteste scoppiate nel Paese fossero di carattere spontaneo o in genere meno strutturate.

Neanche in occasione della votazione del referendum costituzionale dello scorso luglio –referendum popolare volto ad approvare la nuova Costituzione– erano scesi in strada così tanti cittadini. Saied godeva infatti del consenso di una maggioranza silenziosa, disillusa nei confronti del parlamentarismo post-Primavera araba e desiderosa di stabilità politica e, principalmente, di benessere economico.

Tuttavia, il benessere economico tanto sperato non è arrivato. Le difficoltà della Tunisia, in crisi economica da almeno 10 anni, sono aumentate a causa della pandemia globale da Covid-19 e delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina. La diminuzione delle importazioni di derrate alimentari e di idrocarburi, di cui la Tunisia è fortemente dipendente, ha provocato un aumento dell’inflazione (+9%). Il dialogo con il Fondo Monetario Internazionale è aperto, ma l’impronta autoritaria del Presidente, insieme alla scarsa affidabilità dei conti pubblici, fa rallentare i negoziati.

Se non si troverà una soluzione alla crisi politica ed economica tunisina, il dramma si riverserà in Unione europea e, soprattutto, in Italia: è notizia di pochi giorni fa il naufragio al largo delle coste tunisine di una nave carica di migranti –sia cittadini tunisini sia dell’Africa Subsahariana– partita dal porto di Zarzis come riporta Al Araby.

A Zarzis sono scoppiate in seguito forti proteste cariche di indignazione e rabbia nei confronti della Guardia costiera tunisina che non sarebbe intervenuta nel salvataggio dei migranti. Il malcontento, dunque, sembrerebbe diffuso e in crescita in tutto il Paese.

Premio Sakharov, Julian Assange fra i finalisti

Il premio Sakharov, pensato per premiare gli sforzi di organizzazioni o individui che si sono impegnati nella difesa dei diritti dell’uomo, potrebbe essere consegnato al fondatore di Wikileaks, detenuto dal 2019 in Gran Bretagna e a rischio di estradizione negli Stati Uniti dove rischierebbe di finire i suoi giorni in prigione.

Il giornalista, attivista ed informatico è diventato famoso nel 2010 dopo aver rivelato una serie di crimini di guerra americani compiuti in Afghanistan, di cui le prove furono pubblicate sul sito Wikileaks, che già da anni si occupava di pubblicare informazioni riservate su presunti crimini e abusi di potere da parte di governi e singoli capi di stato in tutto il mondo. Negli Stati Uniti su Assange pendono diversi capi di accusa, fra cui quella di spionaggio, che potrebbe risultare in una condanna a più di 100 anni di carcere.

La proposta di nominare Assange è partita dal movimento 5 stelle, che senza alcun appoggio da parte di altri partiti politici è riuscito a raccogliere 40 preferenze trasversali in tutto il parlamento europeo, garantendo così al candidato di apparire nella lista dei tre finalisti che includono anche il popolo ucraino (rappresentato dal presidente Zelensky) e la commissione Verità in Colombia.

La conferenza dei presidenti del Parlamento europeo deciderà il nome del vincitore verso la fine di ottobre ed è altamente probabile che la scelta ricada sul presidente Zelensky.

Come riportato da  europatoday.it, il premio verrà conferito il 14 dicembre, e l’auspicio dell’eurodeputata Sabrina Pignedoli, che ha proposto il nome di Assange per il premio, è quello di vedere il fondatore di Wikileaks da uomo libero in parlamento quando verrà annunciato il vincitore.

La presenza del padre di Wikileaks alle finali della selezione è già di per sé una vittoria per la sua famiglia e i suoi sostenitori poiché, nonostante si tratti di una vicenda di più di 10 anni fa, è ancora molto sentita a livello internazionale e attorno ad essa si sono concentrati molti dibattiti e proteste a favore della libertà di espressione.

Strage nel poligono militare russo di Belgorod

Nella serata di sabato 15 ottobre, il Ministero della difesa della Federazione Russa ha dichiarato che, a seguito della sparatoria avvenuta nel poligono situato nell’oblast’ di Belgorod (centro addestramento in cui i neo mobilitati soldati svolgono un periodo di formazione prima di raggiungere i connazionali sul fronte ucraino) sono morte 11 persone e altre 15 sono rimaste ferite. Questo stando a quanto riporta il Kommersant, quotidiano fondato nel 1989 in Russia.

Sempre secondo la notizia, ad aprire il fuoco sono stati due cittadini di paesi appartenenti alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), un’organizzazione internazionale con sede a Minsk, composta da nove delle quindici ex repubbliche sovietiche, cui si aggiunge il Turkmenistan come membro associato. I due sono stati immediatamente uccisi dalla sicurezza della struttura.

La BBC Russian news riporta come nelle ore successive all’ episodio, la notizia sia stata diffusa anche da vari quotidiani, non trovando però un riscontro comune non solo nel numero delle vittime (una cifra non definita che oscilla fra le 10 e le 22 persone) ma anche nella provenienza degli artefici e nell’ora presunta in cui si sarebbe consumato il pluriomicidio:

Il Ministero della difesa russo ha etichettato tale episodio come terroristico, senza però spiegare come e perché in un poligono militare federale si trovassero cittadini stranieri armati, benché appartenenti alla già citata CSI. La sensazione è che si tratti di volontari che avessero precedentemente fatto richiesta per prendere parte alla cosiddetta “operazione militare speciale” tra le fila dell’esercito russo.

Non bisogna dimenticare infatti che il Cremlino ha approvato, a partire dal mese di settembre dell’anno corrente, l’avviamento di una procedura semplificata volta all’ottenimento della cittadinanza russa per quegli stranieri che manifestino la volontà di arruolarsi nell’esercito russo e prendere parte alla “denazificazione” dell’Ucraina.

Parallelamente, altre fonti d’informazione russe riportano che, benché non ci siano ancora testimonianze dirette o conferme attendibili al riguardo, i responsabili di questa sparatoria siano originari dell’oblast’ di Brjansk, situato tra la pianura russa occidentale e la parte ovest del Rialto centrale russo.

Riguardo il momento dell’attentato, il dicastero federale lo colloca temporalmente nella tarda sera, intorno alle ore 21 di sabato 15 ottobre, mentre altre testate fanno riferimento alla mattina, durante le quotidiane esercitazioni che hanno luogo intorno alle ore 10.

Nei prossimi giorni sarà resa nota la verità di un episodio grave che, nella sua natura, è anche dimostrazione del fatto che non tutto sta andando “secondo i piani” come ripete dall’inizio della guerra il presidente russo Vladimir Putin.

Arrestati i responsabili dell’esplosione sul Ponte di Crimea

«5 cittadini russi e 3 cittadini ucraini e armeni sono stati arrestati in quanto responsabili dell’esplosione avvenuta lo scorso 8 ottobre sul Ponte di Crimea». Questo è quanto affermato dalla Federal’naja služba bezopasnosti russa (FSB), ovvero organo federale che svolge compiti per garantire la sicurezza interna della Russia. Sin da subito Putin si era espresso sull’episodio, etichettando l’atto come terroristico. Secondo la ricostruzione, il piano è stato organizzato da Kyrylo Oleksiyovych Budanov, capo della direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa dell’Ucraina. Budanov è inoltre riuscito a coinvolgere nell’attuazione materiale dell’attentato almeno 12 persone.

Non si è fatta attendere la risposta dell’Ucraina che ha categoricamente rigettato le accuse mosse contro loro, definendole un’assurdità al pari dell’essenza stessa dell’operato che svolge regolarmente l’ente federale russo, ritenuto «al completo servizio del regime di Putin» e per questo non meritevole di esaurienti repliche.

Tornando alla versione russa, l’ordigno esplosivo sarebbe stato camuffato in rotoli di pellicola di polietilene da costruzione per un peso totale di oltre 22 tonnellate e spedito dal porto di Odessa alla città bulgara di Ruse all’inizio di agosto.

Successivamente, il carico è stato trasportato sino a Erevan, capitale armena: il tutto è stato possibile grazie alle normative e a quei consensi che garantisce l’Unione economica eurasiatica (collaborazione economica tra Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia, sorta dalle ceneri della precedente Comunità economica eurasiatica). I documenti “incriminati” certificano i ruoli di questo scambio commerciale fittizio: il mittente era una società armena, mentre il destinatario una società moscovita.

Il 4 ottobre il carico è stato presumibilmente trasportato da un camion DAF immatricolato in Georgia attraverso il confine russo-georgiano e il 6 ottobre è stato consegnato e scaricato in una base all’ingrosso di Armavir, città dell’oblast’ di Krasnodar.

L’indagine precisa come, per tutto il tragitto, il movimento del carico e i contatti con i partecipanti allo schema criminale di trasporto sono stati monitorati e coordinati da un ufficiale del Servizio di Sicurezza dello Stato dell’Ucraina.

Infine, sempre secondo la ricostruzione dell’intelligence russa, nella giornata di venerdì 7 ottobre i documenti relativi alla merce sono stati nuovamente modificati, designando come destinatario del carico un’azienda inesistente nella Repubblica di Crimea.

Biden: Putin ha sbagliato i calcoli ma è un attore razionale

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato di ritenere il Presidente russo Vladimir Putin un «attore razionale che ha sbagliato notevolmente i calcoli» riguardo alla guerra ucraina. In tal senso, la scorsa settimana ha affermato che il rischio di nucleare è «al punto più alto degli ultimi 60 anni».

Dall’inizio della guerra, Biden e i leader occidentali stanno dibattendo su quali passi Putin potrebbe compiere e se stia agendo razionalmente. Biden ha definito «ridicoli» gli obiettivi del leader russo in Ucraina, tra cui «essere il leader della Russia che unisce tutti i russofoni».

Secondo il Presidente degli Stati Uniti, Putin ha commesso l’errore di dare per scontato che gli ucraini si sarebbero sottomessi all’invasione russa, previsione presto smentita dalla sentita resistenza ucraina. «Credo che (Putin) pensasse che sarebbe stato accolto a braccia aperte, che a Kiev avrebbe trovato la casa della Madre Russia: ma ha completamente sbagliato i calcoli», afferma Biden.

La controffensiva lanciata dall’Ucraina il mese scorso è infatti riuscita a riconquistare il territorio precedentemente detenuto dai russi, compresi gli snodi critici dei trasporti. Le perdite si sono rivelate imbarazzanti per la Russia, il cui esercito ha faticato molto negli ultimi mesi.

Tuttavia, questa settimana la Russia ha lanciato una delle campagne di bombardamento più feroci dall’inizio della guerra fino alla città occidentale di Lviv, a centinaia di chilometri dai principali teatri di guerra nell’Ucraina orientale e meridionale, causando 19 vittime e più di 100 feriti in tutto il Paese.

A tal proposito, Biden ha incontrato virtualmente i membri del Gruppo dei 7 Paesi più industrializzati (G7), che hanno ascoltato il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky sulla necessità di rafforzare le difese aeree nazionali in seguito ai nuovi bombardamenti russi. Zelensky ha affermato che «gli sforzi comuni per creare uno scudo aereo per l’Ucraina devono essere intensificati in mezzo alla raffica di missili da crociera e di droni russi».

I funzionari della Casa Bianca hanno dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a rafforzare ulteriormente le difese aeree dell’Ucraina, anche attraverso i sistemi di difesa missilistica, la cui consegna è stata accelerata da Biden durante l’estate.

Dal canto suo, Putin potrebbe impiegare nuove tattiche per terrorizzare gli ucraini all’approssimarsi dell’inverno, come dimostra l’intenso assalto aereo della Russia sulla capitale ucraina Kyiv e le sue infrastrutture civili.

Perù: denunciato il presidente Pedro Castillo

Martedì 11 ottobre, a Lima, dinanzi al Congresso della Repubblica, la procuratrice generale Patricia Benavides ha presentato una denuncia costituzionale contro il presidente Pedro Castillo Terrones, accusato di aver fondato ed essere a capo di un’organizzazione criminale, di traffico di influenze illecite e di collusione in tre diversi casi. 

La denuncia si estende anche ad altri membri della presunta organizzazione, tra cui un uomo d’affari vicino al Presidente e quattro ex consiglieri, arrestati in via preliminare per il loro presunto coinvolgimento. 

Sembrerebbero essere coinvolti nel caso anche dei deputati, chiamati dall’opposizione e dai media “Los Niños”, accusati di aver favorito l’attività illecita del Presidente in cambio di appoggio al governo. 

Stando a quanto dichiarato dalla Procura, l’organizzazione avrebbe la finalità di controllare e dirigere i processi di appalti statali al fine di ottenere profitti illeciti. Dalle indagini svolte infatti si sarebbe scoperto l’ottenimento di benefici economici per nomine in posizioni chiave, la riscossione di percentuali di gare d’appalto ottenute illecitamente e l’uso illecito dei poteri presidenziali. 

Nel corso delle indagini, la Procura ha fatto perquisire l’abitazione della sorella del Presidente e gli uffici e residenze di alcuni parlamentari del partito centrista Acción Popular (AP). In risposta all’azione della Procura, il presidente peruviano ha dichiarato in un tweet: “La Procura è entrata in casa di mia sorella. Mia madre si trova lì. Questo atto offensivo ha avuto ripercussioni sulla sua salute. Ritengo la Procura Generale responsabile della salute di mia madre.”

Il Presidente, in quanto tale, gode dell’esenzione legale, ovvero dell’immunità, e non può essere accusato di reati dai tribunali. Per questo, la Procura è dovuta ricorrere a un reclamo costituzionale, una procedura speciale che si applica esclusivamente agli alti funzionari statali e che permette di accertare la commissione di reati nell’esercizio delle loro funzioni. 

Per presentare una denuncia penale nei confronti del Presidente e adire la Corte Suprema di Giustizia è però necessaria l’approvazione del Congresso.

Secondo quanto riportato da BBC Mundo, in un primo momento il presidente Castillo si è difeso dalle accusa affermando di essere disposto a “dare la vita” per il bene del popolo, e ha poi denunciato, in sede di conferenza stampa, di trovarsi di fronte a “una nuova forma di colpo di Stato”. 

Non è la prima volta che il Presidente viene accusato di corruzione e attività illecite. Castillo è ora coinvolto, insieme a sua moglie, in sei indagini della Procura, ed è sopravvissuto a due tentativi di impeachment. Seppur afflitto da una serie di cause giudiziarie, il Presidente ha fermamente espresso la propria volontà di tener testa a questi affronti e portare a termine il proprio mandato.

Ciononostante, la denuncia costituzionale costituisce per i suoi rivali al Congresso una nuova opportunità per cercare di destituirlo dalla carica.

L’inverno nel deserto, l’Arabia Saudita ospiterà i Giochi asiatici invernali del 2029

Per l’Arabia Saudita tutto è possibile, perfino sciare circondati da dune di sabbia: il suo deserto diventerà presto un parco giochi per gli sport invernali.

È così che si svolgeranno i Giochi asiatici invernali del 2029, in una megalopoli futuristica ancora in costruzione, che si chiamerà Neom.

Il progetto, da 500 miliardi di dollari, comprende un’area nominata “The Line”, che sarà caratterizzata da un resort invernale aperto tutto l’anno, chiamato Trojena, costruito appositamente per ospitare i giochi invernali.

La costruzione di Trojena, che includerà diversi hotel di lusso, un lago artificiale e una riserva naturale, verrà completata entro il 2026.

La zona sarà dotata di infrastrutture adeguate a creare l’atmosfera invernale nel cuore del deserto e a rendere la nona edizione dei Giochi asiatici invernali un evento senza precedenti.

Il ministro dello sport saudita, il principe Abdulaziz Bin Turki Al-Faisal, si è dichiarato «orgoglioso di aver vinto la gara per ospitare L’AWG TROJENA2029 come primo paese dell’Asia Occidentale», citando il supporto fondamentale al settore sportivo da parte di Sua Altezza Reale il principe ereditario Mohammed bin Salman, secondo quanto riportato dal The Guardian.

La costruzione di Neom, infatti, è l’ambizioso progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman nell’ambito del piano di sviluppo Vision 2030 del regno saudita, che punta a dare maggiore rilievo allo sport e a ridurre la dipendenza del paese dal petrolio trasformando l’economia.

Neom verrà costruita nella provincia di Tabuk, sul Mar Rosso. La metropoli all’avanguardia si estenderà su 26.500 chilometri quadrati, mentre l’area chiamata “The Line”, che si svilupperà in lunghezza, sarà a zero emissioni di CO2.

Secondo il governo locale, inoltre, coloro che visiteranno la megalopoli potranno godere di tutti i servizi utili per soddisfare le necessità quotidiane, oltre ad avere accesso agli impianti sciistici e ad un’ampia offerta di diverse attrazioni: negozi, ristoranti, sport acquatici e ciclismo.

Il complesso comprenderà anche le Slope Residences, lussuose abitazioni con vista panoramica sul lago, progettate per riflettere la bellezza dell’ambiente circostante.

L’unicità di questo progetto ha posto l’Arabia Saudita sotto i riflettori, suscitando numerosi dubbi in merito al reale impatto ambientale e climatico che potrà avere.

C’è chi accusa Mohammed bin Salman di greenwashing, chi invece incoraggia il suo ambizioso e creativo progetto, in quanto possibilità di costruire una nuova città completamente sostenibile, alimentata da energia solare ed eolica e a emissioni zero.

Costruire una città che sia così innovativa e allo stesso tempo all’altezza delle sue credenziali ecosostenibili, è davvero possibile? Non resta che attendere la risposta.

Lesotho, il partito Rivoluzione per la Prosperità vince le elezioni politiche

Il partito Rivoluzione per la Prosperità (RPP) ha vinto le ultime elezioni legislative del Regno del Lesotho, a scapito dei principali partiti tradizionali. Il partito Unione dei Basotho, a capo della coalizione del governo uscente, ha infatti registrato la peggiore sconfitta degli ultimi anni, conquistando solamente 8 seggi.

Come riporta TV5 Monde, la ricerca di novità e cambiamento dei cittadini basotho ha premiato una nuova forza politica, il cui rappresentante è il ricco uomo d’affari Sam Maketane. Estraneo alle dinamiche politiche, è il classico prototipo del self made man: di umili origini, è riuscito a passare dall’allevamento di asini ad un settore redditizio come quello dei diamanti, che gli ha permesso a sua volta di disporre di un grosso capitale da investire in iniziative aziendali.

Tale biografia ha accresciuto il carisma di Maketane di fronte agli occhi dell’elettorato. È importante sottolineare che, il Lesotho, piccola enclave montagnosa del Sudafrica, è classificato tra gli Stati più poveri al mondo, con un terzo della popolazione che percepisce come reddito medio 1,90$ al giorno. Nell’immaginario collettivo, quindi, il milionario Maketane è fonte di ammirazione e di emulazione.

Inoltre, il programma politico del partito RPP ha come punti chiave lo sviluppo economico del Paese, la riduzione delle disuguaglianze e la lotta contro la corruzione del sistema politico. Obiettivi assolutamente prioritari per la riforma del Lesotho.

Tuttavia, il partito RPP, non è riuscito a ottenere i 61 seggi che gli avrebbero permesso di governare il Paese da solo. In Lesotho vige infatti una legge elettorale proporzionale, con un premio di maggioranza per il partito che riesce a ottenere i due terzi dei voti in Assemblea Nazionale.

Dopo un giorno di trattative, il partito di Maketane ha raggiunto un accordo per un governo di coalizione insieme a due partiti di centro-sinistra, Alleanza dei Democratici e Movimento per il Cambiamento Economico. Dato l’orientamento politico simile, si è giunti ad un compromesso in breve tempo.

Il nuovo governo sarà già operativo nelle prossime settimane. Durante la prima conferenza a seguito delle elezioni, come riporta il sito ufficiale del governo basotho, Makane ha dichiarato di essere pronto a cambiare il Lesotho. Per prima cosa verrà garantito a tutti l’accesso all’elettricità e all’acqua e, successivamente, verranno attuate le riforme economiche e i lavori infrastrutturali che permetteranno al Regno di svilupparsi.

Caos Climatico: l’ONU chiede aiuto per il Pakistan

Il Pakistan è uno dei primi dieci paesi più vulnerabili al cambiamento climatico. Lo dimostrano le inondazioni senza precedenti che hanno sommerso quasi un terzo del paese.

Secondo le stime più recenti, le precipitazioni e le inondazioni verificatesi negli ultimi due mesi hanno fatto registrare almeno 1.700 morti e 12.800 feriti, di cui almeno 4.000 sono bambini. Le persone costrette a fuggire dal paese sono state circa 7,9 milioni.

Le province di Sindh, Belucistan e Khyber Pakhtunkhwa sono state le più colpite, con 80 distretti per i quali è stato dichiarato lo “stato di calamità”.

In seguito al disastro, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione per un migliore accesso ai finanziamenti internazionali per aiutare le nazioni in via di sviluppo ad affrontare le conseguenze sempre più disastrose del cambiamento climatico.

In vista della ventisettesima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la COP27, che si terrà dal 6 al 18 novembre 2022 in Egitto, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dichiarato che dovrà essere preso un serio provvedimento per le perdite e i danni. « La COP27 dovrà essere il luogo per fare chiarezza sui finanziamenti vitali per l’adattamento e la resilienza », secondo quanto riportato da Al Jazeera.

L’ONU ha invitato inoltre la comunità internazionale a rafforzare l’assistenza umanitaria e la riabilitazione del Pakistan. In risposta, il ministro degli esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha affermato che le inondazioni dell’Asia meridionale sono una dimostrazione delle conseguenze drammatiche che la crisi climatica sta avendo in tutte le regioni. Per questo motivo, la Germania lavorerà per un’equa ripartizione dei costi alla COP27, ponendo all’ordine del giorno la questione dell’adattamento climatico.

Il piano ONU di risposta alle inondazioni, redatto per la prima volta a inizio settembre 2022, è stato rivisto e lanciato di nuovo lo scorso 4 ottobre per supportare il governo del Pakistan.

L’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, non può aspettare che si riunisca la COP27 e rinnova l’appello ad assicurare maggiore sostegno al Paese e al suo popolo chiedendo finanziamenti supplementari per far fronte alle più pressanti esigenze di rifugiati e comunità di accoglienza.

L’obiettivo dell’appello è anche quello di garantire il sostegno alle comunità di riparo, assistenza sanitaria, approvvigionamento idrico, servizi igienico-sanitari e istruzione, oltre a ripristinare i servizi pubblici danneggiati.

Dallo scoppio della crisi, l’UNHCR supporta il piano di risposta gestito dal Governo nelle aree colpite nelle quali si registra un’alta concentrazione di rifugiati.

A settembre 2022, in meno di quattro settimane l’UNHCR ha consegnato oltre 10.000 tonnellate di aiuti provenienti dai magazzini e dai fornitori operativi in Pakistan e dai poli di stoccaggio regionali e internazionali di Termez e Dubai, inviando circa 300 camion e completando 23 ponti aerei.